martedì, dicembre 27, 2011

IL LUNGO CAMMINO DELLA COMUNICAZIONE. DAL LINGUAGGIO DELLE EMOZIONI ALLA SCRITTURA, DAI FUOCHI SULLE TORRI ALLA TELEMATICA. E L’AVVENTURA…CONTINUA!


Oristano 27 Dicembre 2011

Cari amici,
credo che questo post di oggi sia, per quest'anno 2011, forse l'ultimo. Il 2012, ormai, preme alle porte e non vede l'ora di entrare prepotentemente nella nostra vita! Certo l'anno in arrivo non si affaccia sotto i migliori auspici, ma io ho sempre creduto che in ogni circostanza l'importante è mantenere sempre la speranza e non cadere nella facile logica della rassegnazione. Sono certo che continueremo il nostro impegno quanto e più di quest'anno.
Grazie caro anno 2011 del percorso che ci hai consentito, mentre tu ora ti avvii al termine e benvenuto a questo 2012, ancora nel grembo, ma già pronto a percorrere il suo cammino.
L'argomento di oggi è quello della Comunicazione. Strumento importante, basilare per l'uomo, che non ha mai accettato una vita solitaria. Importantissimo oggi, che viviamo proprio nella Società della Comunicazione, in un mondo che, ormai, è diventato un villaggio globale.
Buona lettura, cari amici, e...tanti cari auguri di Buon Anno!

La comunicazione umana fin dalle origini è avvenuta attraverso il linguaggio dei gesti, un linguaggio “mimico”, manifestato all’esterno attraverso le espressioni del viso e di altre parti del corpo: le mani, il collo, il busto, etc. Era questo, pur elementare, un linguaggio espressivo ‘sofisticato’, che permetteva ed ancora oggi permette, di comunicar anche i messaggi più complessi. Linguaggio, questo, meglio definito “linguaggio delle emozioni”, che in epoca primitiva sostituiva nell'uomo la comunicazione verbale o scritta. Questo linguaggio mimico primordiale, consentiva di comunicare le emozioni più diverse: osservando sul viso dell’emittente o del ricevente espressioni di gioia o di tristezza, di pace o di rabbia. Questa modalità arcaica di comunicazione, nonostante l’evoluzione, dura ancora oggi. Per esempio, se vogliamo sapere di che umore sia una persona o quale sia veramente il suo atteggiamento nei nostri confronti, al di là di parole che spesso negano la realtà, ci affidiamo a quegli stessi antichi codici espressivi, semplici ma dotati di un notevole potere comunicativo. Al linguaggio mimico si è da subito affiancato quello verbale, che consentiva quella comunicazione a distanza attraverso la voce.

Non è concepibile alcuna evoluzione della cultura umana senza comunicazione. Si perdono nelle ombre remote della preistoria gli antichi sistemi utilizzati, oltre la mimica e la voce. Dai segni scolpiti sulla roccia alle pitture rupestri, dai tamburi ai segnali di fuoco o di fumo, dai suoni modulati, come quelli che si scambiano le specie animali per segnalare un pericolo, alle incisioni sulla corteccia degli alberi. Comunicazione, quindi, di una varietà ampia e di una ricchezza straordinaria, tra le quali, comunque, resta fondamentale per la complessità del suo linguaggio – la “lingua parlata”.

Il passaggio dalla comunicazione verbale, dalla lingua parlata, a quella scritta è stato un fatto epocale, che ha consentito la “conservazione” nel tempo del pensiero e della cultura, con la possibilità di trasmetterla ai posteri.

Già molti secoli prima di Cristo il messaggio scritto era stato perfezionato attraverso molti strumenti (tavole di cera, papiri, terracotta, pelli incise, etc.),ed era utilizzato, in particolare, per ragioni militari e di difesa. Esistevano corrieri organizzati, incaricati di trasmettere e movimentare messaggi, fin del settimo secolo a.C. in Egitto e in Mesopotamia; lo stesso strumento venne utilizzato per gli stessi scopi successivamente nell’impero romano ed anche, nella stessa epoca, in Cina. Erano, però, messaggi costosi, vergati “a mano” da abili scrivani “amanuensi”, e trasmessi da corrieri che si muovevano a cavallo o con altri mezzi rudimentali.

La vera rivoluzione che modificò e velocizzò la diffusione del ‘messaggio scritto’ avvenne in Europa dopo il 1.400. L’invenzione dei caratteri mobili, creati da Gutemberg attorno al 1450, modificò, in modo straordinario, la lenta trasmissione della comunicazione, che prima avveniva esclusivamente in modo manuale, copia per copia, attraverso gli “amanuensi”. La cosiddetta “Bibbia di Gutemberg” del 1474 fu il primo testo “rivoluzionario”: venne stampata in 300 copie con l’utilizzo di sei presse (torchi di legno a vite) a mano, velocizzando enormemente - per quei tempi – un lavoro che, prima, avrebbe richiesto l’opera di centinaia di amanuensi ed un tempo lungo decenni.

Questo passo importante fu decisivo per la successiva e rapida evoluzione della carta stampata. Meno di mezzo secolo dopo, a Venezia, per opera di Aldo Manuzio, letterato ed umanista, nacque quella che poi venne definita “l’editoria”. Manuzio, persona geniale, non solo inventò un nuovo carattere, l’aldino, progenitore dei caratteri moderni , ma anche uno stile di impaginazione valido ancora oggi. Fu anche il primo a numerare le pagine per facilitare la lettura e la consultazione. La comunicazione cammina veloce: dall’iniziale libro alla stampa periodica il cammino continua. Già nel Seicento e nel Settecento cominciano a diffondersi i primi quotidiani. Certo, considerata la scarsa “alfabetizzazione”, il numero delle copie non era certo elevato: la lettura era un privilegio di pochi. Solo nella seconda metà del ventesimo secolo la situazione in cui “tutti” (o quasi) in Italia sapevano leggere e scrivere diventò una realtà.

La comunicazione a distanza, invece, continuò ad utilizzare gli antichi strumenti (dai corrieri agli strumenti sonori e visivi arcaici) fino alla fine del Settecento ed agli inizi dell‘800. Il primo telegrafo elettrico fu inventato e costruito nel 1835 da Samuel Morse, professore di disegno all'Università di New York. Con un primo prototipo, assemblato utilizzando uno dei suoi telai per dipinti ed altri materiali di fortuna, Morse effettuò i primi esperimenti di comunicazione telegrafica a distanza. Nel 1843 venne finanziata dal governo americano la costruzione della prima linea di comunicazione telegrafica, inaugurata un anno dopo tra Washington e Baltimora. Il primo messaggio della storia fu trasmesso il 24 maggio 1844 alle 8,45. Morse a Washington telegrafa a Vail a Baltimora: "What Hath God Wrought" ("Quali cose ha creato Dio").

Il grande sogno dell’uomo, però, restava quello di trasmettere direttamente a distanza la voce umana. Il primo ad avere la giusta intuizione fu Antonio Meucci, toscano emigrato in America, che dopo vari tentativi ed esperimenti nel 1857 realizza il primo prototipo funzionante, anche se per le note vicissitudini economiche non riuscì a brevettare l’invenzione che, invece, fu sfruttata da Graham Bell. Era nato un nuovo straordinario strumento di comunicazione: il telefono.

In Italia la prima telefonata interurbana fu effettuata tra l’ufficio telegrafico del Quirinale a Roma e l’ufficio telegrafico di Tivoli, distante una trentina di chilometri. Il primo aprile del 1881 nacque in Italia il “servizio pubblico telefonico”.

In poco più di trent’anni (un tempo brevissimo nella storia) si crearono le premesse per dare alla comunicazione umana possibilità, prima, assolutamente sconosciute. Dallo spazio del villaggio o del quartiere si passò ad una dimensione che, pur non “globale”, (estese parti del mondo risultavano chiuse da barriere tecniche, politiche o culturali, in parte ancora oggi operanti) raggiungeva dimensioni mai conosciute prima. Comunicazione, quindi avviata a dimensioni “globali” che spaziavano in tutti i campi.

Oltre agli strumenti prima accennati di trasmissione sia scritta che orale, altri ne seguirono con un crescendo impressionante: dalla nascita della dattilografia nel 1874 ai vari sistemi di foto copiatura che seguirono all'invenzione della fotografia nel 1839. Inoltre le scoperte in campo elettrotecnico ed elettronico, fatte tra la fine del diciannovesimo secolo e l'inizio del ventesimo, portarono all'invenzione ed alla successiva diffusione dell’apparecchio radiofonico, che portò, in tempo reale, le notizie dalle varie parti del mondo. Seguirono, nella seconda metà del ventesimo secolo, la diffusione di telex e telefax, fino alla scoperta della trasmissione delle immagini a distanza con la Televisione. All’inizio questo nuovo strumento ebbe uno sviluppo discontinuo: non era ritenuto ne affidabile ne utile. C’erano stati esperimenti di trasmissione “elettromeccanica” di immagini nel 1884, perfezionati con l’invenzione del tubo catodico nel 1897. La televisione esisteva, come tecnologia sperimentale, già nel 1925, in bianco e nero, ed a colori nel 1929. Le prime trasmissioni televisive avvennero in Gran Bretagna nel 1936 e negli Stati Uniti nel 1939.

