venerdì, marzo 31, 2023

LA CRISI DEMOGRAFICA IN ATTO COLPISCE A MORTE GLI ATENEI UNIVERSITARI. NEL 2040 IN ITALIA ANCHE UNIVERSITÀ PRESTIGIOSE SARANNO IN FORTE SOFFERENZA.


Oristano 31 marzo 2023

Cari amici,

Voglio chiudere i post di marzo con una riflessione sullo spopolamento. La Sardegna, purtroppo, vanta il triste primato di scarsità di nascite in Italia, e questo causerà seri problemi in tutti i campi, compreso quello della cultura. Se l’Italia, da numerosi anni, sta attraversando una fase costante di invecchiamento della popolazione la nostra isola si colloca al primo posto! Si, una triste crisi demografica che, tra le tante implicazioni, sta mettendo a rischio le frequenze presso diverse Università italiane, alcune delle quali, presumibilmente verso il 2040, rischiano addirittura la chiusura. La possibile estinzione di alcuni atenei è dovuta principalmente all’elevata età media della popolazione: insomma l’Italia è praticamente diventata un Paese di vecchi. Il costante calo delle nascite comporterà, presumibilmente nell’arco di vent’anni, la perdita della maggior parte degli immatricolati.

I dati ISTAT confermano che il tasso di natalità continua inesorabilmente a diminuire: la media di figli per donna, calcolato nel periodo 2018 - 2021, è di 1,32 cadauna. Tale numero risulta, tra l’altro, in continua netta diminuzione fin dal 2008.  In contropartita, sono per fortuna in forte aumento la longevità, i miglioramenti in campo medico e la qualità della vita. Questa pericolosa situazione sul calo demografico avrà negativi risvolti in molti campi, da quello del mercato del lavoro alle pensioni ed a quello della formazione scolastica.

Gli Istituti che si occupano di ricerca hanno evidenziato, in particolare, che il problema principale della crisi demografica si ripercuoterà innanzitutto in ambito educativo. Secondo i dati ISTAT l’effetto del calo demografico avrà conseguenze pericolose in tempi brevi. Nei prossimi venti anni è previsto che la popolazione compresa tra i 18 e i 20 anni diminuisca fino a diventare l’85% di quella del 2021. Inoltre, la quota degli immatricolati a facoltà universitarie potrebbe ridursi a 260.000 persone. Proseguendo con le previsioni ancora a più lungo termine, possiamo affermare che entro il 2040 in molte Università potrebbero non esserci più iscritti!

Amici, nel 2040, tutti i 10 grandi atenei che oggi attraggono il maggior numero di immatricolati da altre regioni (Bologna, La Sapienza, Ferrara, Politecnico di Milano, Milano Cattolica, Perugia, Padova, Parma, Torino Politecnico e Trento) potrebbero registrare contrazioni nelle immatricolazioni di “fuori sede” provenienti da altre regioni superiori al 20%. In pratica, molti corsi di laurea potrebbero sparire per l’assenza di un numero sufficiente di alunni, con inevitabili ripercussioni sul corpo docente e sul livello di competenze tecniche e professionali disponibili sul mercato del lavoro italiano.

La situazione è critica nel Sud Italia ma anche nel Nord, l’inverno demografico inizia a farsi sentire. Gli atenei più esposti al declino demografico nei prossimi anni saranno quelli le cui sedi didattiche sono situate nel Mezzogiorno. La zona del Sud Italia è indubbiamente quella più sensibile alla crisi demografica. Già oggi i tassi di immatricolazione sono minori rispetto al resto dell’Italia. In 20 anni è stimato che si arriverà ad avere il 77% di calo ulteriore. Sicuramente la crisi demografica del Sud non è una novità, ma, a maggior ragione, bisogna mettere in atto delle modifiche al sistema scolastico per disincentivare questo deficit.

Amici, di certo la crisi demografica, relativamente all’istruzione universitaria, dovrà essere affrontata oggi, cercando quelle trasformazioni capaci di mettere un freno alla mancanza di iscrizioni ed alla conseguente possibile chiusura. Trasformazioni che significano “rinnovamento”, ovvero mettendo in atto dei cambiamenti assolutamente necessari. Per esempio, pensare al ricorso alla didattica a distanza potrebbe essere un buon modo per iniziare ad internazionalizzare le Università. Un modello interessante da adottare potrebbe essere quello misto: didattica in presenza e didattica a distanza. In questo modo si raccoglierebbero studenti non solo locali ma anche provenienti dall’estero, come dalla vicina, confinante Africa.

