domenica, febbraio 26, 2012

ORISTANO: IL FUTURO DI PIAZZA MANNO E DELL’ANTICO PALAZZO GIUDICALE. L’APPELLO DI MOMO ZUCCA: “NIENTE PASTROCCHI”.

Oristano26 Febbraio 2012

Cari amici,

leggevo avant’ieri sull’Unione Sarda, nella pagina della nostra cronaca regionale, l’articolo sul prossimo trasferimento della struttura carceraria circondariale da Piazza Manno al nuovo carcere di Massama, ormai praticamente terminato.

A parte la soddisfazione per la realizzazione di una struttura che consentirà condizioni abitative certamente più adeguate sia ai detenuti che al personale, è arrivato il momento di dare alla struttura attuale, l'antico palazzo dei giudici del Giudicato d'Arborea, ed alla piazza che la ospita, una destinazione finalmente consona alla sua storia ed al suo glorioso passato. Accompagnava l'articolo un interessante intervento del Prof. Raimondo Zucca dal titolo: "Palazzo Giudicale, niente Pastrocchi".

Oristano è una città ricca di storia e Piazza Manno, in particolare, costituisce uno dei suoi luoghi più rappresentativi: essendo stata la prestigiosa piazza della “Maioria”, dove si affacciava il palazzo dei Giudici d’Arborea. Oristano, dunque, con un passato glorioso e ricco.

A partire dal 1070, dopo che “Aristianis” si era guadagnato lo status di civitas, sostituendo l'antica Tharros, trovarono la giusta collocazione, nei punti chiave dell’abitato, le strutture che dovevano ospitare le massime autorità che la governavano: quella ecclesiastica e quella civile-militare. Il Giudicato d'Arborea, forte e potente, alloccò nell’area della Chiesa di S. Maria-San Michele, la sede Arcivescovile, dopo aver trasformato l’edificio in Cattedrale, e la costituzione dell'episcopio e di tutte le altre strutture connesse al ministero episcopale, che rappresentava la massima autorità religiosa. Non distante per ragioni logistiche, quindi in aree limitrofe, doveva trovare ubicazione la sede dell’Autorità civile.

Dove si localizzasse con esattezza il palazzo giudicale, nei primi due secoli dell’anno mille, non vi è certezza storica. L’ubicazione certa del palazzo giudicale in Oristano si ha solo nel 1335, quando nel testamento del Giudice Ugone II viene menzionata la sua residenza, la sede del "palatium iudicis Arboreae", edificato su un lato della piazza della Maioria, l'odierna Piazza Manno, protetta dalla torre di “Porta Mari” (barbaramente demolita nel 1907), che metteva in collegamento la città murata con il mare. Tra il 1290 e il 1293, infatti, fu compiuta l'intera opera di fortificazione del centro di Oristano ad opera di Mariano II. La città vantava un circuito murario di 2,007 km, che abbracciava una superficie trapezoidale di 32 ettari. Le torri erano ventotto, di cui due “maggiori” gemelle, quella di San Filippo e l'altra di San Cristoforo (oggi di queste l' unica superstite, è quella di S. Cristoforo, detta anche di Mariano II, in piazza Roma). Le altre porte della città erano Porta Mari, ad ovest della torre di San Filippo, la porta occidentale, forse detta di Sant' Antonio, e la porta di levante, denominata Portixedda (l’unica superstite delle torri minori).

Fatta questa doverosa premessa torniamo al motivo di questa riflessione: restituire alla città una delle sue piazze più ricche di storia, piazza Manno, unitamente al suo prestigioso ed antico palazzo: quello dei Giudici d’Arborea. Questo restituzione, questo “ripristino dei luoghi” non può essere fatto in modo, come spesso succede, approssimativo, senza studiarne, prima, un attento e funzionale iter di recupero. Ecco, allora, proporre a tutti Voi che mi leggete la seria e valida “riflessione”, fatta da uno dei nostri uomini più illustri: Momo Zucca, direttore del nostro “Antiquarium Arborense, archeologo, docente universitario e profondo conoscitore della nostra Oristano. E' proprio l'intervento che ha pubblicato l'Unione Sarda il 24 di questo mese.

Credo che le parole del Prof. Raimondo Zucca non abbiano bisogno di molte spiegazioni. E’ tempo che Oristano si riprenda il suo passato: il futuro dovrà svilupparsi partendo dalle sue radici. E’ tempo che Oristano dimostri a tutti di sapersi amministrare; che il tempo della delega agli “altri”, quelli che Oristano non l’hanno nel cuore, è terminato.

Riappropriamoci delle nostre radici e della nostra storia. Altrimenti l’albero deradicato degli Arborea servirà solo a ricordarci che le “nostre radici”, non ci interessano proprio! Non creiamo, come dice Momo, nuovi “pastrocchi”, simili a quello dell’errata collocazione del nobile stemma degli Arborea nella rotonda di Piazza Manno, visibile solo dagli oristanesi che…”stanno in cielo”!

Grazie della Vostra attenzione!

Mario



domenica, febbraio 19, 2012

ESSERE CRISTIANI NEL TERZO MILLENNIO: GLI ASPETTI SOCIO-RELIGIOSI NELLA DIOCESI DI ORISTANO.



Oristano 19 Febbraio 2012

Cari amici,
ieri, Sabato 18 Febbraio, ho partecipato all'annuale incontro con la Stampa che S.E. Mons. Ignazio Sanna, Arcivescovo Metropolita di Oristano, ha tenuto con gli operatori dell'informazione della Provincia che aveva, come ordine del giorno, un argomento di indubbio interesse: “La situazione socio-religiosa della Diocesi”.

Essere Cristiani oggi, insomma, al tempo della Globalizzazione: tra Fede Professata, Fede Celebrata e Fede Testimoniata, questo, in sintesi, il tema centrale dell’incontro tra S.E. Mons. Ignazio Sanna ed i giornalisti e gli operatori della comunicazione, attivi nella Diocesi e nella Provincia di Oristano.

L’annuale incontro con la Stampa, che quest’anno aveva per tema “La situazione socio-religiosa della Diocesi” ed il consuntivo della Sua Visita Pastorale in tutte le strutture dell’Arcidiocesi Arborense, ha avuto una nutrita partecipazione. All’incontro, tenutosi anche quest’anno presso il Seminario Arcivescovile, hanno partecipato: il presidente dell’Ordine dei giornalisti della Sardegna Filippo Maria Peretti; Mario Girau, responsabile regionale dell’UCSI, Emilio Firinu, responsabile diocesano, Francesco Birocchi, giornalista della Rai Sardegna e numerosi rappresentanti delle diverse testate giornalistiche regionali, oltre che delle TV locali, radio e Web Communication.

I lavori sono stati aperti con l’esposizione dei risultati della Sua Visita pastorale, indetta alla fine del 2008 ed iniziata nel Gennaio del 2009. Tre anni “itineranti”, conclusi a Novembre del 2011, e che hanno consentito al nostro Arcivescovo di fare una “lucida riflessione”, che ha messo in evidenza luci e ombre, di una Diocesi di circa 150 mila abitanti distribuiti in 85 Parrocchie.