La vera diffusione, però, si realizzò dopo la seconda guerra mondiale. In Italia, dopo cinque anni di trasmissioni sperimentali, un regolare servizio televisivo cominciò nel 1954. Nello stesso anno si realizzò il primo collegamento in eurovisione. Le prime trasmissioni a colori avvennero nel 1953, ma cominciarono a diffondersi nel 1960 (in Italia “divieti” politici impedirono la televisione a colori fino al 1977).

L’enorme diffusione di tutti questi nuovi mezzi di comunicazione iniziò a creare anche non pochi problemi di gestione. Il grande afflusso di messaggi e di collegamenti finì per creare non pochi ingorghi. La soluzione a questi problemi venne trovata alla fine del millenovecento. Il satellite Sirio, lanciato il 26 Agosto del 1977 da Cape Canaveral, consentì la esponenziale diffusione e moltiplicazione delle comunicazioni allargandone a dismisura sia il numero che la qualità. Altri se ne affiancarono a questo, riempiendo lo spazio intorno a noi. Questa “nuova frontiera” incentivò altre conquiste: altri strumenti, ben più sofisticati, si aggiunsero a quelli esistenti, a partire dal computer. Era nata una nuova era.

Oggi pensare di fare a meno del computer sarebbe assolutamente pazzesco! Dalla faccende domestiche alla quotidiana routine del lavoro, dai giochi al fitness, dal cellulare all’Iphone, tutto viaggia attraverso la sua potente memoria e velocità; le sue strabilianti capacità di lavoro e di calcolo, ne hanno fatto il nostro “gestore”, del tempo e dello spazio, trasformandolo, in effetti, anche 'un po'' in nostro “padrone”! Senza di lui, senza questo potente “Grande Fratello”, credo che si possa affermare che la nostra vita non sarebbe più la stessa.

“Calcolare”, cari amici, è stato per l’uomo sempre un chiodo fisso!

Dall’abaco di antichissima origine, probabilmente babilonese, alla calcolatrice a ruota, ideata da Pascal nel 1.600, dalle calcolatrici elettriche al computer ed al suo veloce sistema di calcolo binario, ne è passata di acqua sotto i ponti! L’evoluzione, sempre più accelerata, rende obsoleto, superato, ogni strumento “nuovo”, dopo pochi mesi di vita. L’informatica ha fatto e continua a fare passi da gigante. Con la scoperta dei transistor prima e delle fibre ottiche poi il computer è riuscito a realizzare nella vita dell’uomo una trasformazione epocale.

Se la “Globalizzazione” ha potuto trasformare il mondo intero in un unico villaggio globale, il merito (o la colpa…) è sicuramente di questo nuovo e terrificante strumento: il computer.

L'informatica, attraverso i computer, è in grado di poter assolvere alla gran parte delle funzioni e delle necessità dell’uomo. Partendo dalle sue necessità primordiali, quelle di comunicare e fare di conto, essa riesce oggi a sostituire, inglobandoli, tanti altri strumenti precedentemente scoperti. In sintesi potremo affermare che l’informatica ha fagocitato tutte le precedenti forme di comunicazione (l’ultima la telecomunicazione), dando vita ad un nuovo strumento 'unico' chiamato proprio “ Telematica”, dall’unione dei due termini. La nuova società dell’informazione, oggi, è un “unicum” con questo grande strumento, del quale, anche se volesse, non potrebbe mai fare a meno.

Tutto questo lo affermo con convinzione proprio dai tasti del mio computer che considero, ormai, il mio “grande fratello”. E penso che la meta è ancora lontana! Chissà cosa ci riserva, ancora, il futuro!

Grazie dell’attenzione.

Mario


lunedì, dicembre 26, 2011

UN CARO E SPLENDIDO AUGURIO PER IL PROSSIMO ANNO!!! BUON 2 0 1 2 !










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Augura a tutti gli amici ed i lettori del suo BLOG,


B U O N
UNO SPLENDIDO ANNO VI ATTENDE!


Questo è l'augurio più caro che voglio farvi.


Mario


domenica, dicembre 18, 2011

GLI ANTICHI RITI DEI GUARITORI SARDI. L’UOMO TRA SUPERSTIZIONE E MAGIA.

Oristano 18 Dicembre 2011

Cari amici,
oggi riprendo a raccontarvi un altro piccolo spicchio della mi infanzia. Vi racconto un fatto vero, realmente accadutomi, e che lascia ancora tracce nel mio Io, che non si è dato ancora una chiara risposta all'accaduto. Ecco come ricordo oggi quel lontano e misterioso fatto.

Se non lo avessi toccato con mano, se non avessi constatato con i miei occhi la trasformazione che improvvisamente, nel corso di una notte, subì il mio corpo senza lasciare nessuna traccia della precedente situazione, credo che, pur davanti ad un giuramento sacro ed inviolabile, sarei rimasto incredulo. Del resto, cari amici, se lo è stato Tommaso, incredulo davanti a Gesù risorto, figuriamoci se non lo sarei stato io!
La storia (vera) che sto per raccontarvi è successa molti anni fa; avevo circa quindici anni e trascorrevo le vacanze di natale e quelle estive con i miei genitori che allora abitavano a Macomer. Durante il periodo scolastico, invece, ero ospite dei nonni materni a Bauladu insieme a mio fratello. La mia famiglia, per evitare di dover interrompere gli studi che mio fratello ed io avevamo intrapreso nelle scuole superiori ad Oristano (mio fratello Nino alle Magistrali ed io in Ragioneria), aveva concordato con nonno Domenico e nonna Peppica di ospitare, previo rimborso delle spese, me e mio fratello a casa loro a Bauladu. E cosi fu. Noi rientravamo a Macomer nel periodo delle vacanze. La situazione non era certo rosea per i miei genitori che si caricavano di altre spese, ma con fatica affrontarono la situazione.
Era per me una grande gioia tornare a casa da babbo e mamma, dopo mesi di soggiorno in una casa che, pur familiare, non era la mia e dove, per quanto non estraneo, non godevo certo della libertà che avrei potuto avere con i miei.
Credo di aver detto, anche in altra parte della storia dei miei ricordi, che non sono mai stato un ragazzo “tranquillo”. La mia esuberanza sprizzava vitalità da tutti pori e tenermi a freno non è mai stata cosa facile. Questo comportava ovviamente significava “pagarne lo scotto” e caricarsi di qualche guaio in più. Le scorribande, le lotte, anche corpo a corpo, con gli altri ragazzi, lasciavano tracce evidenti sulla nostra pelle, incidenti che lasciavano piccole ferite e facevano sanguinare diverse parti del nostro corpo. Sicuramente fu in uno di questi “scontri”, con qualcuno dei ragazzi che soffriva di verruche (che noi chiamavamo semplicemente porri), che venni contagiato ed io, in poco tempo, mi ritrovai con alcune di queste escrescenze sulle gambe e sulle mani.
Chi ne ha sofferto o ne soffre sa che sono infezioni fastidiose che anche ad un minimo contatto sanguinano, sporcano, oltre che creare fastidi e dolori. L’unico rimedio in uso allora era una goccia di “brucia porri” da versare sull’escrescenza e che seccava il porro indurendolo. Non serviva a farlo scomparire ma almeno lo teneva a ‘secco’ per un po’.