Un rapporto del “Talents Venture” (è questa una società di consulenza specializzata in servizi di sviluppo di soluzioni a sostegno dell'istruzione universitaria), riporta testualmente che: “Nel 2040 ci saranno circa 190 milioni di giovani africani in età universitaria. Questo bacino rappresenta un’opportunità per gli atenei del nostro Paese. Gli atenei italiani infatti – persa la sfida di attrarre le popolazione in crescita negli anni precedenti (Sud America, Cina ed India) – possono pensare di attrarre, anche grazie alla vicinanza geografica, i giovani africani che potrebbero giocare un ruolo cruciale nella composizione degli atenei italiani dei prossimi anni”.

Cari amici, personalmente credo che questa via sia quella giusta e fruttuosa da percorrere, una strada che non può essere ignorata, ma utilizzata come nuovo potenziale per tamponare l’emorragia di iscritti nelle Università a rischio chiusura per il calo demografico. L’invito agli atenei è dunque quello di prepararsi subito ad affrontare il futuro, portando avanti, fin da oggi, un lavoro ben strutturato, capace di promuovere l’internalizzazione e contribuendo così alla cooperazione allargata: tutti seri obiettivi che l’università italiana deve darsi.

A domani.

Mario

 

giovedì, marzo 30, 2023

IN SPAGNA, TRA LE MONTAGNE DELL'ARAGONA, UNA STAZIONE FERROVIARIA LUSSUOSA MA ABBANDONATA, CONSIDERATA IL “TITANIC DELLE MONTAGNE”, HA RITROVATO NUOVA VITA.


Oristano 30 marzo 2023

Cari amici,

A volte certe opere nascono con uno scopo, magari alquanto luminoso e capace di dare lustro, ma poi si rivelano tutt’altro. Credo che anche la storia che sto per raccontare passi per queste forche caudine. Le ferrovie spagnole, che percorrono gran parte del territorio nazionale, attraversano anche la Regione autonoma dell'Aragona, divisa come ben sappiamo in 3 Province: Saragozza, Huesca e Teruel. La provincia di Huesca è alquanto montagnosa, tanto che la stazione di Canfranc è situata a circa 1.000 metri d’altezza. Huesca (in aragonese Uesca, in Latino Osca) è anche il nome del comune capoluogo: conta oltre 52mila abitanti, è sede vescovile e anche sede decentrata dell'Universidad de Zaragoza (Saragozza è la capitale dell’Aragona).

Proprio a Canfranc, centro situato tra le montagne, si pensò di costruire una grandiosa stazione ferroviaria, capace di eguagliare le grandi cattedrali ferroviarie europee. Ideata già nel 1853, fu inaugurata nel 1928. Sitata a circa 1000 metri sopra il livello del mare, questa struttura ferroviaria divenne nota come il “Titanic delle montagne” o il mausoleo dei Pirenei. Questa stazione, in passato, è stata anche testimone di alcuni episodi della Seconda Guerra Mondiale; episodi certamente esagerati da dicerie e leggende, ma che trovano un fondo di verità nelle fonti storiche.

Canfranc fu usata, infatti, dal regime franchista come luogo di scambio di tungsteno, materiale necessario per la costruzione di carri armati, con oro nazista. Ma non solo: si dice che fu via di fuga per gli ebrei durante le persecuzioni francesi a Vichy. Storia non accertata, ma sembrerebbe, comunque, che alcuni ebrei la usarono come passaggio per scappare. Una stazione quindi ricca di storia, ma una storia che non è bastata a valorizzarla e a renderla abbastanza importante da non essere abbandonata, come invece poi è successo: l'oblio la colse, infatti, poco più di cinquant’anni dopo.

Ebbene, come però a volte succede, la Grande Cattedrale ferroviaria che doveva diventare una delle stazioni più belle d’Europa, seppure non riuscì a primeggiare nello scopo iniziale, potrebbe ugualmente arrivare allo scopo, anche se in altra veste. Dichiarata Bene di Interesse Culturale nel 2002, divenne parte del Patrimonio Storico Culturale Ferroviario; poi, grazie a un investimento di 27 milioni di euro, di cui 12 finanziati dallo Stato, la stazione è stata trasformata in un albergo lussuoso dal Barceló Hotel Group. Si, ora la ex stazione è diventata un particolare luogo turistico d’eccellenza, che con la sua struttura archeologica-industriale, si è trasformata in un apprezzato hotel di lusso.

Si, amici, l'antica stazione è stata fatta rinascere a nuova vita come hotel di lusso dal Barceló Hotel Group, e, con le sue 104 camere, un ristorante attrezzato negli antichi vagoni storici è un Hotel 5 stelle, inaugurato il 24 gennaio 2023, è ora un vero gioiello. La ristrutturazione ha mantenuto pressoché invariata la facciata della stazione con le sue 365 finestre e la banchina lunga 200 metri. Le 104 camere sono state invece progettate con spazi caldi ed eleganti, che si fondono con sottili elementi art déco per creare ambienti contemporanei ma nostalgici allo stesso tempo; sono stati usati materiali nobili come legno e ottone, tessuti pregiati come il velluto e una gamma di colori ispirata agli anni ’20. L’integrazione della cultura popolare aragonese si ritrova in alcuni elementi tessili e con cromie ispirate ai ricchi e variegati costumi regionali della zona.