Le visite, effettuate in profondità e con rigore, dedicando circa tre giornate per Parrocchia, Gli hanno consentito di scoprire i vari aspetti di “come viene vissuta in loco” la Fede nel popolo cristiano di appartenenza, partendo dagli aspetti esteriori fino a toccare quelli più intimi, quelli che si celano nel profondo della coscienza di ogni uomo che si professa credente in Cristo.


I risultati sono stati molto molto interessanti, pur se discontinui ed a volte contradditori. L’Arcivescovo ha affermato con convinzione che, in estrema sintesi, la Comunità diocesana visitata risulta “ricca di passato ma povera di futuro”. Nel tempo, certi buoni comportamenti si sono sfilacciati fino a scomparire. La pratica religiosa è fortemente diminuita e la nostalgia del passato, fatta di ricordi di feste liturgiche celebrate con molta solennità, di associazioni molto numerose e partecipate, di Chiese e aule scolastiche piene di voci e di canti religiosi, torna prepotentemente a farsi sentire.

Tutto questo induce l’Arcivescovo a sostenere che “…La nostra Comunità ha bisogno di ritrovare coraggio e motivazioni per conservare il passato, creando futuro…”.

Quali i rimedi, le strade da percorrere? Mons Sanna, partendo dagli impegni presi nell’indire la visita pastorale, quelli di incentivare nel Suo popolo cristiano il “ vivere una Chiesa dal volto familiare, una Chiesa guidata dallo Spirito, una Chiesa libera”, ritiene che sia necessario ritrovare la fiducia; ricominciare proprio “vincendo la rassegnazione e ritrovando ragioni e motivazioni di ottimismo realistico”. “Senza entusiasmo per il proprio lavoro e la propria missione non si va da nessuna parte”, sostiene l’Arcivescovo.

Va sicuramente potenziata la formazione degli animatori liturgici e degli animatori parrocchiali. Così come vanno potenziati soprattutto i consigli pastorali parrocchiali e quelli degli affari economici, ormai presenti in quasi tutte le parrocchie, perché gli organismi di partecipazione favoriscono il senso di corresponsabilità. Vanno promosse, inoltre, nuove forme di collaborazione inter-parrocchiale, specialmente nell’organizzazione della pratica dei sacramenti, della pastorale giovanile, della formazione dei catechisti. Una cura particolare va prestata alla formazione dei ministranti e, se possibile, dell’ACR. Se vogliamo creare futuro, bisogna cominciare dai bambini. Va curata la catechesi degli adulti e non solo quella per la preparazione a ricevere i sacramenti. Vanno individuati modi e iniziative per interessare i ragazzi del post cresima ed accompagnare le giovani coppie del post matrimonio.

L’Arcivescovo Mons. Sanna ha successivamente analizzato la situazione socio-religiosa della Diocesi, distinguendo tra Fede professata, Fede celebrata e Fede testimoniata.

In una Diocesi abbastanza vasta, la cui popolazione religiosa è seguita da 85 Parrocchie, circa la “fede professata”, quella che ci dice “perché crediamo”, si è potuto constatare che c’è uno scollamento tra il credere in Cristo e il credere nella Chiesa, a netto vantaggio del primo: il gradimento verso la struttura “Chiesa” è molto più basso. Circa la “Fede celebrata”, ovvero l’applicazione della pratica religiosa, circa un terzo dei fedeli partecipa regolarmente alla messa, oltre la metà non partecipa mai o raramente. Anche il sacramento della riconciliazione è poco praticato: circa due terzi non vi ricorrono che raramente. Infine, circa la “fede testimoniata”, ovvero il rapporto che il fedele ha con l’istituzione “Chiesa”, le critiche non mancano. Non solo per gli aspetti di natura economica ma anche di natura politica e amministrativa. In quest’ultimo caso si è critici verso una sentita forte centralità e la mancanza o carenza di collegialità.

Analizzando la dimensione della “credenza”, solo il 30% dei fedeli crede negli insegnamenti della chiesa senza riserve: due su dieci avanzano delle riserve e più di un terzo prende apertamente le distanze da molti insegnamenti della Chiesa. In definitiva, il rapporto tra orientamenti e comportamenti etici delle persone, da un lato, e le indicazioni date dal magistero della Chiesa, dall’altro, evidenzia un forte scollamento. Un ambito che evidenzia in modo ancor più marcato lo scollamento tra vertice e base della Chiesa, è il processo di soggettivizzazione dell’etica familiare e sociale: più di sette persone su dieci (otto tra i giovani) ritengono ammissibili i rapporti sessuali senza essere sposati, il divorzio e la libera convivenza. La percentuale supera di molto quella rilevata nel 1995 a livello nazionale. Anche l’omosessualità, se pur in minor misura, è ritenuta ammissibile da una quota elevata del campione (44% in media e 53% nei giovani). Più della metà è favorevole all’aborto anche in casi in cui la donna non corre pericolo di vita. L’eutanasia è ammessa dal 30% degli intervistati.

Nella Sua lucida analisi Mons Sanna cosi definisce questo fenomeno: “D’altra parte non si può ignorare il fatto che il processo di “personalizzazione” del fenomeno religioso sta cambiando profondamente il rapporto “individuo-Chiesa-Dio”. Può essere l’esito di una scarsa formazione e scarsa incidenza della religione nella vita dei fedeli ma anche un segnale di nuove tendenze nel mondo religioso, cioè di un “riorientamento” nelle forme di religiosità. Sicuramente non bisogna ignorare il fatto che la nostra società esalta la soggettività e la libertà dell’individuo in tutti gli ambiti della vita. Non è possibile, quindi, che la religione possa sfuggire a questo processo…”.

Nonostante tutto, però, ha sostenuto con convinzione Mons. Sanna, la domanda religiosa è ancora alta, pure se non sempre accompagnata da una vita sacramentale e da una giusta e convinta professione delle verità della fede”.

Nel corso del dibattito successivo alla dotta esposizione, si è posto in evidenza proprio il fatto che manca, nel popolo dei credenti una costante formazione ed aggiornamento. Dopo la cresima, come ha sostenuto Mons. Sanna, il soggetto che ha ricevuto la cresima ritiene la sua formazione ormai completata, e quindi esaurito anche il dovere di partecipare alla messa ed ai sacramenti. Questo fatto la ha potuto constatare personalmente in uno dei colloqui che giornalmente intrattiene con tanti amici su Facebook.

Formazione, quindi, da portare avanti con convinzione e determinazione.

In chiusura dell’incontro, con i ringraziamenti di tutti i partecipanti, Mons. Sanna ha ricevuto da Mario Girau, responsabile dell'UCSI regionale, la pergamena che attestava la nomina di S.E. Mons. Sanna, a Socio dell' Unione della Stampa Cattolica Italiana.

Un gran bel convegno a cui ho avuto l’onore ed il piacere di partecipare. Mentre ascoltavo con interesse ed attenzione la dotta relazione di Mons. Sanna, che è anche Priore della Delegazione dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, di cui faccio parte e che guido in qualità di Delegato, mi è venuto spontaneo un accostamento con un’altra associazione “di servizio” a cui appartengo. In questa si attesta che si è buoni appartenenti sei si è:

“ FORMATI, INFORMATI E COINVOLTI”.