Per un primo periodo i miei porri non erano numerosi: diciamo che si potevano contare sulle dita di una mano. Lentamente ma inesorabilmente, però, iniziarono a moltiplicarsi. Forse quando li facevo sanguinare e mi toccavo il virus aggrediva altre parti del mio corpo e li si formava un’altra verruca. Senza tediarvi troppo voglio dirvi che nel giro di pochi anni i miei porri erano diventati difficili da contare, tanto erano diventati numerosi. La cosa che più mi infastidiva era che correndo e giocando “pesante”, come era mio solito, riuscivo a farne sanguinare più di uno, tutti i giorni, e al rientro a casa, dopo un veloce lavaggio delle parti impolverate ero costretto a “bruciare” una lunga serie delle verruche “incidentate”.
E’ pur vero che si fa l’abitudine a tutto ma per me questo fastidio era diventato un serio problema. Nell’inverno del 1960, che ricordo particolarmente rigido e nevoso, rientrammo per le vacanze di Natale con mio fratello a Macomer per trascorrere le festività con i miei genitori. La casa dove i miei abitavano era sulla strada che da Macomer porta a Bosa; era una casa cantoniera di proprietà dell’ A.N.A.S., Ente di Stato, di cui mio padre era dipendente. La casa era costruita su un’altura da cui si dominava un bel paesaggio, ad un tiro di schioppo da un bel nuraghe e con intorno altre due case cantoniere: quella delle Ferrovie Complementari della Sardegna, sulla linea ferroviaria Macomer – Bosa e quella dell’Amministrazione Provinciale di Nuoro, sulla strada provinciale che partendo dalla S.S.129 bis raggiungeva Pozzomaggiore.
L’inverno in quella località era sempre molto rigido e le visite di terzi non erano molto frequenti. Ci si incontrava tra le tre famiglie che dividevano la stessa sorte, a cui si aggiungevano le rare visite dei parenti e quelle di cortesia dei diversi proprietari delle aziende che avevano terreni e bestiame nel circondario.
L’episodio che sto per raccontarvi, e che ricordo ancora con grande chiarezza e lucidità, avvenne alla fine di una mattinata di Dicembre del 1960. Lo strato di neve fuori aveva raggiunto un discreto spessore e le poche auto transitavano con grande lentezza. Chi, poi, doveva muoversi nelle campagne, per il bestiame, usava molto più saggiamente il cavallo.
Mancava poco all’ora di pranzo quando sentimmo bussare alla porta. Andai io ad aprire poi si avvicinò alla porta anche mio padre. In piedi davanti all’ingresso vi era un signore anziano infreddolito, da noi conosciuto solo di vista, in quanto passava col suo cavallo ad intervalli regolari per andare alla sua azienda zootecnica nelle campagne di Pozzomaggiore. Io lo avevo visto passare diverse volte, in sella al suo cavallo nero, sempre taciturno, intabarrato nel cappotto di orbace con cappuccio, da cui spuntava una lunga barba bianca. Prima di bussare aveva legato il suo cavallo all’albero che stava sul piazzale di fronte a casa. Con grande cortesia e scusandosi per l’ora chiese di poter entrare in casa per riscaldarsi un po’; soffriva di artrite e non riusciva più a tenere in mano le redini del cavallo. Lo tranquillizzammo e lo facemmo accomodare vicino al fuoco. Parlò a lungo con mio padre della brutta annata, del tempo inclemente e della dura vita del pastore. Io, curioso come sempre, stavo ad ascoltare, seduto su un piccolo sgabello di sughero, senza perdermi una sola parola della conversazione. Mentre attento ascoltavo la voce roca dell’uomo mi grattavo nervosamente i non pochi porri che avevo nelle mani. La cosa non sfuggì al nostro ospite che dopo un po’ mi fece a bruciapelo la domanda: “Scommetto che ne hai molti di questi porri”. Io ricordo che diventai rosso: non mi aspettavo una domanda cosi diretta. Annuii, senza rispondere a voce. La cosa sembrava fosse finita li. Lui continuò per un po’ la conversazione con mio padre e dopo essersi riscaldato e ristorato dal gelo sofferto, salutò mio padre e mia madre e si alzò per riprendere il cammino verso la campagna. Mentre slegava il cavallo con un cenno mi chiamò. Io mi avvicinai e lui, serio, mi disse: “senti ti faccio una proposta e vedrai che non te ne pentirai. Io ti posso aiutare a toglierti questo male che ti tormenta. Se seguirai bene i miei consigli guarirai”. Io guardavo quest’uomo con un misto di curiosità e paura insieme. Il suo volto segnato da anni di fatica ed incorniciato dalla barba bianca gli dava un certo alone di mistero, come di un antico profeta. Mi guardava serio, aspettando da me un cenno che gli confermasse se accettavo a meno la sua proposta. Con uno sforzo e dopo aver inspirato a lungo, quasi senza fiato, risposi: “si…e cosa dovrei fare?”.
L’uomo mi mise una mano sulla spalla e guardandomi fisso negli occhi mi disse: “ devi con grande attenzione contare tutti i porri che hai sul corpo. Ti ripeto, tutti e con attenzione! Non devi aggiungere ne togliere nulla, il numero deve essere esatto, altrimenti la medicina non funziona”. Dopo una breve pausa continuò. “ Se starai attento vedrai che ci riuscirai". Inoltre, mi disse, "non devi raccontare a nessuno questa storia: deve restare un segreto tra te e me. Per aiutarti nella conta, continuò, devi prendere un bel pezzo di spago. Man mano che individui un porro lo segni e fai un nodo allo spago e cosi via. Alla fine lo spago avrà tanti nodi quanti sono i tuoi porri". ”Hai capito bene?”, concluse, guardandomi fisso negli occhi e aspettando la mia risposta. Io assentii con la testa, senza pronunciare parola. “Per aiutarti ti do io lo spago adatto”, continuò.



Si voltò verso il cavallo e infilando le mani dentro la grossa bisaccia posata sulla groppa ne cavò un rotolo di spago. Ne misurò un pezzo di circa un metro e dopo aver soppesato la misura, togliendo dalla tasca della giacchetta una lucida “leppa”, con un colpo netto recise il pezzo di spago dal rotolo.
Io ero immobile davanti a lui, attento, cercando quasi di non disturbare questo rito. Mi porse il pezzo di spago, sempre osservandomi e guardandomi dritto negli occhi. Poi continuò: “quando sarai sicuro di averli contati bene ‘tutti’ dovrai custodire lo spago con grande attenzione. Per evitare di perderlo lo metterai dentro un fazzoletto che chiuderai bene, dopo aver fatto due nodi ben stretti con i quattro lembi; dovrai poi conservare bene “questo pegno” e aspettare il mio ritorno con fiducia, perché io tornerò quando sarà il tempo giusto per utilizzare questa medicina". “Ti raccomando, davvero, di non perderlo”, concluse, “perché altrimenti non sarà mai più possibile liberarti da questo male”. Detto questo, con una leggera pacca sulla spalla, mi salutò e, salito con un agile balzo sul cavallo, si allontanò.
Io misi in tasca il pezzo di spago che, forse per l’emozione, a me sembrava un oggetto misterioso: mi dava addirittura l’impressione che emanasse del calore! Lo riposi religiosamente dentro una robusta scatola che custodiva alcune mie cose personali e, senza dire niente a nessuno, ripresi, pur preoccupato, le solite attività giocose della mia giornata.
Pur impegnato nel gioco qualcosa mi tormentava. In effetti non riuscivo a togliermi dalla testa la voce roca dell’uomo ed il suo sguardo penetrante che sembrava quasi essermi entrato dentro come una lama. Chissà che poteri aveva, pensavo, e un po’ mi faceva paura. Avevo promesso, però, di fare quanto mi aveva chiesto e lo avrei fatto. Cercai prima di tutto di organizzarmi. Avevo una stanza tutta mia e, recuperato uno specchio portatile ed una boccetta di “nero di diavolo” (allora era l’unica tintura capace di ravvivare le vecchie scarpe), aspettai il momento adatto per mettere in atto l’operazione.
Qualche giorno dopo, una mattina che restai solo in casa, diedi il via all’operazione “conta dei porri”. Aiutato dallo specchio e dal pennellino bagnato nella tintura, che usavo per marcare i porri che ad uno ad uno individuavo, l’operazione in poco tempo andò a buon fine. Lo spago con il “rosario” dei porri era ormai completato in modo sicuro. A lavoro finito tolsi dalla tasca il fazzoletto (non era neanche molto pulito e forse aveva anche qualche macchia del sangue dei miei porri) e vi riposi lo spago/rosario. Rinchiuso il “cimelio” all’interno e annodato il fazzoletto come raccomandatomi, lo misi al sicuro, nascondendolo nel fondo della mia scatola personale.
Il tempo passò e lentamente quasi scordai tutto questo trambusto. Ala fine delle vacanze rientrai a Bauladu e ripresi la mia attività scolastica. Per le vacanze di Pasqua, come al solito, tornai dai miei genitori per trascorrervi il periodo pasquale.
Una mattina mentre giocavo nei dintorni della casa vidi l’uomo che rientrava dalla sua azienda, diretto a Macomer. Appena mi vide fermò il cavallo e mi chiamò. Dopo un breve saluto, restando seduto in groppa al cavallo, mi chiese se avessi dato esecuzione alla promessa fattagli. Gli dissi di si. Dopo aver consultato una piccola agendina che custodiva nel taschino del panciotto (credo di ricordare che fosse il “Chiaravalle di Casamara”, una specie di agenda dell’uomo di campagna molto in auge a quei tempi) mi disse: “Vai a prendere lo spago e portamelo qui. Non tardare, perché ho fretta”. Andai di corsa a casa e recuperai dalla scatola il fazzoletto con all’interno lo spago. Gli porsi direttamente il fazzoletto cosi com’era, senza aprirlo, e lui, dopo averlo tastato e sentito che c’era lo spago con i nodi, lo mise in tasca dicendomi: “Spero tu abbia contato per bene. E’ molto importante, lo sai. Ora devi solo aspettare con fiducia”. Detto questo fece un rapido cenno di saluto, spronò il cavallo e si avviò verso Macomer.
Le vacanze passarono in fretta e subito dopo rientrai a Bauladu e ripresi i miei studi ad Oristano. Al termine dell’anno scolastico che superai con onore (fui promosso con buoni voti) rientrai a Macomer per trascorrere le lunghe e agognate vacanze estive. Della storia dei porri debbo dirvi che quasi mi ero completamente scordato. Gli impegni di un anno scolastico e la voglia di vacanze e di riposo non lasciavano molti spazi vuoti.
Le giornate trascorrevano lente e tranquille tra i giochi con i pochi amici e qualche giornata trascorsa al mare di Bosa, che raggiungevo con il trenino. Una mattina mentre mi alzavo dal letto con il cervello impegnato a studiare come trascorrere al meglio ed in allegria la giornata casualmente, infilandomi i pantaloni, mi accorsi che sull’indice della mano destra, dove per anni si era annidato il porro più consistente e più fastidioso che avessi mai avuto, non vi era più nessuna traccia della screpolata protuberanza che quasi tutti i giorni, sbattendo a destra e a manca, mi aveva tormentato; era misteriosamente sparito anche quello più piccolo che avevo sull’anulare della stessa mano. Mi stropicciai gli occhi incredulo e passai più volte la mano sinistra sopra queste dita che, improvvisamente, si erano misteriosamente modificate. Volevo capire se era un sogno o se, invece, era tutto vero. Mi resi conto che non vi erano dubbi: i porri erano veramente scomparsi! In quel momento mi ricordai del vecchio e della sua promessa. Affannosamente mi denudai completamente e osservai il mio corpo in tutte le sue parti: mi accorsi che non vi era più traccia dei numerosi porri che per molto tempo mi avevano tormentato. Si era avverato quanto promesso dal vecchio: la guarigione si era davvero verificata. Ero talmente sconvolto che mi misi a gridare: “Mamma, Mamma, vieni! Vieni che vedi anche tu: non ho più i porri, sono tutti scomparsi! E’ incredibile!”.
Mamma arrivò subito e guardandomi con un ironico sorriso mi disse: “ Marieddu, hai fatto per caso un brutto sogno? Cosa dici? ”. Io mi avvicinai ancora di più e le dissi “No, guarda anche tu mamma. Ricordi il porro che c’era qui?” E le mostrai la mano destra. A quel punto mi accorsi che il suo sguardo non era più ironico ma sorpreso ed incredulo. Mi controllò tutto il corpo e alla fine mi disse: “ Tu sai come è perché è successo?”. Le raccontai tutto e Lei mi rispose che era contenta per me, che queste cose accadono quando il Signore ci vuole bene, e che se questa guarigione straordinaria era avvenuta voleva dire che Dio mi voleva bene in modo particolare. Mia madre, profondamente cristiana, non voleva alimentare in me credenze di superstizione o di magia. Lei certo, che aveva una madre guaritrice e medium, credo che sapesse ben di più di quello che, in quel momento, voleva farmi credere. Per me questa guarigione restò sempre un grande mistero. Ero felice di non avere più quella terribile seccatura addosso e, a prescindere da tutto, pensai che, davvero, il Buon Dio aveva avuto nei miei confronti un “occhio di riguardo”.
Oggi, col senno della mia senilità, credo di poter sostenere che l’uomo non conosce che una piccola parte delle forze che governano il mondo e di conseguenza la nostra vita: dall’alternarsi delle stagioni, alle malattie che colpiscono tutti gli esseri viventi, dalle catastrofi alla variabilità del clima, dallo scorrere della vita nel nostro piccolo mondo terrestre all'immensità dell’universo, in perenne movimento. L’uomo è ben poca cosa, rispetto al grande costruttore del Creato, anche se a volte si atteggia e scimmiotta Dio, nostro creatore. Fermiamoci a riflettere.
Un’ultima considerazione. L’incontro prima ricordato con l’uomo dal cavallo nero, a cui consegnai lo spago con i nodi dei miei porri, fu l’ultimo. Non lo incontrai mai più, anche se ci speravo: gli avrei manifestato tutta la mia gioia e lo avrei ringraziato delle sue grandi doti magiche!
Mario