Davvero uno straordinario lavoro, portato avanti da validi architetti! L’ex sala prenotazioni, per esempio, è diventata la reception e due vagoni ferroviari storici funzionano egregiamente come ristoranti. All’interno è presente anche un centro congressi da 200 posti, un museo ferroviario, negozi e un rifugio per i pellegrini impegnati nel cammino di Santiago de Compostela. Tuttavia, come riporta il giornale on line “Tag43.it”, il progetto per la riqualificazione di Canfranc non termina qui. La Regione autonoma dell’Aragona vuole provare a riaprire lo scambio con la Francia, un servizio che in passato aveva reso la stazione tanto importante. Davanti al nuovo hotel è stata infatti realizzata una nuova stazione che, per ora, è il capolinea della tratta per Saragozza, ma con la speranza di riaprire il collegamento internazionale. L’idea è quella di riattivare il tunnel del Somport, così da collegare Saragozza a Canfranc e a Pau, in Francia.

Cari amici, che dire…a me il recupero di strutture del passato (in Sardegna abbiamo tanti siti di archeologia industriale), riproposte a livello turistico per le esigenze odierne, mi sembra una meravigliosa operazione di recupero, oltre che di riciclo! Operazioni, di questi tempi, assolutamente da ammirare e condividere!

A domani.

Mario

 

mercoledì, marzo 29, 2023

L’AMERICA: CHI L’HA SCOPERTA PER PRIMO? CRISTOFORO COLOMBO O I VICHINGHI? ECCO COSA DICONO LE SCOPERTE PIÙ RECENTI.


Oristano 29 marzo 2023

Cari amici,

Il dubbio che l’America non fosse stata scoperta da Cristoforo Colombo esiste da tempo, in quanto diversi studiosi accreditavano la possibilità che altri popoli europei fossero arrivati prima nel nuovo Continente. Ora, scoperte più recenti accreditano. in modo alquanto più concreto. questa possibilità. A mettere nero su bianco su questa possibilità è stato il libro del professor Paolo Chiesa che è appena arrivato in libreria: porta il titolo “Marklada, quando l’America aveva un altro nome”, diffuso dalle edizioni Laterza.

Nel libro viene raccontata l’intricata vicenda che ha portato alla straordinaria rivelazione che l’America fosse conosciuta oltre 150 anni prima che le caravelle di Colombo lambissero le sue coste. Grazie allo studio di un manoscritto inedito del frate e cronachista Galvano Fiamma, battuto all’asta di Sotheby’s nel 1998, il professor Paolo Chiesa, docente di letteratura latina medievale e filologia mediolatina alla Statale di Milano, è riuscito a ricostruire (grazie anche alla collaborazione dei suoi laureandi nella fase di traduzione dal latino medievale), memorie e testimonianze che confermano la presenza di navigatori europei in una terra chiamata Marckalada, connessa alla Groenlandia, in cui vivono orsi bianchi in grado di nuotare e specie di grandi uccelli, considerate assolutamente attendibili.

Fino ad oggi l’ufficialità della scoperta dell’America porta la data del 1492, effettuata dall’esploratore italiano Cristoforo Colombo che navigò in cerca delle Indie, smarrendo la via programmata e approdando in un vastissimo continente sconosciuto. La sua spedizione si basava sulle antiche mappe redatte da Marco Polo e sul parere favorevole del matematico e cartografo Paolo Toscanelli. Colombo, come sappiamo, dopo essersi recato nel 1487 dai sovrani di Spagna Isabella e Ferdinando, salpò con le tre caravelle la Pinta, la Santa Maria e la Niña, ritrovandosi senza saperlo in un posto nuovo: era l’America. Ma la storia, amici, potrebbe essere andata diversamente.

Il primo serio sospetto che non sia stato Cristoforo Colombo a trovare il nuovo continente è maturato negli anni Sessanta del secolo scorso. La presenza dei vichinghi su suolo americano sembrò trovare conferma nei reperti archeologici rivenuti nel sito Anse aux Meadows in Canada. A studiarli di recente è stato Michael Dee dell'Università di Groeningen, nei Paesi Bassi, insieme a un team di esperti internazionale. Questa straordinaria ipotesi, avallata dall’analisi dei ritrovamenti in legno che recavano traccia di una tempesta solare, permette anche di azzardare una data molto precisa che colloca i vichinghi nel Canada già nel 1021, anche se probabilmente per poco tempo, trattandosi di un popolo nomade e non stanziale.

