Mario Virdis
L’INFELICITA’ NELL’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE:
" I CEROTTI PER L’INFELICITA’ " .
METABOLIZZAZIONE, IN CHIAVE IRONICA, DEL LIBRO DI P. WATZLAWICK
“ISTRUZIONI PER RENDERSI INFELICI”.
L’infelicità è dietro l’angolo. To turn the corner, in inglese, significa non solo svoltare l’angolo, scoprire cosa c’è dietro, dove la visuale non arriva, ma anche uscire da una crisi, da una situazione, lasciare il sicuro per il venturo.
L’ansia di scoprire, di sapere, ha sempre affascinato l’uomo. La pietra angolare, citata dalla Bibbia, la pietra perfetta, usata per la costruzione di edifici che debbono sfidare il tempo, è normalmente visibile solo da un lato: l’altro, quello dietro l’angolo, No. Cosa si nasconde, cosa c’è, dunque, dietro l’angolo?
L’uomo è alla continua ricerca della felicità. Il più grande affanno umano è il continuo rincorrere quella parte non visibile, per scoprire quello che non si conosce, per arrivare alla meta. Il risultato, la scoperta, il passaggio dal sogno alla realtà, spesso, però, è una grande delusione: l’infrangersi del sogno, sullo scoglio della realtà. Anche la moglie di Lot (per tornare alle mie antiche letture) diventò una statua di Sale per appagare la sua curiosità, sfidando il terribile ordine divino. Questo desiderio di conoscere l’ignoto ci porta, dunque, ad immaginare, a sognare, a costruire, a nostro piacere, una realtà sconosciuta, e per questo maggiormente stimolante, per poi, togliendo il velo, scoprire che era meglio il sogno della realtà.
“…Viaggiare pieni di speranze è meglio dell’arrivare”, ha scritto P.Watzlawick, nel libro che prima ho citato, confermando che quasi sempre i sogni…muoiono all’alba!
Cosa c’entra tutto questo con la felicità o l’infelicità dell’uomo? C’entra eccome!
Tutti gli uomini vogliono essere felici scriveva Aristotele. Tutti, in ogni tempo, hanno cercato di dettare ricette per raggiungere la felicità: una lunga serie di “istruzioni per essere felici”, una serie ininterrotta di “cerotti” di forme e misure diverse, per rattoppare le ferite, più o meno aperte, causate dall’infelicità. Ma siamo sicuri che il rimedio non sia peggiore del male? Siamo sicuri che al termine del “viaggio” la delusione non ci farà rimpiangere il lungo sogno coltivato durante il percorso?
La lettura del libro di Watzlawick mi ha riportato indietro nel tempo. Ho, fortunatamente, una memoria fotografica: i ricordi per me sono una miriade di fotogrammi, dove suoni, luci, colori sono presenti, come in una pellicola. Tornare indietro nel tempo, per me, è come rivedere un film.
Il Suo libro ha riaperto non pochi “file” del mio passato. Ho rivisto i lunghi corteggiamenti, le ansie e le gioie della “scalata”, come ho rivissuto le delusioni del “dopo”. Le emozioni dell’attesa avevano i colori brillanti e le pulsazioni a mille, mentre quelle del “dopo” i colori piatti e sfumati del viaggio ormai terminato.
Crescere significa non solo diventare “grandi”, avere più anni, iniziare un’attività lavorativa, ma anche imparare a gestire il proprio stato di infelicità alla ricerca continua, inarrestabile, della felicità.
Terminate le fatiche scolastiche delle scuole superiori, pur iscritto all’Università, iniziai subito la ricerca di un lavoro. Cosa non facile ieri, come non lo è oggi. Tanti i sogni pulsanti che martellavano il mio cervello, numerose le speranze, come tante furono le cocenti delusioni al primo impatto con la realtà. L’infelicità ( come la ricerca del suo opposto) in un giovane (allora avevo i miei freschissimi vent’anni) è la regola, non certo l’eccezione. Vincere un concorso importante, come era successo a me, entrare a far parte di una Banca, allora pubblica, era il raggiungimento di un traguardo stratosferico. L’illusione della felicità, però, durò poco. L’infelicità era dietro l’angolo. L’effetto della “sbornia di felicità” per il lavoro conquistato, purtroppo, durò solo un istante: molto presto mi resi conto di aver venduto la mia libertà. Mi accorsi subito che la mia vita risultava terribilmente condizionata dagli altri: orari, metodi di lavoro, abbigliamento, amicizie, tutto era catastroficamente diverso dai miei sogni.
La meta reale, questo è un dato di fatto purtroppo, è sempre terribilmente diversa da quella sognata!