mercoledì, dicembre 14, 2011

L’ELICRISO, “IL SEMPREVIVO SOLE D’ORO” DELLA SARDEGNA, DALLE INNUMEREVOLI ED APPREZZATE VIRTU’.


Oristano 14 Dicembre 2011

Cari amici,

l’altra sera, mentre passeggiavo godendomi un caldo raggio di sole nella penisola del Sinis, mi è arrivato quel forte ed inebriante profumo di elicriso che, con la brezza del maestrale leggero, impregna tutta la campagna. Credo che godere di questi privilegi ci faccia capire, se mai ce ne fosse ancora bisogno, quale paradiso terrestre noi sardi possediamo e che, purtroppo, per mille ragioni non sappiamo sapientemente utilizzare. L’elicriso pur nella sua apparente semplicità è una pianta davvero straordinaria. Cerchiamo di conoscerla meglio.


L’ELICRISO prende nome dai termini greci “helios” = sole e “Chrysos” = oro, per l’intenso color oro dei fiori che brillano alla luce del sole. I sacerdoti greci e romani lo apprezzavano tanto che usavano incoronare le statue degli dei con questi fiori che possiedono anche un’altra particolarità: pur diventando secchi non si decompongono mai, resistendo nel tempo con grande brillantezza.

La pianta appartiene alla famiglia delle Asteraceae o Compositae, il cui nome scientifico è Helichrysum italicum. Della pianta esistono due sottospecie: subsp. Italicum (sinonimo H. angustifolium ) e subsp. microphyllum. La sottospecie italicum è presente in tutta la nostra penisola e si distingue dall’altra soprattutto per il maggiore sviluppo; la sottospecie microphyllum si ritrova soprattutto sui litorali e nelle aree interne della Sardegna e della Corsica dove sono presenti anche altre minori specie endemiche di elicriso.

In Sardegna, a seconda delle zone, viene chiamata: Archimissa - Erba de Santa Maria – Allu’ e fogu – Frore de Santu Juanne – Bruschiadina/u- Buredda - Uscradina/u.

Pianta suffruticosa, perenne e molto ramificata, forma dei cespugli tondeggianti di 0.3-0.5 mt., rami sottili di colore grigio cenere o verde chiaro. Le foglie sono di forma lanceolata con all'ascella fascetti di foglioline. I fiori sono costituiti da infiorescenze a capolino di colore giallo, che si sviluppano all'apice dei nuovi rami; fiorisce da aprile a luglio in funzione dell'altitudine. I frutti sono degli acheni lisci di colore bruno. La sottospecie presente in Sardegna, Corsica e Baleari risulta eliofila e xerofila, e vegeta dalle zone litoranee fino alle zone d'alta montagna dove è il principale componente di macchie basse e garighe. Questa pianticella spontanea dalla base legnosa, alta mediamente circa 40 cm, è molto resistente sia al vento che alla siccità, per questo ha un portamento leggermente prostrato sul terreno, dove forma fitte macchie odorose nelle assolate e sassose regioni costiere, caratterizzandole per il colore verde-grigio argentato delle foglie e per il colore forte ed intenso dei fiori, di un giallo oro luminoso, che emanano quel particolare profumo aromatico ed intenso che, ormai, caratterizza la Sardegna ai suoi visitatori. L'elicriso, nelle sue numerose specie, è conosciuto anche col nome di "semprevivo", proprio per la sua natura scagliosa e coriacea delle brattee che avvolgono i fiori, che conferisce loro un aspetto chitinoso, ma soprattutto capace di garantire una lunga durata. La fitta peluria grigio argentea che ricopre i rametti e le foglioline non solo da loro un aspetto vellutato, ma li protegge dalle condizioni avverse del clima, specie dal calore estivo e dalla siccità dei luoghi rocciosi e aridi in cui l’elicriso vegeta. Nelle regioni più interne, lontane dalla costa, e ad un'altitudine maggiore, l'elicriso cresce più rado, ma ugualmente rigoglioso e facile da individuare per il suo intenso profumo: passeggiando nei dintorni dove crescono queste piante, nelle giornate assolate, si avverte il suo intenso profumo prima ancora di intravedere lo splendore dei suoi fiori dorati.Questa pianta è davvero capace di farsi “sentire”, anche a distanza, e nel tempo è riuscita a stregare la gran parte dei visitatori che a vario titolo hanno calpestato il nostro amato suolo sardo. Calpestarla o stropicciarla con le mani equivale a portarsi dietro per ore il suo intenso profumo. E’ ormai cosa nota che uno dei primi profumi che colpiscono le narici di chi arriva in Sardegna è proprio quello dell’elicriso, portato dal vento e che accoglie i visitatori con folate gradevoli ed intense, tanto da far sostenere che, alla fine, è quasi impossibile stabilire se sia la Sardegna a profumare di Elicriso o sia, invece, l’Elicriso a profumare di Sardegna!