Parole, credo, che si adattano facilmente anche alla “formazione” del buon cristiano. Se la Chiesa, dopo aver inculcato il valore della fede, inizialmente attraverso il battesimo e successivamente con l’istruzione e la preparazione alla cresima, applicasse anche dopo il metodo dell’informazione e formazione continua, il pericolo di disaffezione, ne sono convinto, sarebbe calato notevolmente. Perché l’una e l’altra, la formazione e l’informazione, creano i giusti presupposti per un coinvolgimento pieno e convinto. Insomma credo che anche un buon cristiano debba essere sempre:

FORMATO, INFORMATO E COINVOLTO.

Grazie della Vostra attenzione.

Mario

venerdì, febbraio 17, 2012

ASSOCIAZIONE TURISTICA “PRO LOCO” DI ORISTANO: OLTRE MEZZO SECOLO AL SERVIZIO DELLA CITTA’.


Oristano 17 Febbraio 2012

Cari amici,

oggi parliamo della Pro Loco di Oristano.

La sua è una lunga storia, avendo già superato da qualche anno il mezzo secolo di vita. E’ un omaggio che, da socio, voglio fare a questa Associazione che fin dai primi anni del dopoguerra cerca di valorizzare le risorse di Oristano e del suo territorio. Ecco la sua storia.

Se volessimo fare insieme un viaggio a ritroso nel tempo, un “viaggio della memoria”, su una città come la nostra, Oristano, partendo dagli anni del dopoguerra, possiamo senz’altro farlo attraverso una struttura importante del territorio, quella della “Pro Loco”, che, grazie a cittadini illuminati e lungimiranti, nasce ad Oristano nel lontano 1954.

Come scrisse Beppe Meloni nel 2004, nella preparazione di un libro-ricordo per i “50 ANNI DELLA PRO LOCO DI ORISTANO”, che intendeva ricordare agli oristanesi la lunga e laboriosa ripresa del dopoguerra, libro che poi, per ragioni economiche non riuscì a vedere la luce, gli effetti sanguinosi dell’ultimo conflitto, risparmiarono in parte Oristano, se messi a confronto con quelli patiti da Cagliari. “ … La guerra ha soltanto sfiorato Oristano e la città l’ha vissuta quasi come un’eco lontana. Forse è stato l’intervento miracoloso della Vergine del Rimedio a preservarla da lutti e distruzioni. Quel che conta è che la grande diga, bersaglio preferito degli aerosiluranti nemici e incubo costante per le popolazioni della valle del Tirso e della città di Oristano ha tenuto, con grande sollievo di tutti…”. Cosi scriveva Beppe nei ricordi del libro.

La ripresa, comunque, non fu facile. La città, attraverso i suoi uomini migliori, cercò di riavviare le attività, fermate a lungo dalla guerra, creando i presupposti per farle ripartire. La Regione sarda, forte della sua autonomia, muove i primi passi nella Sardegna post bellica e post fascista , portando avanti con coraggio l’opera di ricostruzione morale e materiale dell’Isola; in questo contesto anche a Oristano cerca di fare orgogliosamente la sua parte. Ad Oristano, sempre succube del potere di Cagliari, scoppia in quegli anni la voglia di autonomia, la volontà di contare di più nel contesto regionale. In questa direzione Oristano si muove, cerca di affrancarsi dalla tutela e spinge sull’acceleratore: Oristano deve diventare provincia autonoma. Questo slogan diventerà la battaglia più importante, quella decisiva, per il futuro del territorio oristanese. Scrive ancora Beppe Meloni sul libro prima citato:

“…Ed è cosi che nasce il ‘’Comitato per l’istituenda quarta provincia sarda ‘’ con capoluogo Oristano . Del quale fanno parte esponenti di tutti i partiti politici . In testa Alfredo Corrias, vessillifero di questa sacrosanta rivendicazione, Lelio Muretti di Cuglieri, Giovanni Canalis, Piero Sotgiu, Salvatore Manconi, Cenzo Loy, Fulvio Sanna, Antonio Pinna Spada, Angelo Corronca, Bruno Stiglitz, Alfredo Torrente, Pierino Pinna, Raimondo Fara, Alessandro Ghinami, Geppetto Loffredo, Pietro Riccio, Mariano Murru, Romolo Concas e tutti i sindaci del circondario. Come si legge in uno dei primi opuscoli di oltre venticinque pagine, stampato dal Comune di Oristano, <<’ragioni storiche, geografiche, demografiche, economiche, politiche e amministrative, designano Oristano come sede del Capoluogo della quarta provincia sarda… >>.

La battaglia è lunga e difficile, ma Oristano non si arrende. Alle prime bocciature in campo nazionale, non si desiste, si torna alla carica e, finalmente, dopo molte lotte nel 1974 la nuova provincia fu istituita ufficialmente.

Nell’attesa che la lunga battaglia per la nascita e la costituzione della nuova Provincia di Oristano, autonoma da quella di Cagliari, abbia termine, gli uomini politici ed i gruppi che combattono per valorizzare la città ed il suo territorio non stanno inattivi ma lavorano, creano opportunità. In quegli anni ’50 l’impegno per la ripresa fa già intravedere le potenzialità turistiche del territorio che bisogna sfruttare. Ecco, allora, che un gruppo di illustri e volenterosi cittadini si organizza per realizzare anche ad Oristano una struttura che si occupi di turismo. Nasce cosi, nel 1954, “ L’ASSOCIAZIONE TURISTICA ARBORENZE”, l’ A.T.A., antenata della attuale PRO LOCO.

Questi, in un documento dell’epoca i soci promotori:

Primo Presidente della neonata associazione è l’ing. Rodolfo Manni.

Quattro gli obiettivi principali che l’A.T.A. si propone:

1- La valorizzazione della “SARTIGLIA”,

2- La sistemazione ed apertura al pubblico dell’”Antiquarium Arborense”,

3- La valorizzazione del sito archeologico di “Tharros”.

4- L’organizzazione di Convegni e Mostre, che reclamizzino la Oristano che produce.

Sono obiettivi importanti che l’A.T.A. cercherà immediatamente di concretizzare.

Nel 1956 la presidenza viene assunta dal dr. Gino Carloni, a cui seguirà, nel 1960 la presidenza del dr. Salvatore Manconi. Manconi nella sua lunga presidenza durata oltre vent’anni, riuscirà a valorizzare soprattutto la manifestazione della Sartiglia, che ormai ha raggiunto connotazioni non solo sarde ma nazionali, varcando il Tirreno. L’associazione, inoltre, inizia a realizzare annualmente mostre di artigianato sardo, ed a migliorare la struttura dell’Antiquarium Arborense e la fruibilità di Tharros.

Nel 1981 ne assume la presidenza Luciano Loddo, che si dedica in modo totale all’Associazione Si può sostenere, senza tema di essere smentiti che Luciano “sposa” l’associazione. Sotto la sua presidenza la Sartiglia diventa la manifestazione in assoluto più importante di Oristano. Luciano “vive” per la Sartiglia, come fosse qualcosa ormai parte del suo DNA. Una morte prematura lo sottrae alla sua creatura, lasciando in tutti un vuoto incolmabile. Di questo suo amore resta un libretto, un sonetto, che è un inno alla sua creatura e che ce lo ricorderà sempre.