Questa ritrovata infelicità non spense in me, comunque, l’ardore della ricerca dell’agognata felicità. Per oltre sette lustri ho continuato filosoficamente a tormentarmi: dovevo trovare anch’io la mia pietra filosofale, dovevo, anch’io, poter dire di aver trovato, finalmente, quella felicità che mi continuava a sfuggire di mano come sabbia sottile che fuoriesce dal sacco apparentemente integro.
Cinque anni fa, dopo oltre 36 anni trascorsi a “realizzare i progetti degli altri”, ho riacquistato la mia libertà. Avevo sciolto il collare che, come quello del cane da pastore, mi aveva per anni reso prigioniero, anche se in un castello dorato.
L’euforia della ritrovata libertà credo assomigli a quella che, un tempo, provava un liberto, uno schiavo liberato, che improvvisamente si ritrovava senza vincoli, senza catene. Cosa farsene di una libertà sognata, desiderata, maledettamente difficile da raggiungere, dopo averla riconquistata?
Il primo giorno da “pensionato” fu strano e terribile. Mi svegliai, comunque, alla stessa ora anche senza la sveglia. Ormai ero un automa. I miei dormivano ancora ed io mi guardavo intorno, intontito, come in preda ai postumi di una sbornia colossale. Eppure ero finalmente libero, anche se ancora non riuscivo a comprenderne appieno il significato!
Ero un uomo che non aveva più il terrore di arrivare in ritardo, recuperare i minuti scanditi inesorabilmente dal suo badge magnetico e che mi controllava come un Grande Fratello. Il mio pensiero mise a fuoco il momento in cui, con un sottile piacere, consegnai, con gli altri “attrezzi del mestiere”, anche il badge, il mio “controllore”, quel “collare” di cui parlavo prima.
Trovarsi improvvisamente in una situazione “nuova”, di libertà totale, è scioccante ed angosciante. Il primo pensiero che viene in mente è come occupare il tempo: Cosa farò oggi? Mi chiesi con un misto di curiosità e paura. Più paura che curiosità. Si vedrà, pensai, nessuno, ormai, può impormi nulla!
Il mio cervello, però, era come un computer in tilt: forse necessitava di un reset! Cercando una nuova dimensione mi venne in mente un’immagine paradossale: quella dell’asinello che, dopo anni di lavoro passati a girare in tondo alla “mola”, la vecchia macina in pietra per il grano, viene liberato e portato in campagna: reso libero, soppiantato, dalla tecnologia.
L’animale, senza i paraocchi e senza il peso del giogo di legno, fatica a mettere a fuoco il sole, la campagna, l’erba verde: è tutto cosi nuovo, diverso; quello intorno a lui è un paesaggio di cui, ormai, aveva perso conoscenza. In cuor suo avrebbe, forse, voluto correre, saltare, giocare, ma non sapeva come; sapeva fare bene solo una cosa: girare intorno ad un’asse.
Mi sentii avvolto da una grande tristezza. Ero spaventato e confuso. Avevo sognato la libertà come il raggiungimento di un traguardo apicale, ma forse, non era cosi. Avevo sognato per anni una felicità che ora mi sfuggiva, che anziché raggiungermi si allontanava.
Impiegai del tempo a interrogarmi, a guardarmi allo specchio, per capire il motivo di tanta infelicità. Alla fine giunsi alla conclusione che dovevo riprendere il viaggio, che non ero ancora arrivato a destinazione. Mi convinsi che ogni punto d’arrivo era solo la tappa, la stazione, di un lungo percorso. Il “viaggio” doveva durare ancora a lungo; stazione dietro stazione bisognava trovare altri traguardi, altre mete: altri sogni avrebbero dovuto conquistarmi per darmi, strada facendo, la gioia di raggiungerli. Questa riflessione durò fino all’estate: trascorsi, per la prima volta, tre mesi nella casa al mare.
Questa prima vacanza, non condizionata da complicatissimi calcoli di raccordo con le ferie degli altri colleghi, fece maturare in me un’importante decisione: riprendere gli studi, tornare sui banchi dell’Università, cancellando quasi 40 anni di assenza e, ovviamente, anche 40 anni di...età! Volevo riprendere a vivere ed a soffrire, volevo rimettermi in gioco, volevo dimostrare a me stesso che ero capace di competere e, possibilmente, vincere.
Il resto, i cinque anni che ho già trascorso con gran parte dei miei attuali colleghi della Specialistica, è noto, quindi non necessita di commenti.
Sono convinto della scelta fatta; contento di essere risalito sul “treno dei desideri”, di soffrire come quando avevo i miei vent’anni, di partecipare alle ansie ed alle preoccupazioni (apparentemente uguali, anche se molto diverse dalle mie) dei ragazzi che hanno gli anni di mio figlio.
In sintesi posso dire di aver orgogliosamente trovato la mia pietra filosofale: sono felice di essere infelice.
Mario (noto anche… GattoMario)
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