Le antiche massaie sarde mettevano mazzi di fiori di questa pianta all'interno delle loro case perché il profumo di questa pianta in quei tempi costituiva un "deodorante" naturale, capace di diffondere un fresco e gradevole profumo di pulito; ma erano soprattutto le sue innumerevoli proprietà balsamiche e curative che avevano maggior valore e che, per molti secoli, hanno costituito un componente essenziale della povera farmacopea popolare.

Il caratteristico profumo di questa pianta, con la sua forza penetrante, impregnava l’abbigliamento e la pelle del pastore sardo, che quell’aroma portava a casa rientrando dalla campagna. Era quasi un profumo di "buon ritorno", che assommava, sulla sua figura stanca, l’asprezza e la dolcezza dell’ambiente naturale della Sardegna, che, giorno dopo giorno, costruiva e forgiava il carattere orgoglioso e forte del suo popolo.

L’Elicriso è una pianta aurea, dorata, come i capelli di quella bellissima ninfa che, come racconta un'antica leggenda, era follemente innamorata di un Dio ma non corrisposta; la pietà degli Dei fece si che prima di morire fosse trasformata in elicriso. Tra le credenze popolari relative ai poteri di questa pianta officinale, non poteva mancare la qualità di portafortuna. Un antico proverbio dice: “Di fortuna resti intriso, chi si adorna di elicriso”. Essendo una specie particolarmente aromatica, fino al secolo scorso, in Sardegna si preparavano fasci essiccati di elicriso ai quali si dava fuoco, per poter utilizzare il rapido e profumato falò sull’epidermide del maiale ucciso, al fine di eliminarne le setole e dare, cosi, un aroma intenso alla sua carne. Un altro utilizzo tradizionale è stato quello di posare sopra il formaggio, mazzi di elicriso, per proteggerlo dalle mosche.

L’elicriso era utilizzato anche in cucina. Le sue foglie venivano impiegate per aromatizzare i cibi, mentre in belle composizioni a mazzetto i fiori venivano impiegati a scopo ornamentale, in virtù del fatto che duravano a lungo e si conservano inalterati anche dopo essere stati disidratati. Anche gli antichi rituali ne facevano uso, sia a livello familiare che religioso o scaramantico.

Con i rami ed i fiori della pianta venivano anticamente preparate le corone mortuarie, mentre i mazzetti essiccati di Elicriso custoditi in sacchetti riposti all’interno dei cassetti dei mobili e degli armadi erano considerati un sicuro antidoto contro le tarme.

Il suo profumato fiore simbolizzava la costanza. Un antico rituale scaramantico, previsto per favorire gli incontri matrimoniali, garantiva che preparato e lasciato essiccare un mazzetto di elicriso per tutto l’anno, e poi fatto bruciare in un falò durante la notte di San Giovanni, presto avrebbe fatto incontrare l’anima gemella. Anche i Romani, nell'antichità, lo usavano per ornare le statue e per allontanare, col forte profumo, insetti, tarme e farfalle notturne. Un’usanza ancora in uso è quella di aggiungere i fiori essiccati all’interno dei guanciali sui quali si dorme, per alleviare la respirazione a chi soffre di asma e bronchite. L’arbusto essiccato è anche utilizzato, bruciandolo, per “purificare” e quindi disinfettare le camere e gli altri ambienti della casa, soprattutto dopo il decesso di un componente la famiglia. Questa pianta è molto legata ai rituali “del fuoco” delle feste di San Giovanni. In alcune località della Sardegna ci si lavava le mani, al mattino della festa di San Giovanni, con l’acqua che, dalla sera prima, veniva preparata immergendovi mazzetti di questa pianta (unitamente a quelli di altre piante aromatiche, ugualmente rituali), preferibilmente in numero dispari. In Gallura, durante la festa di San Giovanni, veniva utilizzato l'elicriso per alimentare i fuochi che venivano saltati dai ragazzi in coppia, maschio e femmina, tenendosi per mano, e così diventavano “cumpari e cumari de miccalori“, (compare e comare di fazzoletto). Sempre in Gallura in occasione del parto, prima che nella stanza entrassero gli estranei, la donna gravida si cospargeva un oleolito preparato con erbe aromatiche tra le quali non poteva mancare l'eliscriso.

Le grandi proprietà benefiche di questa pianta sono particolarmente accentuate soprattutto nei luoghi con una buona esposizione al sole, come la Sardegna, dove il sole non manca e le temperature sono ideali; in queste condizioni climatiche particolarmente favorevoli l'Elicriso cresce concentrando i suoi principi attivi, che diventano particolarmente copiosi ed efficaci nel contrastare i numerosi disturbi dell'organismo umano. Ecco alcuni dei tanti modi di utilizzo.

Le parti della pianta dove maggiormente sono concentrati i principi attivi sono quelle costituite dalle ‘sommità fiorite’, che si raccolgono da maggio a settembre, in base all'altitudine. I principi attivi presenti nell'elicriso sono molteplici: i costituenti principali sono flavonoidi, olio essenziale, tannini, acido caffeico, e numerose altre sostanze, alcune non ancora identificate, denominate arenarina, a cui si attribuisce una probabile attività antibiotica. Le proprietà medicinali attribuite all'elicriso sono l'attività antinfiammatoria, antiedemigena, analgesica, decongestionante, antiallergica, anti-eritematosa, foto-protettiva, bechica, balsamica ed espettorante, anti-epatotossica. Queste attività ne fanno un valido ausilio in caso di diverse affezioni, sia per un utilizzo esterno, come per uso interno.

L’Elicriso era impiegato come rimedio contro cefalea, asma e psoriasi, assumendolo come decotto ed infusi. Inoltre era ritenuto efficace e veniva utilizzato per sedare la tosse, in particolare gli attacchi di pertosse, favorire l’eliminazione del catarro bronchiale, attenuare gli eccessi di asma e le infiammazioni di origine allergica della mucosa nasale: contiene infatti l’elicresene, sostanza ad azione diaforetica e pettorale. Per uso esterno sembrerebbe avere un’azione su eczemi, ustioni, eritemi solari e geloni. Recenti ricerche sembrano aver dimostrato un’azione antibiotica verso alcune forme batteriche.

Oggi si utilizza soprattutto “ l’olio essenziale”, ricavato per distillazione in corrente di vapore dei fiori freschi e delle sommità fiorite. Questo prodotto si presenta come un liquido di colore giallo aranciato dal potente profumo. A scopo curativo ben si armonizza con altri olii essenziali: Camomilla matricaria, Chiodo di garofano, Cisto, Geranio, Lavanda, Mimosa, Muschio quercino, Salvia sclarea ed olii agrumari. L'olio essenziale di Elicriso, atossico e non irritante, possiede note virtù antiallergiche, cicatrizzanti, fungicide, espettoranti e antisettiche. La sua straordinaria efficacia si esplica soprattutto nell’azione antinfiammatoria e nella cura di allergie cutanee, dermatiti, eczemi, macchie, epitelizzante in ustioni di lieve entità. Con buoni risultati è utilizzato in caso di psoriasi e dermatiti ostinate.

Il prodotto ha trovato un ottimo utilizzo nel comparto della dermocosmesi funzionale per le proprietà eudermiche ed anti-aging. Tuttavia tale impiego sembra ancora piuttosto limitato, viste anche le continue ricerche scientifiche che ne confermano l’azione antinfiammatoria anche nei casi di patologie respiratorie e allergie cutanee gravi. Le ottime caratteristiche dell’olio essenziale di elicriso sono poi supportate da una certa sicurezza nel suo utilizzo. Non è infatti considerato tossico per ingestione, del tutto assenti manifestazioni di irritazione e sensibilizzazione cutanea e foto tossicità.

Si reputa inoltre che, in casi di stress e/o depressione, rilassarsi in un ambiente nel quale sia stato diffuso quest’olio essenziale procuri apprezzabile lenimento. Trova inoltre impiego come fissativo e componente nelle fragranze che deodorano: saponi, cosmetici e profumi.

Come sostiene la Dottoressa Marina Multineddu, (laureata in Scienze Biologiche all'Università di Cagliari e diplomata in Erboristeria all'Università di Urbino, che ha ormai oltre 25 anni di esperienza sulle tematiche legate alla fitoterapia e alla cosmesi naturale) l'infuso delle sommità fiorite di Elicriso per via interna giova in tutti i casi di dermopatie (dal greco "derma" = pelle e "pathos" = sofferenza) come gli eczemi, e in modo particolare la psoriasi, per le quali può essere associata anche la balneoterapia con il suo decotto, rivelatosi più efficace dell'infuso, e con unguenti o oleoliti, da applicare sulle parti interessate al disturbo.