Gli succede alla presidenza, nel 1992, Giorgio Colombino, suo affezionato allievo, che raccoglie il testimone e caparbiamente prosegue, con grande determinazione, sulla strada tracciata da Luciano Loddo.

Sono anni di crescita ulteriore, questi ultimi, per l’associazione che cerca di portare Oristano al livello delle più importanti PRO LOCO nazionali.

L’associazione entra a far parte dell’ UNPLI ed il suo presidente Colombino diventa uno dei componenti del Direttivo nazionale. Ai principali obiettivi iniziali la Pro Loco ha ora aggiunto altri traguardi: concorsi e mostre, teatro e cinema, valorizzazione delle produzioni di ceramica e legno, vini, dolci e altre produzioni artigianali. E’ un modo per dare fiato ad un’economia che arranca, soprattutto quella artigiana, che stenta a farsi strada, a stare dignitosamente sul mercato.

Anche gli obiettivi principali sono sempre seguiti con attenzione e migliorati, soprattutto la Sartiglia. Per molti anni la Sartiglia è stata il fiore all’occhiello della Pro Loco oristanese. E’ in questo periodo che, proprio per creare continuità tra la Domenica ed Martedì di Carnevale, viene ideata la “Sartiglietta” del Lunedì, riservata ai ragazzi che, sui cavallini della Giara (grande sponsor il Signor Casu, del Giara Club) fanno “l’apprendistato”, per entrare, poi, a pieno titolo nella giostra di primo livello. E’ un’idea geniale, che consente al flusso turistico di godere appieno, per tre giorni, di una manifestazione prestigiosa. Non tutto, però, è destinato a girare per il meglio.

Come in tutte le famiglie che si rispettino le discussioni, le tensioni e le incomprensioni non sono mai mancate. Il lungo feeling tra Comune e Pro Loco, col tempo perse di spessore. Il felice connubio tra i due Enti, l’Associazione Cavalieri ed i due Gremi (quello dei Falegnami e dei Contadini), che per tradizione portano avanti da oltre 500 anni la Sartiglia, non rimane compatto. Tra batti e ribatti, dispetti ed incomprensioni, per motivi sicuramente estranei agli scopi istituzionali delle Associazioni, si sancisce il divorzio della Sartiglia dalla Pro Loco.

Viene costituita la “FONDAZIONE SARTIGLIA”, con lo scopo dichiarato di occuparsi in modo esclusivo alla giostra, diventata, ormai un fatto non solo nazionale ma internazionale. Il fatto che nella nuova struttura non sia stata inclusa, come socio, la Pro Loco, ha certamente fatto pensare.

La Pro Loco, spogliata del suo compito più importante, vede, di colpo, vanificarsi tutti gli sforzi precedenti. La nuova struttura, come tutte le nuove creazioni, ha faticato e fatica a portare avanti i suoi compiti, senza potersi avvalere dell’esperienza dei predecessori. Dividere non è mai positivo, serve solo a creare rancori, ripicche, peggiorando quello che in apparenza si vorrebbe migliorare. Cosi è stato, comunque.

Quest’anno si mormora che la “Fondazione” sarà riformata e che entrerà a farne parte anche la “Pro Loco”, precedentemente esclusa in toto dall’importante manifestazione. Quello che doveva essere fatto subito, forse, si farà oggi. Con la speranza che, anche se in ritardo, si rimettano insieme forze importanti.

Siamo a Febbraio, mese che per Oristano significa soprattutto SARTIGLIA. La Speranza è che sia l’ultima delle edizioni dei “separati in casa”, e che già da quella del prossimo anno, si possa tornare a quella unione tra tutti gli Enti che in passato l’hanno organizzata, anzi, coinvolgendo anche altre Istituzioni ove possibile.

Se ci ricordassimo che le strutture pubbliche sono nate con il fine ultimo di servire la Comunità, e non per soddisfare interessi particolari, forse, certe cose non sarebbero mai avvenute.

La Pro Loco di Oristano, merita, dopo oltre mezzo secolo di militanza, di continuare a servire Oristano ed il suo territorio, con quella competenza, quella passione, quell’amore che chi si è avvicendato alla sua guida le ha sempre dedicato.

AUGURI PRO LOCO DI ORISTANO !

Mario

martedì, febbraio 14, 2012

LA FAVA: UN LEGUME ANTICO, CHE NELLA SCUOLA PITAGORICA COSTITUIVA “IL LEGAME PRIVILEGIATO” TRA IL MONDO DEI VIVI E L’ALDILA’.

Oristano 12 Febbraio 2012

Cari amici,

Vi sembrerà strano ma l’argomento botanico che oggi voglio trattare è uno di quelli “particolari”, almeno per me, che riguarda un prodotto a me severamente proibito. Sto parlando della “FAVA”, vegetale che, fin dai tempi più antichi era diffuso in Egitto, tra i Greci e successivamente tra i Romani. La fava si dice sia originaria dell’Africa settentrionale e in Cina, già 5.000 anni fa, era coltivata a scopo alimentare. Si sono trovate delle fave nei resti di villaggi neolitici, come in tombe egiziane risalenti al 2400 a.C.

Parlare di fave per me è come “parlare di corda in casa dell’impiccato”, in quanto sono fabico, anche se questa “malattia” l’ho scoperta a circa 18 anni. Prima, pensate, ne ho mangiate tante di fave e posso assicurarvi che le trovavo buonissime!

Il favismo, per quelli che non lo conoscono, è una malattia genetica ereditaria, causata dalla carenza di un enzima, il glucosio-6-fosfato-deidrogenasi (G6PD), presente nei globuli rossi e fondamentale per la loro sopravvivenza. La sua mancanza, infatti, provoca un’emolisi acuta, ovvero la morte dei globuli rossi, che si scatena in seguito all’assunzione o all’inalazione di vapori di fave, piselli, Verbena Hybrida, altri particolari vegetali, sostanze, come naftalina e trinitrotoluene o alcuni farmaci antipiretici, analgesici, antimalarici, sulfamidici, salicilici, cloramfenicolo, alcuni chemioterapici, chinidina, menadione, blu di metilene ecc. e in generale tutti i FANS; queste sostanze inibiscono l’attività dell’enzima.

Leggendo Venerdì scorso su L’Unione Sarda gli articoli di Caterina Pinna e di Alessandra Guigoni, mi sono incuriosito soprattutto in relazione al “timore” che gli uomini hanno sempre manifestato nei suoi confronti. Ho voluto, perciò, approfondire la conoscenza che avevo di questo vegetale, che in passato è sempre stato associato a molte superstizioni e collegato, soprattutto, al mondo dei defunti. Le ragioni di questo accostamento non sono poche e la fava, pur dotata di interessanti proprietà alimentari, per le sue caratteristiche botaniche e la difficile digeribilità ha alimentato numerosi simbolismi e timori.