Proprio lo studio dei resti di legno ritrovati, che erano stati lavorati in modo inequivocabile con il ferro, materiale che era sconosciuto ai nativi americani, ha fatto da motore alla ricerca.
Analizzando gli anelli di accrescimento dei tronchi del legno utilizzato, sono state identificate le tracce (su piante che in quell'epoca si trovavano in varie aree del Pianeta) di una violentissima tempesta solare che interessò la Terra nel 992 dopo Cristo. Come ha avuto modo di spiegare Margot Kuitems, responsabile della ricerca: «Trovare i segni della tempesta solare, seguiti da 29 anelli di crescita, ci ha permesso di concludere che gli alberi vennero tagliati nell'anno 1021 dopo Cristo».

Da questo ritrovamento è nata la certezza assoluta che i Vichinghi arrivarono in America ben prima di Colombo! Altre domande si pongono ora gli esperti, a cui occorre trovare una risposta. Quante furono le spedizioni che hanno raggiunto le coste nordamericane? Fu una sola o ce ne furono diverse, arrivarono con l'idea di colonizzare quei territori? Al momento sembra che la permanenza dei nordeuropei sul suolo americano non fu particolarmente lungo, si parla di qualche anno e non di più.

Cari amici, Che i Vichinghi siano stati in America ben prima di Cristoforo Colombo, a questo punto appare proprio una certezza. Rimane adesso da capire quante siano state le loro spedizioni che hanno raggiunto le coste nordamericane. Le ipotesi, per ora, parlano di permanenze brevi, ma chissà! Con la scoperta eventuale di nuovi siti, oltre quello di  Anse aux Meadows, l'unica colonia vichinga per ora rinvenuta, la storia potrebbe aggiungere altri tasselli al puzzle.

A domani.

Mario

 

martedì, marzo 28, 2023

LA SARDEGNA: PATRIA DI UN'IMMENSITA' DI MINERALI, TRA CUI IN PASSATO L'ANTIMONIO. LA LUNGA STORIA MINERARIA DELL’ISOLA.


Oristano 28 marzo 2023

Cari amici,

Che la Sardegna, terra fra le più antiche emerse, sia la patria di tantissimi minerali è alquanto noto, considerato il fatto che l'estrazione e la lavorazione di un gran numero di minerali risale a tempi antichissimi. La conferma ci è data dalle numerose testimonianze circa l'antica lavorazione dei metalli nell’isola, evidenziata dai numerosi manufatti risalenti addirittura alla preistoria. L’estrazione e l’utilizzo dei minerali esistenti nella nostra isola iniziò verosimilmente intorno al sesto millennio a.C., con l'attività di estrazione dell'ossidiana, presente alle pendici del Monte Arci, località posta nella parte centro-occidentale dell'isola.

Il Monte Arci fu uno dei più importanti centri mediterranei di estrazione e lavorazione di questo vetro vulcanico; in quest'area, le ricerche archeologiche hanno individuato almeno settanta centri di lavorazione e circa 160 insediamenti dai quali l'ossidiana veniva poi esportata con le navi nei Paesi affacciati sul Mediterraneo. Il popolo sardo degli Shardana, abili navigatori, guerrieri e commercianti, esportavano, fin dal periodo nuragico, le formidabili ricchezze del sottosuolo sardo. A testimoniare la presenza dei preziosi minerali restano i numerosi toponimi, legati all'attività estrattiva: come l’Argentiera, il Montiferru, Capo Ferrato e molti altri, a chiara testimonianza della secolare attività estrattiva.

La qualità e l’abbondanza dei minerali presenti sulla terra sarda, fecero sì che in Sardegna le conoscenze metallurgiche raggiunsero, fin da epoca nuragica, un elevato livello tecnico. La posizione geografica dell'isola, ma anche il suo patrimonio minerario, attrassero tra il X e l'VIII secolo a.C. i mercanti fenici, ai quali, attorno alla metà del VI secolo, subentrarono i cartaginesi. Fenici e cartaginesi sfruttarono intensamente le ricchezze minerarie, soprattutto nell'Iglesiente, dove sono state rinvenute tracce di escavazioni e scorie di fusione attribuibili a questo periodo. Un'intensa attività metallurgica, sia estrattiva che fusoria, è testimoniata, dal punto di vista archeologico, dai ricchi giacimenti metalliferi del Sarrabus, costituiti da minerali composti da ossidi e solfuri di ferro, rame e piombo. Di epoca preistorica è la famosa miniera di Funtana Raminosa nella Barbagia di Belvì.