Gli studi sulle patologie della pelle e sull'apparato respiratorio si devono al dottor L. Santini il quale, avendo notato che i contadini della Garfagnana, in Toscana dove lui operava come medico condotto, curavano le affezioni bronchiali del bestiame con l'Elicriso, volle sperimentarlo sui suoi pazienti, ottenendo una conferma delle sue aspettative, ma in più notò un'azione favorevole nei pazienti con affezioni eczematose e soprattutto psoriasiche, e nel 1949 pubblicò i risultati delle sue osservazioni. Sempre il dott. Santini evidenziò una componente antiallergica dell'Elicriso, che egli utilizzava per mezzo di aerosol, colliri e impacchi palpebrali nelle riniti, congiuntiviti e blefariti allergiche. Egli conseguì risultati degni di attenzione anche nel trattamento delle ustioni e dei geloni, ottenendo una più veloce scomparsa delle manifestazioni dolorose, del prurito e del bruciore.L'uso interno in forma di infusi e sciroppi si è rivelato utile, come coadiuvante, nella pertosse, nelle bronchiti subacute e croniche, anche in presenza di manifestazioni asmatiche o enfisematose, che logicamente necessitano di adeguata terapia, cui l'Elicriso può fare da sostegno.

Un'altra proprietà importante dell'Elicriso è quella antiedemigena, utile in caso di sindrome varicosa emorroidaria (emorroidi interne ed esterne) come decongestionante e analgesico, specie se associato ad altre piante antinfiammatorie come l'Aloe, e vasoattive come il Rusco, la Centella asiatica e il Cipresso; si ottiene così una sinergia di azione che contrasta l'infiammazione e il dolore, tonifica le pareti venose del plesso emorroidario, riduce l'edema e la dilatazione delle vene. In questo caso si utilizzano pomate specifiche, molto utili per ridurre il dolore, il prurito e il bruciore, meglio se accompagnate anche ad un trattamento interno che agisca sulle varie cause del problema, come lo sfiancamento delle pareti venose e la congestione epatica.

Un ostacolo all'utilizzo dell'infuso è costituito dal sapore molto intenso e non a tutti gradito dell'Elicriso, per cui oggi si preferiscono preparati già pronti in capsule, anche in associazione con altre piante che ne rafforzino e ne amplino la sfera d'azione.

L'uso esterno locale contro psoriasi ed eczemi può essere effettuato tramite decotto da utilizzare per abluzioni delle parti interessate (da non risciacquare), o spalmando creme o unguenti, oppure utilizzando semplicemente un buon olio di Mandorle miscelato con olio essenziale di Elicriso (da 3 a 5 ml di olio essenziale per 100 ml di olio di Mandorle). Come olio di base si può utilizzare anche l'olio di Iperico, o quello di Calendula, secondo il disturbo che si intende trattare, per potenziare l'azione dell'Elicriso. Se ad esempio si vuole agire sui geloni, è bene utilizzare come base l'Olio di Calendula, che è indicato anch'esso come coadiuvante per lenire questo fastidioso e talvolta doloroso disturbo: con l'aggiunta dell'olio essenziale di Elicriso se ne esalterà e potenzierà l'azione decongestionante, rigenerante e cicatrizzante della pelle lesionata dai geloni. La base più adatta è invece l'olio di Iperico per gli eczemi e la psoriasi, soprattutto se localizzati su mani o piedi, ginocchia o gomiti, per la pelle soggetta a piaghe e ustioni, o per gli eritemi solari. Si può utilizzare anche un bagnoschiuma che contenga Elicriso, in modo che durante la doccia, o meglio ancora il bagno, si possa trarre beneficio contemporaneamente delle azioni benefiche dell'Elicriso sia sulla pelle sia sull'apparato respiratorio.

Uno studio effettuato nel dipartimento di Farmacologia dell'Università di Valencia (del Marzo 2002), ha riconosciuto la validità delle brillanti intuizioni del dott. Santini, confermando le proprietà antiflogistiche dell'Elicriso, e evidenziando anche le sue proprietà antiossidanti.

Credo che le sue miracolose proprietà non si limitino a quelle che ho riportato. L’elicriso, questo “sole d’oro” che cresce nella nostra profumata Sardegna, sono convinto che possieda altre meravigliose virtù ancora sconosciute.

Una delle sue qualità-virtù già note che, invece, dimenticavo di ricordarVi è quella del suo utilizzo come ingrediente base di un ottimo liquore: l’amaro di elicriso.

Questo liquore, o amaro di elicriso, è commercializzato col nome di “Khrisos”, ovvero “Oro”, ed è un infuso idroalcolico ottenuto dall' infusione dell' elicriso nell' alcool. Il liquore di elicriso ha un sapore amaro aromatico forte, alla degustazione lascia diversi sentori nel palato, di cui alcuni ricordano i profumi del mare e quelli delle montagne coperte di macchia mediterranea, vicino alla costa. Per questi intensi effluvi è considerato un ottimo digestivo, tanto che molti lo preferiscono al mirto per queste sue caratteristiche uniche, non riscontrabili in altri prodotti simili. Di media gradazione alcolica (vol. 23%) è capace di lasciare nel palato sensazioni uniche ed irripetibili!

Che ne dite, cari amici, non è meraviglioso questo nostro compagno di viaggio fatto di Oro e Sole?

Grazie della Vostra gradita attenzione.

Mario


giovedì, dicembre 08, 2011

PIAZZA MANNU (GIA’ PIAZZA DE SA MAJORIA), DALLA SCOMPARSA DELL’ANTICA “PORT’A MARI” ALL’INVISIBILE “ALBERO” (SULLA ROTONDA) DEL GIUDICATO D’ARBOREA.



Oristano 8 Dicembre 2011

Cari amici,
uno come me ci passa tutti i giorni; a piedi o in auto ci giro intorno ma, anche sollevando il collo come uno struzzo, della bella scultura che sta al centro della rotonda di Piazza Mannu (la diatriba se questa Piazza debba essere attribuita al barone Giuseppe Manno o a Francesco Ignazio Mannu è lunga e laboriosa: io preferisco chiamarla come tutti gli oristanesi continuano a definirla, piazza MANNU) non si riesce a vederne neppure i contorni! Eppure si è fatto un gran baccano per la realizzazione di quest'opera che ha impegnato l'Amministrazione Comunale in tempo e denaro.
Rivediamo insieme questa curiosa storia.

"Oristano, lo stemma degli Arborea in piazza Mannu”.

Cosi titolavano i giornali quando la Giunta comunale aveva definitivamente approvato il progetto per la realizzazione della “rotonda” nella Via Cagliari, all’incrocio con la Piazza Mannu, l’antica e nobile Piazza de Sa Majoria.

Luogo teatro nel passato di grandi avvenimenti, ove si affacciava il Palazzo dei Giudici d’Arborea, a pochi passi dalla seconda porta principale della cinta muraria della città, la torre di S. Filippo, detta comunemente Port’a Mari. Essa rivestiva la stessa importanza dell’altra Torre, quella ubicata nell’attuale Piazza Roma e chiamata Torre di San Cristoforo o di Mariano II o, più comunemente Port’a Ponti, perché consentiva l’entrata e l’uscita da Oristano, attraverso il Ponte (Ponti Mannu) di antica costruzione romana.

Poco è rimasto in piedi dell’antica cinta muraria della Oristano giudicale: in ottimo stato di conservazione solo la Torre di S. Cristoforo (eretta nel 1290), mentre la sua gemella Torre di San Filippo fu abbattuta nel 1907. Tracce delle antiche mura sono visibili in pochi punti della città: Portixedda , Via Diego Contini e via Cagliari.

Prima di parlarVi della “curiosa storia della rotonda di Piazza Mannu”, recentemente inaugurata, voglio spendere una parola proprio sul penoso stato di questa piazza, il cui degrado, ormai, ha superato ogni limite. Dimenticati da tempo gli scavi portati avanti anni fa per documentare l’ubicazione esatta dell’antica Torre (che si ergeva dove oggi è allocata l’edicola di fronte alla pasticceria Vacca) e frettolosamente ricoperti gli scavi, la Piazza non ha avuto l’onore di nessuna particolare manutenzione o cura. I pochi alberi esistenti, stracarichi la notte di innumerevoli uccelli che giornalmente lasciano cadere le loro odorose deiezioni, rilasciano una abbondante razione di foglie sulle sconnesse mattonelle della pavimentazione, già ampiamente impiastricciate del concime dei volatili. A dare alla piazza un maggior tono di abbandono, la pericolante facciata del Regio Liceo-Ginnasio, da lungo tempo “provvisoriamente” transennato ed i cui lavori di manutenzione non si sa ne quando e ne come verranno messi in cantiere.

In una condizione di cosi grande tristezza per la piazza, però, si è voluto portare avanti la sistemazione del traffico circostante realizzando la rotonda, che ha sostituito il semaforo prima esistente.

“La piazza, proprio davanti all’antica reggia degli Arborea, diventerà il simbolo della storia giudicale e della tradizione ceramica. L’albero deradicato degli Arborea sarà realizzato in ceramica da artisti locali e sarà un importante simbolo visivo della città”, affermavano con convinzione gli amministratori comunali, quando predisposero la realizzazione di questa rotonda.