In un’epigrafe del VI secolo avanti Cristo, trovata in un santuario di Rodi, si consigliava ai fedeli, per mantenersi in uno stato di purezza totale, di astenersi “dagli afrodisiaci, dalle fave e dai cuori [degli animali]”. I pitagorici provavano nei confronti delle fave un vero e proprio orrore. Pitagora le proibiva ai discepoli, perché le macchie nere dei fiori di fava erano considerate simboli della presenza delle anime dei morti; gli antichi Egizi evitavano di toccarle; in un rito di antico costume latino, si offrivano le fave agli inferi e si credeva che nei semi delle fave si ritrovassero le lacrime dei trapassati. Per la festa della dea Flora, i semi di fave venivano lanciati sulla folla in segno di buon augurio; con gesti scaramantici la gente si gettava dietro le spalle il legume per proteggersi dai malefici.

I motivi, come detto, erano molteplici e partivano proprio dalle sue caratteristiche botaniche. La fava infatti è l’unica pianta che ha uno stelo privo di nodi e questa sua particolarità faceva pensare che fosse il mezzo più adatto per permettere ai morti di comunicare con il mondo dei vivi. Era come un canale privilegiato attraverso il quale i morti potevano comunicare ma, per alcuni, potevano anche impossessarsi delle anime dei vivi. Questa credenza era avvalorata dal fatto che le fave, usate per l’alimentazione, sono pesanti da digerire e possono provocare ottundimento fisico e psichico. Secondo Platone, ai pitagorici era proibito consumarle perché provocavano un forte gonfiore, nocivo alla tranquillità spirituale di chi cerca la verità. E anche Plinio ne era convinto e diceva: “.. si ritiene che [la fava] intorpidisca i sensi e provochi visioni”. Inoltre, considerato che il consumo delle fave poteva causare una manifestazione anafilattica, una sindrome emolitica acuta, il cosiddetto favismo, molto frequente nelle regioni meridionali dell’Italia e in Sardegna, grande era il sospetto circa la sua “impurità” e pericolosità.

Con questi attributi, le fave non potevano non evocare un simbolismo negativo collegato al mondo degli inferi, e ciò spiega anche la loro presenza nei riti funebri di parecchie tradizioni, in Grecia come in Egitto o in India o in Perù. Il simbolismo attribuito non era però solo in chiave negativa.

Accanto all’accostamento ai riti funebri le fave compaiono anche nella celebrazione di riti festosi e propiziatori. A Roma, il 21 di Febbraio, si concludevano i Parentalia, le feste di Febbraio in onore dei parenti e per l’occasione si usavano le fave in un rito particolare in onore della dea Tacita Muta. Questa dea veniva evocata nel periodo calendariale che, alla fine di Febbraio, segnava il trapasso dal vecchio al nuovo anno. Ma la dea presiedeva anche ai culti funebri come dea degli inferi. Ne risulta, quindi un collegamento, tra la festa dei Parentalia ed il mondo dei morti, visto però nel senso positivo, quello di evocare il passato per costruire su di esso il presente.

Ricordo dei morti, dunque. non fine a se stesso ma come sostegno e indicazione per ciò che vive. È, in pratica, l’anno passato che fornisce all’anno appena nato modalità e forme già acquisite per viverlo al meglio. Ecco, le fave, come strumento di comunicazione con il mondo degli inferi, avevano proprio questa funzione simbolica.

Esaminati gli aspetti simbolici e le superstizioni ad essa legate, vediamo ora di scoprire qualcosa di più di questo legume cosi controverso.

Le fave con le lenticchie sono il più antico alimento leguminoso che si conosca in Europa.

La fava (Vicia faba, L. 1753) è una pianta appartenente alla famiglia delle leguminose. Il suo apparato radicale è fittonante, con numerose ramificazioni laterali nei primi 20 cm, che ospitano specifici batteri azotofissatori (Rhizobium leguminosarum). Il fusto è a sezione quadrangolare, cavo, ramificato alla base, alto da 70 a 140 cm. Le foglie sono stipolate, glauche, pennato composte, costituite da 2-6 foglioline ellittiche. I fiori, raccolti in brevi racemi, si sviluppano all'ascella delle foglie a partire dal 7º nodo. Ogni racemo porta 1-6 fiori pentameri, con vessillo ondulato, di colore bianco striato di nero e ali bianche o violacee con macchia nera. La fecondazione è autogama. Il frutto è un baccello allungato, cilindrico o appiattito, terminante a punta, eretto o pendulo, glabro o pubescente che contiene da 2 a 10 semi. Il baccello, normalmente lungo circa 15-25 cm, è rivestito all’interno da uno strato spugnoso dove si trovano i semi grossi e piatti, avvolti da un tegumento (pelle), che a seconda della numerose varietà, può essere di colore verde, rossastro o violaceo. I semi, di colore inizialmente verde, con la maturazione assumono un colore più scuro, dal nocciola al bruno.

Tra le tante curiosità nate su questo particolarissimo vegetale, eccone alcune. Circa la celeberrima idiosincrasia di Pitagora e della sua Scuola, per le fave, si è scritto che non solo essi si guardavano bene dal mangiarne, ma evitavano accuratamente ogni tipo di contatto con questa pianta. La leggenda dice che, Pitagora stesso, in fuga dagli scherani di Cilone (di Crotone), preferì farsi raggiungere ed uccidere piuttosto che mettersi in salvo attraverso un campo di fave! I romani erano grandi consumatori di fave, tanto che venivano consumate anche crude assieme al baccello, quando erano particolarmente tenere; una delle nobili famiglie (gentes) fra le più importanti della storia di Roma, cioè i Fabi, si dice che prese il proprio nome proprio dalla fava. Tra gli altri aneddoti troviamo che, secondo un'antica tradizione agraria, nell'orto sarebbe bene seminare alcune fave all'interno delle altre colture poiché questo legume, oltre ad arricchire il terreno di azoto, attirerebbe su di se tutti i parassiti, che di conseguenza non infesterebbero gli altri ortaggi. Stando, infine, ad una credenza popolare diffusa in Italia, se si trova un baccello contenente sette semi si avrà un periodo di grande fortuna. Il successo di questo vegetale, però, si esaurì, trovò il suo declino, verso il Cinquecento, con l’arrivo del più versatile fagiolo, venuto dall’America.

Le Fave, appartenenti alla categoria dei legumi, sono tra quelli che hanno meno calorie. Esse contengono molte sostanze benefiche per l'organismo. Tra le più importanti le fave contengono molti sali minerali (fosforo, potassio, magnesio, selenio, rame, calcio, ferro e zinco), molte vitamine (A e C), proteine e fibre. Questi legumi hanno la capacità di regolare il corretto funzionamento dell'intestino, e di controllare il livello di colesterolo e glucosio nel sangue. Le fave fresche contengono una sostanza che aumenta la concentrazione di dopamina nel cervello, chiamata L-dopa. In passato, per il loro alto contenuto di proteine e nutrienti venivano chiamate “la carne dei poveri”.