L’estrazione dei minerali in Sardegna continuò senza interruzione col passare dei secoli; dal 238 a.C., con l’inizio della dominazione romana, l'attività mineraria crebbe intensamente, proseguendo in epoca medioevale (con l’aumento della produzione dell’argento). Al principio dell'XI secolo, nel periodo della dominazione pisana, nella zona dell'Iglesiente, i pisani ripresero i lavori abbandonati dai Romani, riaprendo numerose cave e riportando alla luce gli antichi filoni, in particolare per l’estrazione dell’argento, per coniare monete. Fonti storiche hanno documentato che le miniere sarde abbiano fornito a Pisa circa 15 tonnellate annue del prezioso metallo nel periodo che va dalla fine del XII secolo al principio del XIV secolo. Sotto il comune toscano, nel periodo del loro massimo splendore, le miniere intorno a Villa di Chiesa arrivarono ad occupare 6500 operai. A Villa di Chiesa funzionava la zecca,

L’attività estrattiva proseguì durante il periodo di dominazione spagnola (1.600) e in epoca sabauda (1.700). Nella seconda metà dell'800, nel Bacino carbonifero del Sulcis, furono attivate le prime attività di estrazione del carbone, a cui seguì lo sfruttamento del piombo e dello zinco. La Sardegna fu sfruttata, anche in tempi recenti, dalla possibile estrazione dell’oro: l'estrazione aurifera fu tentata dal 1997 al 2008 dalla società Sardinia Gold Mining, che fu autorizzata a svolgere questa attività mineraria nei pressi del comune di Furtei, creando, come ben sappiamo, i noti danni ambientali. Amici, il breve riassunto che ho fatto conferma che la Sardegna è stata sempre un grande sito minerario: un connubio straordinario, che ha legato l’Isola con l’estrazione di preziose materie prime dal sottosuolo.

Ebbene, tra i tanti minerali giacenti nelle viscere della nostra terra c’è anche l’antimonio, metallo antichissimo, utilizzato fin dagli antichi egizi nella lavorazione del rame e poi anche, soprattutto nel ‘900, dall’industria bellica e nelle tante altre lavorazioni come quelle di fiammiferi, tubature, farmaci e leghe di vario genere. In pochi sanno che per circa 80 anni la quasi totalità dell’antimonio estratto in Italia proveniva dalla Sardegna e da una miniera in particolare: quella di “Su Suergiu”, a Villasalto, borgo minerario di pregevole bellezza naturalistica e architettonica che per molti decenni è stato il cuore pulsante del Gerrei.

Cari amici, dopo molti secoli di boom economico prodotto dalle numerose, fiorenti industrie estrattive, una dopo l’altra, la quasi totalità delle miniere dell’Isola, ha cessato l’attività, e le vecchie miniere sono diventate siti dormienti di archeologia industriale. Ebbene, dopo un lungo abbandono sta avvenendo il risveglio: molti siti minerari ora si stanno riciclando come antichi luoghi con finalità turistiche, arricchiti dalla presenza di interessanti Musei Minerari. Indubbiamente una bella iniziativa, capace di incrementare il turismo, che condivido pienamente. Nella foto ingresso miniera di Porto Flavia - Iglesias.

A domani.

Mario

lunedì, marzo 27, 2023

LA CURIOSA STORIA DI UN VILLAGGIO MAI NATO: IL FALLIMENTO DI UN’OPERAZIONE IMMOBILIARE LUSSUOSA IN TURCHIA, CON 732 CASTELLI RIMASTI “INCANTATI”, HA DATO VITA AD UNA CITTÀ FANTASMA.


Oristano 27 marzo 2023

Cari amici,

Indubbiamente l’idea iniziale doveva apparire straordinaria e grandemente fruttuosa: costruire in Turchia un bel villaggio vacanze di alto livello, una location per ricchi investitori dei Paesi del Golfo, che, una volta realizzato, avrebbero acquistato “i castelli” (tali erano le costruzioni previste), per cifre comprese tra i 400 e i 500 mila dollari. Le ville, infatti, erano progettate con dettagli di ispirazione gotica, con archi rampanti, archi a sesto acuto e le volte a costoloni; abitazioni lussuose, dotate di riscaldamento a pavimento e vasche con idromassaggio a ogni piano, a cui si sarebbero aggiunti un centro commerciale, bagni turchi, cinema e impianti sportivi.

Siamo nel 2014 e il villaggio da costruire prevede 732 piccoli castelli, esternamente perfettamente identici, circondati da un paesaggio verde e collinare: insomma un vero e proprio paradiso. La location scelta, era la Turchia, a pochi chilometri da Mudurnu, una cittadina termale romana a metà strada tra Istanbul e Ankara. L’entusiasmo iniziale era alle stelle e il complesso residenziale, avviato dalla società di developer “Sarot Property Group”, denominato Burj Al Babas, prevedeva un alto investimento, superiore ai 200 milioni di dollari. Ma, come spesso succede negli affari immobiliari, la società per una serie di ragioni entrò in crisi economica durante la recessione iniziata nel 2015, e tutto si bloccò. Il villaggio non fu mai completato, nonostante oltre la metà dei "castelli" fosse già stata costruita.