“È una piazza alla quale deve essere restituito il decoro che merita in attesa di una sistemazione più complessiva che si potrà realizzare solo una volta che il carcere si trasferirà nella nuova struttura di Massama e sarà stato deciso l’utilizzo dell’antica Reggia degli Arborea”, continuavano a sostenere gli amministratori in carica.

Sicuramente l’idea merita un indiscusso plauso e, chiunque l’abbia avuta per primo, ha ragionato in modo sicuramente positivo. E’ che, qualche volta, tra il dire… e il fare, non sempre c’è concordanza. I lavori della rotonda, costati circa 150 mila euro, sono stati realizzati sicuramente a regola d’arte: con l'impiego di lastre di basalto sardo, ben levigate, e finitura con elementi in cotto. La copertura, invece, della parte centrale della rotonda sarebbe stata completata con il posizionamento di un bassorilievo artistico in ceramica raffigurante lo stemma del Giudicato d'Arborea: l'albero deradicato inserito all'interno di uno scudo gotico in campo bianco. Certamente una magnifica idea, quella di esporre un importante simbolo a tutti noto, lo stemma degli Arborea, capace di caratterizzare, una zona fra le più importanti nella storia della città: quella “Piazza de sa Majoria”, luogo di esercizio del passato potere giudicale, amministrato in quel nobile palazzo (che oggi ospita il carcere), ubicato proprio davanti all'antica Porta a Mari, oggi malinconicamente scomparsa.

Il fatto curioso, però, è che terminati i lavori di posizionamento dello stemma in ceramica, che completava la parte centrale della rotonda, ai numerosi passanti, automobilisti e pedoni, di questo “capolavoro” nulla appare ai loro sguardi curiosi e indagatori. Nonostante la curiosità dei tanti nessuno riesce a mettere a fuoco l’opera realizzata dagli alunni dell'Istituto d'arte Carlo Contini di Oristano, su incarico della Giunta Nonnis, che proprio a questi giovani ceramisti ha voluto affidare il compito di esaltare “due importanti caratteristiche della città”, l’antica tradizione ceramista e la storia giudicale. Come mai il prezioso manufatto non è visibile agli occhi dei passanti?

La causa principale è certamente il posizionamento in orizzontale, ad un’altezza non raggiungibile dallo sguardo, che vanifica e getta alle ortiche uno sforzo ed una spesa di non poco conto. E’ mai possibile che, con gli strumenti di oggi, con le simulazioni che il computer è in grado di fare, non sia stato appurato, in fase di studio, che il bel bassorilievo, collocato in quella posizione non sarebbe mai stato visibile? A che pro spendere tanti soldi senza la certezza del risultato? Chissà quanti cercheranno, ora, mille giustificazioni per arrivare alla conclusione che… il colpevole non c’è!

Con la mia solita ironia credo che i più avviliti per queste “cantonate” siano proprio i giovani che, per molti mesi, nei laboratori dell'Istituto d'arte, hanno lavorato sodo per realizzare la splendida opera che, ora, solo i più temerari, dopo una furtiva quanto pericolosa “salita” a piedi sulla rotonda, sono in grado di ammirare.
Io credo che agli errori si possa e si debba porre rimedio. Inutile nascondersi dietro il dito. Lo dobbiamo alla citta, ai cittadini, ed a quanti amano Oristano e la sua storia.
Lo dobbiamo anche a quel gruppo di ragazzi che citavo prima, che hanno sognato di dare il loro contributo alla rinascita di una città che in passato ha recitato un ruolo ben più luminoso di quello di oggi. Voglio ricordarlo questo gruppo di ragazzi dell’Istituto d’Arte. Esso era composto da sette studenti: Tania Atzori, Giorgio Barresi, Valentina Carcangiu, Chiara Marongiu, Emanuele Piras, Maurilio Statzu e Francesco Testa, seguiti dagli insegnanti Margherita Pilloni e Arnaldo Manis e dall'assistente tecnico Salvatore Pinna.

Il materiale utilizzato per lo stemma e per tutto il decoro è un'argilla semi refrattaria, modellata, essiccata e infornata e, infine, decorata con i colori tipici degli smalti impiegati storicamente dai figoli di Oristano: il verde e il giallo. Lo scudo realizzato è composto da ventisei lastre, mentre il resto del decoro è assemblato con circa duecentocinquanta mattonelle.

Io spero, come credo lo sperano tanti oristanesi, che presto possa essere trovata una soluzione che riesca a mettere in buona evidenza lo splendido lavoro realizzato da questi giovani e promettenti artisti. Spero anche che, a prescindere dal futuro recupero dell’antica Reggia, Piazza Mannu venga, in tempi brevi, resa “dignitosamente vivibile”, perché il decoro di una città si vede anche dal rispetto che si ha per il suo passato. Il futuro, non dimentichiamolo mai, è impregnato dall’esperienza del vissuto che costituisce il suo DNA: come le radici di un grande albero che cresce e diventa grande e forte, appoggiandosi ad esse.

Manteniamo sempre "salde radici" se vogliamo che si sviluppi un grande albero, forte e tenace come quello a noi ben noto: quello del Giudicato d’Arborea.

Grazie dell’attenzione e…a presto!

Mario


mercoledì, dicembre 07, 2011

IL SEMINARIO TRIDENTINO DELLA DIOCESI ARBORENSE: 300 ANNI, PORTATI SPLENDIDAMENTE! CONCESSO DAL VATICANO UNO SPECIALE “ANNO GIUBILARE”.



ORISTANO 7 DICEMBRE 2011

Cari amici,

lo scorso 10 Ottobre S.E. Mons. Ignazio Sanna, Arcivescovo Metropolita di Oristano, chiudendo il Convegno Ecclesiale ha ufficialmente inaugurato l’Anno Giubilare, concesso da S.S. Benedetto XVI in occasione del trecentesimo anniversario della costruzione del Seminario Arborense.

L’Anno Giubilare concesso dal Papa, come stabilisce il “DECRETUM, emesso dalla Paenitentiaria Apostolica”, concede, ai fedeli che lo vorranno, il privilegio di lucrare l’indulgenza plenaria, rispettando le norme e le disposizioni che questa speciale concessione prevede.


“Quest’anno giubilare –come ha dichiarato Mons. Giuseppe Sanna, Rettore del Seminario, al settimanale “L’Arborense” – costituisce un evento di straordinaria importanza per la nostra Comunità. Trecento anni di vita sono un traguardo di grande portata storica e spirituale per un seminario il cui scopo nel tempo è quello di formare coloro che, accogliendo la divina chiamata, portano avanti la missione di Gesù in mezzo agli uomini”.

Giubileo caldamente richiesto dall’Arcivescovo, S.E. Mons. Ignazio Sanna, non solo per ricordare e festeggiare una struttura che nel tempo ha formato un gran numero di sacerdoti ma, soprattutto, per ringraziare il Signore per il grande dono della fede e delle vocazioni che si augura possano nuovamente crescere e moltiplicarsi.

Invochiamo l’aiuto di Dio – ha concluso S.E. Mons Sanna al termine dell’inaugurazione dell’Anno Giubilare – affinché il Giubileo che ci apprestiamo a celebrare, diventi per ognuno di noi occasione e stimolo per vivere con fede il Vangelo nella nostra quotidianità. Affidiamo a Maria Immacolata, nostra madre a patrona, questo lieto evento perché ci doni la vera gioia per poter viverlo in santità e purezza di spirito”. La bella Cappella del Seminario Tridentino resterà aperta tutti i giorni dalle ore 8,00 alle 12,30 e dalle 15,00 alle 18,45.

L’anno giubilare appena inaugurato durerà fino al 25 giugno 2012 e culminerà il 1º maggio prossimo, anniversario dell'inaugurazione del Seminario dedicato all'Immacolata (la prima inaugurazione fu fatta dall’Arcivescovo Francesco Masones Nin è porta la data del 1 maggio 1712), con la messa solenne, che sarà concelebrata nella Cattedrale dal legato papale, Cardinal Comasco.

L’occasione dell’Anno Giubilare, che personalmente apprezzo molto, mi da l’occasione per ripercorrere con Voi la storia di questo splendido palazzo che, serio e maestoso, completa, chiudendola armonicamente, l’ampia piazza del Duomo. Con la cattedrale, il campanile e l'episcopio, infatti, il Seminario Tridentino forma un armonioso complesso urbanistico-architettonico di piacevole visione. Il Seminario è stato fino a non molti anni fa il più grande edificio cittadino che, nonostante l’ampiezza dei suoi volumi, non è mai risultato invadente, in virtù delle sue caratteristiche, in particolare per la bella tonalità conferitagli dalla muratura mista in pietrame e laterizi.