Le fave, dunque, alimento prezioso, coltivato per le qualità proteiche della saporita granella che, secca o fresca, trova impiego come alimento sia per l’uomo che per gli animali. La pianta è coltivata anche per foraggio (erbaio) e per sovescio. Nell’antichità storica, per tutto il Medio-Evo e fino al secolo scorso, le fave secche cotte in svariati modi hanno costituito la principale base proteica alimentare di molte popolazioni specialmente di quelle meridionali d’Italia. Nei tempi recenti il consumo dei semi secchi si è ridotto, mentre ampia diffusione ha ancora nell’alimentazione umana l’uso della granella immatura fresca o conservata inscatolata o surgelata.

Tante le ricette che accompagnano il consumo delle fave. La fava si può consumare sia cotta che cruda. Cruda, si accompagna generalmente con del formaggio pecorino, pancetta o salame; cotta è usata invece per la preparazione di zuppe e minestre. In Spagna un piatto tipico cucinato con le fave è la fabada, ( fave con salsiccia, in umido), in cui le fave sostituiscono i fagioli, nella preparazione.

In Sardegna la fava è utilizzata ancora con grande successo. Uno dei piatti tipici, recentemente ridiventato prezioso e ricercato, è la “favata”, piatto legato indissolubilmente al carnevale sardo. E’ una ricetta molto diffusa, orgoglio e vanto soprattutto nel nord dell’Isola, e costituisce un sostanzioso piatto unico, accompagnato da vino Cannonau. Anche in Sardegna questo cibo è strettamente legato al culto dei morti e all’aldilà, tutti temi, questi, esorcizzati proprio nelle manifestazioni carnevalesche.

Per gli amanti di questo piatto “particolare”, ecco la ricetta:

La favata, Ingredienti:

1 spicchio di aglio, 50 grammi di lardo, 1 chilo di fave secche, 100 grammi di salsiccia stagionata, 100 grammi di cotenna, 200 grammi di piedini di maiale passati alla fiamma, 100 grammi di pancetta, 1 verza, 1 carota, 300 grammi di costine di maiale, Sale, Finocchietto selvatico, 2 pomodori secchi.

Preparazione. La sera prima mettiamo le fave a mollo in acqua; il giorno dopo rosoliamo gli aromi e la cipolla nel lardo. Uniamo le fave scolate, la carne tagliata grossolanamente e tanta acqua in modo che il tutto sia ben coperto. Dopo circa un’ora uniamo la verza tagliata a strisce, il pomodoro secco e il finocchietto. Mescoliamo, saliamo e cuciniamo per circa 2 ore. Mettiamo nei piatti fette di pane tipo spianata sarda e versiamo sopra la favata bollente.

………………………………………………

Cari amici, se avessi potuto mangiarla, anche io non avrei disdegnato! Purtroppo ognuno di noi è una macchina unica, sicuramente mai perfetta, che dobbiamo” guidare” nel percorso della vita usandola nel modo migliore, e, soprattutto, mantenendola in efficienza “il più a lungo possibile”.

Un’ultima considerazione prima di chiudere questa mia ennesima riflessione. L’uomo ha sempre avuto una grande ansia per quello che saremo, che diverremo, dopo aver abbandonato questa vita terrena. Appellandosi, in passato, alla moltitudine degli Dei pagani (dal Sole alla Luna, dalle Stelle fino agli Dei degli Inferi) che avrebbero governato la nostra vita nell'Aldilà, fino ad arrivare ai nostri giorni, dove il "bisogno di Dio" è sempre presente, in modo più o meno esplicito.

E’ proprio l’incertezza del “dopo”, il sacro timore della dipartita, del transito da questa terra verso un altro mondo sconosciuto, che ha creato tabù di ogni tipo, nati proprio per esorcizzare la paura della morte.

Anche i tabù che si sono sviluppati sulle fave, piante con caratteristiche “particolari”, rientrano all’interno di queste paure. I tabù predicati dai pitagorici, figli di una mentalità superstiziosa, magica, religiosa ed etica, erano frutto della paura, del terrore dell'uomo per il soprannaturale, ossessionato dal timore che nel mondo della natura vivessero potenze demoniache. Le fave erano da Loro considerate piante magiche e infernali, dotate di una potenza misteriosa e cosmica, sede di esseri soprannaturali in grado di influenzare negativamente o positivamente la vita degli uomini, degli animali e delle piante. La risultante era che le fave divenivano un tabù, perché considerate "pianta degli dei degli inferi" e cibo dei morti. Infrangere il divieto significava mettere in moto contro di sé forze misteriose, capaci di scatenare severe punizioni verso i trasgressori. Altra ipotesi circa il tabù, la proibizione delle fave, derivava dalla convinzione sull'esistenza di un certo legame religioso di matrice orfica. Pitagora, credeva che l'anima, sepolta nel corpo per i suoi peccati e immersa nella materia come in una prigione, poteva progressivamente ricongiungersi alla sua origine sacra. Dunque, attraverso un graduale processo di perfezionamento del corpo e dello spirito, poteva passare ad un livello superiore di esistenza e di conoscenza sino a somigliare agli dei. La privazione alimentare, compresa quella di non mangiar fave, era uno dei comandamenti che i pitagorici dovevano rispettare per raggiungere il livello di perfezione e la vicinanza tra la condizione umana e divina.

La ricerca di Dio, Entità Superiore, esisteva, esiste e credo continuerà sempre ad esistere. Forse in futuro cercheremo altri modi per esorcizzare la morte, che, però, sempre costituirà la più grande delle nostre paure.

Avere fede in Dio è certamente la strada migliore che l’uomo possa intraprendere per esorcizzare la morte, anche se non gli toglierà mai la paura. Paura che anche Gesù, figlio di Dio fatto uomo, ebbe sulla croce. Paura inestinguibile, che per noi umani solo la speranza, unita alla fede, può mitigare. Fede e speranza: un binomio inscindibile. Possedere sia l’una che l’altra è una grande conquista: potremo ironicamente sostenere che acquisirle “è come prendere due piccioni con una fava!”.

Grazie della Vostra gradita ( e spero…ironica) attenzione.

Mario

venerdì, febbraio 10, 2012

COSOMINA.

Oristano 10 Febbraio 2012

Cari amici,

Il racconto che trovate è la sintesi di un fatto vero. Risale agli anni sessanta, quando io avevo circa 15 anni. Di questi tempi i fatti raccontati sembrano cosi lontani nel tempo! Eppure sono passati solo poco più di cinquant'anni.

Ecco il ricordo di Cosima, chiamata familiarmente Cosomina.

Cosima, dieci anni ancora da compiere, era la più grande di sette fratelli. L’ottavo, quando l’ho conosciuta io, che all’epoca avevo 15 anni, era in arrivo. Viveva con la numerosa famiglia in una casa cantoniera di proprietà dell’Amministrazione Provinciale di Nuoro sulla strada che dalla periferia di Macomer conduceva a Pozzomaggiore.

Il suo nome di battesimo era Cosima, datole dai genitori mamoiadini certamente in onore di S. Cosimo, il cui antico santuario è meta di grande venerazione non solo a Mamoiada ma in gran parte della Barbagia, ma era chiamata familiarmente Cosomina ( dalla famiglia Cosomi’, con la troncatura tipica delle parole nel dialetto barbaricino).