Nel 2015 la società aveva quasi terminato la seicentesima villa, ma all’improvviso tutto si bloccò. La dichiarazione di bancarotta presentata dalla “Sarot Property Group” fermò il cantiere che restò come addormentato. Il villaggio divenne “una specie di paese degli gnomi”, quelli che leggiamo nelle favole. Secondo il Ceo del gruppo, basterebbe vendere 100 di queste ville già costruite per risanare il debito della società, ma purtroppo per ora nessuno sembra interessato all’acquisto, sebbene molte case siano ben costruite. Pare, tra l’altro, che gli abitanti del territorio non amino quel complesso residenziale, ritenuto un pugno in un occhio che non ha nulla a che fare con l’architettura ottomana delle città della Regione.

Un video girato tempo fa mostra com’è la zona adesso: una vera e propria città fantasma, un agglomerato di piccoli castelli disabitati dall’aspetto spettrale, ormai in stato di abbandono. In realtà, questo è solo un esempio, forse un po’ particolare, di una crisi che sta riguardando tutto il settore edilizio in Turchia. Anche in città come Istanbul, infatti, ci sono decine di palazzi nuovi disabitati oppure edifici in costruzione addirittura lasciati a metà a causa del fallimento delle ditte costruttrici.

Oggi, tuttavia, c’è chi ancora pensa che un giorno il villaggio verrà portato a termine. Già nel 2020 l’atmosfera tra il fiabesco e il post-apocalittico di Burj Al Babas ispirò il regista e conceptual designer Alexandre Humbert, a realizzare un cortometraggio denominato Sleeping Beauties, bellezze dormienti: nel filmato, un tour realizzato all’interno del complesso residenziale di Burj Al Babas immagina una “trasformazione possibile”: da città fantasma potrebbe diventare un curioso resort fiabesco da visitare, che potrebbe generare una nuova fonte di reddito per una località che fa parte del patrimonio mondiale dell'UNESCO. Nella visione di Humbert, i visitatori pagano 10 € per passeggiare e fotografare le 732 ville reali a tre piani, inventando le proprie favole per riempire le stanze vuote.

Cari amici, purtroppo l’esperienza insegna che certe speculazioni immobiliari spesso falliscono. Quando nel 2014 fu progettato questo villaggio il mercato immobiliare del lusso in Turchia era florido e presentava tutti i segnali per essere considerato un ottimo settore di investimento; in quel periodo, infatti, la crescita economica della Turchia aveva portato numerose famiglie facoltose ad acquistare pezzi di terreno sulle coste dell’Egeo, con la volontà di costruire fastose ville da riservare alle vacanze. La stessa Istanbul si era affermata come meta per eccellenza del turismo mondiale. In questo contesto, Mehmet Emin e Mezher Yerden, fratelli e colleghi del Sarot Group, insieme al socio Bulent Yilmaz, decisero di sfruttare la situazione progettando una struttura ricettiva di lusso e sviluppando, in un secondo momento, la pazza idea di creare una piccola città fatta di castelli. Purtroppo per loro, la sorte non è stata favorevole e il villaggio incantato per ora resta “addormentato”. Chissà se il risveglio ci sarà!

A domani.

Mario

 

 

 

domenica, marzo 26, 2023

IL GRANDE GENIO LEONARDO DA VINCI? ERA FIGLIO DI UNA DONNA DEL CAUCASO, ARRIVATA A FIRENZE COME SCHIAVA. ARRIVÒ IN ITALIA SU UN’IMBARCAZIONE, COME I MIGRANTI DI OGGI.


Oristano 26 marzo 2023

Cari amici,

Lo straordinario genio del Rinascimento italiano, LEONARDO DA VINCI, in realtà non era del tutto italiano, in quanto figlio di una donna straniera: sua madre, Caterina, era una principessa del Caucaso, arrivata in Italia come schiava, rapita probabilmente dai tartari e poi rivenduta ai veneziani, arrivando successivamente a Firenze. Leonardo, dunque, era fiorentino solo a metà, in quanto figlio naturale di un giovane notaio fiorentino, Piero Da Vinci, e della principessa caucasica. Questi particolari della famiglia di Leonardo Da Vinci sono il frutto della recente ricerca, effettuata dello studioso Professor Carlo Vecce, filologo e storico del Rinascimento, docente all'Università di Napoli «L'Orientale», che nel corso di decennali ricerche si è dedicato soprattutto alla figura e all'opera di Leonardo.

Il documento da lui ritrovato nell’Archivio di Stato di Firenze è un rogito notarile: l’atto di liberazione della schiava Caterina da parte della sua padrona, monna Ginevra d'Antonio Redditi, moglie di Donato di Filippo di Salvestro Nati, che l'aveva ceduta in affitto come balia, due anni prima, ad un cavaliere fiorentino. Nel rogito si legge che Caterina era «filia Jacobi eius schiava seu serva de partibus Circassie». Il documento è autografo, redatto dal notaio Piero da Vinci, il padre di Leonardo, che all'epoca aveva solo sei mesi, essendo nato il 15 aprile 1452. Leonardo fu il primogenito di Piero ma non di Caterina, perché, come ha spiegato il professor Vecce, sulla base dei documenti dell'Archivio di Stato di Firenze, come le «Ricordanze» del letterato umanista Francesco di Matteo Castellani, risulta che Caterina nel 1450 era stata già ingravidata risultando infatti una balia che allattava.