L’idea della sua costruzione nasce fin dai primi del 1.600. L’Archivio Storico del Comune di Oristano annovera tra i documenti degli anni 1619 - 1623, alcune disposizioni inerenti proprio l’ipotizzata fondazione di questo Seminario.

Il primo atto concreto per la fondazione del Seminario Tridentino di Oristano risale al 1704, quando l’Arcivescovo Mons. Francesco Masones y Nin, lo stesso che nel 1703 eresse il seminario nella diocesi di Ales, decise, dopo aver valutato le condizioni climatiche e ambientali della città, di dotarla, conformandosi alle disposizioni del Concilio di Trento, di una struttura nella quale i ragazzi e i giovani chiamati al sacerdozio, avrebbero potuto curare la propria formazione culturale e scolastica.

Questo attivo Arcivescovo, nonostante le difficoltà finanziarie, nominò subito una commissione di quattro sacerdoti con il compito di individuare il luogo in cui sarebbe sorto il Seminario e successivamente di occuparsi della sua edificazione. Ci si orientò su un fabbricato vicinissimo alla Cattedrale, che risultava dotato di un ampio giardino. Per far fronte alle spese d’acquisto e della necessaria ristrutturazione l’Arcivescovo impose una tassa dell’ 1% su tutti i benefici esistenti in diocesi a iniziare dalla “mensa arcivescovile”.

Lentamente la costruzione prese forma ed il 1 maggio del 1712, con grande tripudio di folla, fu solennemente effettuata l’inaugurazione del Seminario, dedicato alla Beata Vergine, con la celebrazione di una S. Messa solenne nella Cattedrale di Santa Maria Assunta, a lato della quale la nuova struttura era sorta. Durante la celebrazione il rettore, il sacerdote Giovanni Elia Gamboni, e gli altri responsabili della nuova opera giurarono, nelle mani dell’Arcivescovo, di osservare fedelmente le norme contenute nelle “Costituciones del Seminario de Santa Maria de la Assumpta… erigido en la Ciudad de Oristan”.

Il primo impianto non era certo quello che ammiriamo oggi. Era questa, infatti, una struttura molto modesta, composta da quattro camere e una sala che, ben presto, si dimostrò insufficiente ad accogliere i numerosi seminaristi che intendevano frequentarla. Negli anni tra il 1744 e il 1746, l’edificio risultava assolutamente incapiente e l’Arcivescovo Maurizio Fontana lo fece ampliare al fine di accogliere trenta alunni. Dal 1746 al 1772 l’Arcivescovo Emanuele De Carretto dispose di far erigere un altro Seminario molto più stabile e molto più ampio che venne aperto nel 1794, quando guidava l’arcidiocesi l’Arcivescovo Giuseppe Luigi Cusano. Nel 1828 l’Arcivescovo Giovanni Maria Bua, rilevandone la necessità, dispose un nuovo ampliamento dell’edificio, affidandone i lavori all’Architetto Giuseppe Cominotti da Cuneo. I lavori relativi a questo ulteriore ampliamento terminarono nel 1833, mentre nel 1834 venne edificata la nuova cappella, dedicata all’Immacolata. Nel 1876 Monsignor Antonio Soggiu volle accrescere di un altro piano il braccio occidentale dell’edificio e ulteriori rinnovamenti vennero operati dall’Arcivescovo Paolo Maria Serci nell’anno 1882. Gli ampliamenti e i rimaneggiamenti, però, non sono ancora finiti. Nel 1910 si dà inizio alla costruzione di un nuovo piano sopra la biblioteca e, durante tali lavori, venne eretta anche la maestosa scala di ingresso a doppia rampa, tutta in calcare bianco di Nuraminis, su progetto dello scultore Giuseppe Sartorio. Nel 1912, l'edificio venne arricchito del fastigio che incornicia il portale d’ingresso, mentre la gran parte delle sale, delle stanze e dei corridoi vennero affrescate con interessanti pitture che ancora oggi ornano la gran parte dei locali.

Nonostante la lunga e tortuosa vicenda costruttiva il Seminario Arborense è ancora oggi una struttura funzionale, dotata, all'interno, di ampie e comode sale, fra cui quelle dove sono alloggiati la biblioteca e i musei didattici, e di spaziosi e luminosi corridoi.

Con il Seminario così ampliato e abbellito fu celebrato, con feste solenni, il bicentenario della sua fondazione, nei giorni dal 27 al 30 ottobre del 1912. L’edificio, successivamente, subì ulteriori cambiamenti agli inizi degli anni sessanta del XX secolo, per portarlo allo stato attuale.

Al suo interno questo edificio conserva collezioni storiche e archeologiche di inestimabile valore (in numerose bacheche sono custoditi interessantissimi reperti provenienti dall’antica città di Tharros), tra cui una biblioteca straordinariamente ricca di incunaboli e cinquecentine, oltre a preziosi volumi dell’Encyclopédie des Sciences, una Bibbia poliglotta e altri volumi del XVI e XVII secolo.

Tutto questo materiale sarà presto visibile: come molti sanno, da tempo è in corso la sistemazione dei locali per l’esposizione al pubblico di un grande “Museo Diocesano”, nel quale, oltre quelli prima indicati, saranno esposti altri preziosissimi cimeli religiosi del passato.

Questo splendido Seminario Tridentino nei suoi tre secoli di vita, oltre che una grande schiera di santi sacerdoti ha accolto e formato tra le sue possenti mura non pochi uomini illustri: ne cito uno per tutti, in quanto è forse uno degli oristanesi più noti: Salvator Angelo De Castro.

Ecco rapidamente la sua sintetica scheda.

Salvator Angelo De Castro, intellettuale, canonico e uomo politico, nacque ad Oristano nel 1817. Studiò al Seminario Tridentino di Oristano e successivamente nelle università di Sassari e Cagliari, laureandosi in diritto nel 1837.

La sua grande sete di sapere e l’ampia apertura mentale lo portò, negli anni della sua formazione, ad avvicinarsi alla cultura liberale e ai grandi scrittori europei del tempo. Nel 1839 divenne sacerdote e fu aggregato alla facoltà giuridica cagliaritana. Nel 1843 ebbe la docenza di Istituzioni di diritto canonico e diede vita con altri alla rivista “La Meteora” una delle pubblicazioni più importanti della "Rinascenza Sarda", a cui collaborarono illustri nomi sardi e italiani (Balbo, Cattaneo, Gioberti, Leopardi) ed europei (Byron, Hugo). La rivista, letteraria e scientifica, era mal tollerata dai piemontesi perché in realtà dissimulava tra le righe ‘coraggiose posizioni progressiste’, contrarie all'assolutismo dei Savoia, ed in difesa di un'isola che doveva rivalutare la sua cultura e il glorioso passato per superare l'intollerabile servitù.

Nel 1846 De Castro abbandonò l'insegnamento per il canonicato e assunse la Presidenza del Seminario Tridentino, proprio quello dove aveva iniziato la sua formazione.

Fu deputato dal 1848 al 1857. Nel 1855 divenne provveditore agli studi di Oristano. Lasciato il Parlamento nel 1859, grazie alla legge che escludeva i canonici dall'elettorato attivo, divenne preside del Convitto Nazionale e del Regio Liceo di Cagliari e, dal 1867 al 1878, provveditore agli studi di Sassari. Morì ad Oristano il 31 Marzo del 1880.

La casa dove abitò e morì è ancora visibile nella via che porta il Suo nome (via De Castro), dove una targa, in marmo bianco, lo ricorda.
Sono trascorsi trecento anni ed il Seminario, che porta splendidamente i suoi anni, come un grande vecchio, sembra osservare il tempo che passa; solo un velo di tristezza sembra attraversarlo: forse sente la mancanza del frastuono e delle voci gioiose dei molti seminaristi che gli hanno, per molti anni, fatto compagnia. La speranza è che un certo numero di vocazioni riprenda a sbocciare: credo che ritroverebbe, senza indugio, il suo sorriso.

L’odierna realtà, cari amici, è che anche l'Arcidiocesi Arborense, come molte altre, si trova a fare i conti con la crisi delle vocazioni che sta investendo l'intera Chiesa Cattolica. Crisi che, in una realtà come quella della Diocesi di Oristano, si traduce in una preoccupante carenza di sacerdoti. Su 85 parrocchie, come ha più volte ribadito l'arcivescovo S.E. Mons. Ignazio Sanna, appena 60 sono realmente operanti. «Molti parroci, infatti, sono ormai molto anziani e per amministrare i fedeli di una arcidiocesi come la nostra, con 147mila abitanti servono non poche risorse umane».

L’augurio che possiamo fare tutti, di cuore, è che l’Anno Giubilare appena proclamato sia fecondo di nuove vocazioni e che il Seminario Tridentino, antica e splendida quercia, riaccolga con gioia tanti altri giovani tra le sue stanze, che ora rimpiangono l'allegro anche se rumoroso chiacchiericcio del passato.

Grazie a tutti Voi dell’attenzione.

Mario