In quella povera casa isolata nella brulla campagna ai confini tra il Macomerese e l’inizio della Planargia, non aveva molti amici con cui giocare e, forse, se li avesse avuti, non ne avrebbe avuto il tempo. I genitori, il padre perennemente fuori casa di giorno e la madre distrutta dalle troppo frequenti gravidanze, non avevano certo cura di Lei, anzi la consideravano un grande risorsa per la gestione e la cura della casa e degli altri bambini più piccoli.

Cosomina, pur bisognosa di cure e di affetto con i suoi soli 10 anni, nonostante l’età era già oberata di lavoro: doveva tenere in ordine la casa, badare ai fratelli minori ed occuparsi del fratellino più piccolo, quel bimbo ancora in fasce, che stazionava perennemente in “su brazzolu”, la piccola culla appoggiata ai lati del camino, perennemente acceso, inverno ed estate, per le necessità di cucina e di acqua calda. Cosomina era cresciuta in fretta. Aveva imparato ad alzarsi presto la mattina, preparare ed accendere il fuoco, e, come una piccola madre di famiglia, riassettare la cucina prima che si alzassero i genitori. La necessità fa,davvero, maturare anzitempo!

Quando mio padre, dipendente dell'ANAS, fu trasferito a Macomer le nostre abitazioni si trovarono vicine e facemmo la loro conoscenza. Ricordo che la prima volta che misi piede a casa loro, fui spaventato dal caos che si mostrava al mio sguardo. L’ampio ingresso era adibito anche a cucina. Un vecchio tavolo coperto da una tovaglia di incerato a fiori era pieno di piatti sporchi, bicchieri e posate alla rinfusa. Le pareti della stanza, annerite dal fumo, erano sporche e scrostate, e mostravano i segni di un’usura che avrebbe avuto bisogno di urgente manutenzione. Per terra, un po’ alla rinfusa, vi era di tutto: recipienti che avevano in parte versato il contenuto che colava e si rapprendeva, resti di cibo, biancheria sporca dei bambini, pezzi di legno per alimentare il fuoco e quant’altro. Sulla destra, in fondo, addossato alla parete, un caminetto malconcio col fuoco acceso, ed una pentola annerita che sicuramente conteneva dell’acqua calda. Addossato ad un lato del camino “su brazzolu”, dove, avvolto in panni dal colore indefinibile, dormiva un neonato.

Sicuramente le visite non dovevano essere numerose. All’arrivo mio e dei miei genitori lo stuolo dei bambini si avvicinò a noi vociante: ci toccavano ci guardavano incuriositi, con gli occhi grandi spalancati. Cosomina, un passo dietro la madre, restava timidamente da parte, vicina al camino, a fianco alla culla con lo sguardo rivolto al fratellino. La madre, vestita dimessamente, ci salutò con un sorriso sofferente. Chiese da dove venivamo e, dopo un colloquio abbastanza scarno e formale, ci congedammo.

A quindici anni io ero già abbastanza maturo e riflessivo e comprendevo quanto difficile fosse per quella bambina condurre una vita da adulta. Le poche volte che tentai con Lei di intavolare un minimo di dialogo mi accorgevo che non era facile. I numerosi impegni di lavoro, l’educazione riservata delle famiglie barbaricine, tutto contribuiva a smorzare ogni tentativo. Mi accorgevo, però, che molte volte avrebbe voluto anche Lei giocare, ridere, scherzare, correre a perdifiato, ma sapeva anche che a Lei tutto questo era negato. A dieci anni toccava già con mano l’asprezza della vita che l’aveva fatta maturare anzitempo, rubandole la gioia degli anni della fanciullezza. Si era ritrovata mamma senza esserlo, donna di casa da bambina, con i fratellini da accudire; giocattoli vivi che sostituivano gli altri giocattoli inanimati, con i quali avrebbe voluto ardentemente giocare. Le poche volte che, nei rari momenti di pausa, usciva di casa a prendere il sole, non era loquace; se cercavo di dialogare con Lei scambiava solo poche parole, con lo sguardo quasi sempre rivolto verso il basso. Se alzava lo sguardo, cercando di abbozzare un debole sorriso, il suo volto e soprattutto i suoi occhi, erano colmi di tanta tristezza.

Una tristezza contagiosa, che, pur tanto tempo dopo, penetra dentro di me anche oggi, nel ricordare questo frammento di vita vissuta. Chissà come avrà vissuto, dopo, la sua vita Cosomina, la triste bambina cresciuta senza infanzia! Di Lei non seppi più nulla.

Prima di chiudere voglio raccontarvi, cari amici che mi leggete volentieri, un curioso episodio di quel periodo che certamente Vi darà la chiara dimensione di quanto amara fosse la vita di Cosomina.

Una mattina (ho sempre avuto l’abitudine di alzarmi presto la mattina ed ancora la mantengo), credo fosse alla fine Luglio, passeggiando vicino alla loro casa, sentii un disperato belare, intervallato da piccoli colpi. Cercai di individuarne la fonte e mi accorsi che si trattava di una capretta che, ritta di fronte alla porta di casa della famiglia di Cosomina, belava e picchiava forte con la testa sulla porta. Sembrava non darsi pace. Poco dopo Cosomina aprì la porta e la capretta si infila velocemente dentro casa. Volevo soddisfare la mia curiosità e cercai in tutti i modi di vedere cosa stava succedendo, capire il perché di tanta agitazione. Ecco qual'era il motivo.

La capretta, cari amici, era, con Cosomina, la “mamma adottiva” del bambino in fasce, che stava notte e giorno sull’improvvisata culla vicino al fuoco. Tutte le mattine la capretta, senza mai sbagliare l’ora, entrava veloce in casa, carezzava con la lingua il bambino e porgeva le sue gonfie mammelle, con amore, al neonato. Il bambino allungava le sue manine e mettendo un capezzolo in bocca succhiava avidamente il suo latte. Lo capretta si prendeva cura del piccolo come se fosse suo figlio, con amore materno, come se fosse lei la vera mamma e lui il suo capretto! Quella mattina non era la capretta che si era dimenticata di offrire il suo latte, ma Cosomina che, stanca di una giornata particolarmente pesante, si era dimenticata di aprire la porta. La capretta, per fare il suo dovere, per non mancare al suo appuntamento di “mamma-balia” fedele, glielo aveva ricordato!

Cari amici che leggete queste righe, quello che Vi ho raccontato è un fatto vero non una delle solite storielle strappalacrime.

Grazie della Vostra sempre splendida attenzione.

Mario

domenica, febbraio 05, 2012

REMO BRANCA: XILOGRAFO, PITTORE, GIORNALISTA, SCRITTORE, CRITICO D’ARTE, PROFONDO CONOSCITORE DELLA SARDEGNA. PER ME UN VERO, GRANDE AMICO !

Remo Branca: autoritratto.

Oristano 5 Febbraio 2012

Cari amici,


oggi è tempo che vi parli di un caro e grande amico: Remo Branca.

Remo Branca io l’ho conosciuto nel 1979, all’inizio dell’estate, a Fonni. La nostra amicizia, come avrò modo di raccontare, durerà tutta la vita.