Su questo importante ritrovamento il professor Vecce ha scritto un interessante libro, dal titolo «Il sorriso di Caterina. La madre di Leonardo». (Giunti Editore), che è un affascinante romanzo-viaggio nel Rinascimento, attraverso popoli, paesi e culture. La storia di Caterina riportata nel libro, certamente arricchita anche di fantasia, è la storia di una ragazza selvaggia, nata libera come il vento. Lei, una principessa dei Circassi, figlia del principe Jacob, che governò uno dei regni sugli altopiani delle montagne settentrionali del Caucaso, fu strappata alla sua terra ed ai suoi affetti; rapita, probabilmente dai tartari, fu fatta schiava e rivenduta ai veneziani, arrivando poco dopo a Firenze. Fu catturata nelle montagne del Caucaso e portata nella città di Tana (l’attuale città di Azov in Russia, tristemente nota per le vicende di guerra), allora ultima colonia veneziana alla foce del Don. Da lì Caterina iniziò un viaggio incredibile per il Mar Nero e il Mediterraneo; arrivata prima a Costantinopoli, città dalle cupole d’oro, proseguì poi per Venezia e Firenze; siamo nel 1442, in pieno Rinascimento. Ma il suo non fu un viaggio di piacere, essendo ridotta a schiava, quindi considerata una “merce”, non una persona.  

A Venezia Caterina, grazie al marito della sua padrona Ginevra (un vecchio avventuriero fiorentino, Donato di Filippo di Salvestro Nati, già emigrato a Venezia, dove aveva al suo servizio schiave provenienti dal Levante, dal Mar Nero e dalla Tana), rimase a servizio fino al trasferimento a Firenze, come rilevato dal documento ritrovato. I rapporti con la famiglia Veneziana, comunque, secondo il professor Vecce rimasero ottimi. Prima di morire, nel 1466, Donato lasciò i suoi i suoi beni al piccolo convento di San Bartolomeo a Monteoliveto, fuori Porta San Frediano, per la realizzazione della cappella di famiglia e della propria sepoltura. Il notaio di fiducia fu sempre Piero da Vinci. «E Leonardo eseguì la sua prima opera proprio per quella chiesa: l'Annunciazione. Non fu un caso probabilmente», ha ipotizzato il professor Vecce.

In base ai documenti, Caterina, una volta liberata, quindi non più schiava, si sposò con Antonio Butti, detto Attaccabrighe, e visse vicino a Vinci, dando alla luce altri cinque figli, quattro femmine e un maschio. Nel frattempo, la fama di Leonardo cresceva e, poco prima di morire, Caterina pare abbia raggiunto il figlio Leonardo a Milano, vivendo per un periodo con lui. Caterina morì a Milano tra le braccia del suo Leonardo nel 1494. Un’ipotesi probabile, avallata dal professor Vecce, è che Caterina sia sepolta a Milano, nella Cappella dell’Immacolata Concezione, quella dove Leonardo abbozzò la sua «Vergine delle rocce».

Cari amici, l’avvincente storia di Caterina è una storia senza tempo! È attuale, perché parla di una straniera che, seppure di nobili origini, si è trovata nel gradino più basso della scala sociale e umana; è la storia triste di una donna portata via con violenza su un barcone, a cui era stata tolta ogni possibile voce e dignità. «Per questo bisogna raccontarla. Per Caterina e la dignità a lei tolta. Per le sue sorelle che muoiono oggi nel mare che anche lei ha varcato, e che soffrono intorno a noi», come ha ribadito il professore. Un'ultima considerazione, seppure alquanto romanzesca: Chissà che "LA GIOCONDA", straordinario capolavoro di Leonardo, non sia proprio l'immagine di Caterina, la sua mamma!

A domani.

Mario

sabato, marzo 25, 2023

L’UNIONE EUROPEA HA DETTATO NUOVE REGOLE PER RENDERE LE ABITAZIONI GREEN: GLI EDIFICI DOVRANNO ESSERE A EMISSIONI ZERO A PARTIRE DAL 2030. CI ATTENDE UN GRAN BEL SALASSO!


Oristano 25 marzo 2023

Cari amici,

Il Parlamento Europeo il 14 marzo 2023 ha approvato la Direttiva sulle “CASE GREEN”, una normativa che prevede il miglioramento della classe energetica degli edifici a partire dal 2030. Il provvedimento, anche se la sua entrata in vigore non è vicinissima, prevede infatti il recepimento degli Stati membri, cosa che probabilmente non avverrà, però, prima del 2025. Tuttavia, dopo il sì dell’Europarlamento, inizia ora il negoziato tra la Commissione, il Parlamento europeo e i Governi; indubbiamente una cosa non facile, vista la complessità della materia, i costi e i tempi di realizzazione. Ma vediamo in dettaglio di cosa in realtà si tratta.

La Direttiva UE sulle “case green” contiene un pacchetto di norme finalizzato a promuovere la ristrutturazione (riqualificazione energetica) degli edifici esistenti e la costruzione di nuovi edifici ad alta efficienza energetica. Questa Direttiva prevede che gli Stati membri presentino piani nazionali per l’adeguamento degli edifici alle nuove norme, in base al seguente principio guida: iniziando prioritariamente ad operare sul 15% degli edifici più energivori, che andranno così collocati dai diversi Paesi membri nella classe energetica più bassa, la G. In Italia, secondo i dati Istat, sono circa 1,8 milioni gli edifici residenziali su un totale di 12,2 milioni.

Stando ai dati ANCE (Associazione nazionale costruttori edili) oltre 9 milioni di edifici residenziali, su 12,2 milioni, non rispettano le performance energetiche richieste dall’UE; inoltre, il 74% dei nostri immobili è stato realizzato prima dell’entrata in vigore della normativa completa sul risparmio energetico e sulla sicurezza sismica, determinando così una grossa perdita di valore della maggioranza degli immobili italiani. Secondo gli ultimi dati ENEA, gli attestati di prestazione energetica per gli edifici italiani emessi nel 2021 si riferiscono per lo più (il 76%) ad immobili nelle classi più inquinanti, ossia classe E F G: più di 2 case su 3 dovrebbero quindi essere riqualificate energeticamente!

L’obiettivo della Direttiva UE è quello di stimolare le ristrutturazioni di edifici privati e pubblici in tutta Europa, al fine di ridurre i consumi energetici e le emissioni di CO2 del parco immobiliare dei 27 Stati membri. Il testo fa parte del Progetto FIT FOR 55, con cui l’Unione europea vuole ridurre del 55% entro il 2030 le emissioni nocive rispetto ai livelli del 1990. In media, gli edifici rappresentano il 40% del consumo energetico e il 36% dell’emissione di gas nocivi.

La domanda che in tanti si fanno è: ma come fa un cittadino proprietario di casa d’abitazione a sapere lo stato preciso del suo immobile, quanto alle sue caratteristiche energetiche? Lo può sapere rivolgendosi ad un professionista qualificato, che, dopo l’esame del suo immobile, gli rilascia “L’attestato di prestazione energetica”, indicante le caratteristiche energetiche del suo immobile, classificato in base a delle “Classi energetiche”, che vengono ricavate usando degli indicatori che vanno da A4, che indica la classe energetica più performante a G, la meno performante. Ogni classe energetica è associata a un punteggio che va dal 10, associato alla classe più efficiente, fino all’1 della classe energetica G. Più la classe energetica è bassa, maggiori saranno i consumi di energia dell’abitazione stessa.

In Italia le abitazioni di classe energetica E rappresentano la maggior parte degli immobili, in quanto in gran parte realizzati tra gli anni ’70 e ’90. Gli edifici di classe energetica D sono abitazioni relativamente recenti che, a differenza delle abitazioni di classe energetica E, dispongono di un migliore isolamento termico perché i muri esterni sono stati ispessiti ed è stata migliorata la coibentazione del tetto. Il valore EP, invece, indica l’indice di Prestazione Energetica, che corrisponde all’energia totale consumata dall’edificio climatizzato per metro quadro di superficie ogni anno.

Amici, per gli italiani, se la norma passasse così com’è, sarebbe un salasso stratosferico, impossibile da raggiungere in tempi brevi! Secondo l’Ance (Associazione nazionale costruttori edili), gli obiettivi rimangono irraggiungibili in Italia: le stime prevedono 630 anni solo per raggiungere la classe E! Per raggiungere in tutti gli edifici l’efficienza energetica richiesta dall’UE, addirittura 3.800 anni!!! Inoltre, realizzare gli interventi richiederebbe uno sforzo economico notevole, insostenibile per la maggior parte degli italiani. la CONFEDILIZIA, (la Confederazione italiana della proprietà edilizia), ha definito la Direttiva una vera ‘ECO-PATRIMONIALE EUROPEA’.

Cari amici, indubbiamente la Direttiva Europea, seppure ipotizzata al fine di migliorare l’attuale situazione di spreco energetico, viene calendarizzata in modo abnorme, senza tener conto delle reali tempistiche necessarie: temporali ed economiche. Stiamo attenti: Nella ricerca di migliorare il futuro, non si può affossare il presente!

A domani.

Mario