“Il Professore”, come era semplicemente chiamato dai tanti amici, era già molto noto a Fonni, dove da anni trascorreva il periodo estivo. Io ero arrivato nel centro barbaricino a Febbraio del 1979, con l’incarico di aprire ed avviare la nuova filiale del Banco di Sardegna. Non potendo trasferire la famiglia per motivi di lavoro di mia moglie, avevo scelto di vivere in albergo, alloggiando all’Hotel Cualbu, in Viale del Lavoro, dove Lui trascorreva le vacanze. L’albergo, struttura moderna per l’epoca per una zona montana come Fonni, era stato “inventato” dal vulcanico proprietario, Ziu Battista Cualbu, uomo dalle idee avveniristiche, che da pastore si era ritagliato anche il ruolo di albergatore, intuendo che il turismo di montagna avrebbe, anche se lentamente, attecchito anche nelle zone interne.

Il professore, dopo una lunga e avventurosa vita lavorativa, al termine della sua carriera si era stabilito a Roma, ma la nostalgia della sua Sardegna, e della Barbagia in particolare, lo tormentavano a tal punto che, appena poteva, lasciava la capitale per immergersi nuovamente in quell’antico e sotto certi aspetti aspro mondo che aveva amato fin da giovane, quando faceva il praticante legale a Nuoro. Prima di parlarvi di Lui come amico, voglio riepilogare la sua luminosa carriera di uomo e di artista, personaggio che ha dato e continua a dare fama e prestigio alla nostra terra sarda.


Il Prof. Remo Branca nasce a Sassari da famiglia benestante il 4 Maggio del 1897. Compie gli studi nella sua città fino alla laurea in giurisprudenza, che consegue nel 1921. Nonostante la formazione scientifica e giuridica in particolare, c’è in lui un amore sconfinato per l’arte e l’incisione in particolare.

Il primo incontro di Remo Branca con la xilografia avviene nel 1915 sui banchi del Liceo a Sassari. In una mattina di maggio, mentre sfoglia una rivista, vede ed osserva con attenzione alcune stampe di Mario Mossa De Murtas e di Giuseppe Biasi. Per il giovane Remo, allora diciassettenne, questa scoperta è una specie di “rivelazione”, che gli apre le porte di un mondo che non conosce ma che già ama.

Il secondo incontro, quello decisivo, avviene due anni dopo nelle campagne di Ozieri. Il giovane Remo, appena diplomato, è ospite di una famiglia ozierese, a pranzo in una tenuta di campagna. Tra le chiacchiere di un dopopranzo riposante, prova curiosamente ad incidere delle figure su di un legno che però ben presto si bagnò del suo sangue. Remo, ancora inesperto, non aveva grande dimestichezza con le lame affilate, ed il coltello che un pastore di Dorgali gli aveva prestato si chiuse inaspettatamente nella sua mano, producendogli una profonda ferita nel pollice, che gli lasciò un’indelebile cicatrice. E’ il caso, a volte, a segnare il destino degli uomini! E questo, forse, fu un segno del destino, perché il legame di Branca con l’arte dell’incisione su legno si cementò proprio con questo “patto di sangue”, durando poi per tutta la vita.

Autodidatta in arte, il giovane Branca esordisce nel 1918-19 come illustratore sul “Giornalino della Domenica” e sulla “Rivista Sarda”. In veste di xilografo partecipa poi, a partire dalla fine degli anni Venti, a diverse esposizioni nazionali e internazionali di incisione, assumendo in seguito il ruolo importante di “guida” del cosiddetto gruppo sardo degli xilografi.

Terminato il liceo il giovane Branca si iscrive all’Università in Giurisprudenza, nell’intento di dedicarsi all’attività forense, laureandosi nel 1921. Quell’idea iniziale di vivere nelle aule giudiziarie, però, non dura a lungo. Più che i codici nella sua mente trovano maggiore spazio le figure, le incisioni; il pensiero di dedicarsi all’arte è non solo più forte ma maggiormente coinvolgente. Nella sua mente, che manca ancora di chiarezza circa il suo avvenire, è però presente, forte come una roccia, lo spirito di libertà che cerca di esprimere in tutti i modi, facendo anche il giornalista.

L’Italia viveva in quegli anni l’avvento al potere del Regime Fascista. Il suo forte spirito libertario era profondamente critico nel confronti di questo regime e, da intellettuale, cercò di combatterlo attraverso il giornale “Libertà”, di cui era giornalista e direttore. Le ire del regime non tardarono ad arrivare. Per sfuggire ai rigori della repressione lasciò Sassari, trasferendosi nel 1925 ad Iglesias. Il suo soggiorno iglesiente durerà circa un decennio, fino al 1936. In quegli anni cercò di concretizzare il suo sogno: realizzarsi nell’arte. Nel Liceo scientifico di Iglesias, dove prima insegnò e che successivamente diresse, istituì nel 1926 una scuola d'arte decorativa unica in Sardegna, dove la xilografia ebbe un ruolo fondamentale, e che contribuì alla formazione di numerosi ed affermati xilografi.

Remo Branca in quegli anni era già noto anche fuori dall’Isola. Le opere del Professore avevano già varcato il Tirreno e iniziavano a farsi strada anche in Italia. Nel 1922, anno della Esposizione d'Arte Sardo-Piemontese presieduta da Leonardo Bistolfi, alcune sue opere ebbero premi e riconoscimenti; Remo Branca da allora registrò all'attivo numerosissime mostre personali e collettive. Sue incisioni xilografiche in “Xilografia”, vennero presentate a Faenza nel 1925, mentre le illustrazioni della sua opera “San Francesco d’Assisi” (del 1926) furono esposte alla Mostra Amatori e Cultori di Belle Arti in Roma. Altre sue opere andarono in mostra a Sassari nel 1926, e successivamente in varie altre parti della penisola. Nel 1935 per una xilografia fu premiato con la medaglia d'oro al Concorso della Regina.

Ormai l’obiettivo iniziale di dedicarsi alla carriera forense sembrava tramontato del tutto. Nel 1927 conseguì a Firenze il Diploma della Scuola di Belle Arti, a cui poi aggiunse la laurea in Lettere nel 1936. I titoli conseguiti gli consentirono di svolgere l’attività di docente di Storia, Filosofia, Economia, Geografia, e successivamente di Disegno e storia dell’arte presso il Liceo Scientifico Giorgio Asproni di Iglesias, chiamatovi dal preside Agostino Saba, al quale subentrò nella direzione dell’Istituto dopo un breve periodo in cui la presidenza fu assunta dal professor Emilio Alfieri.

Ormai era uno Xilografo e pittore di fama nazionale ed internazionale, giornalista, scrittore, critico d’arte, profondo conoscitore e scrittore di argomenti storici, pedagogici e didattici. Dopo il periodo iglesiente, operò a Nuoro, a Novara, sempre come insegnante, e poi a Roma, dove si stabili dopo il lungo peregrinare, e dove visse per oltre 40 anni, pur mantenendo stretti contatti con la Sardegna, delle cui vicende culturali, storiche, artistiche, umane era profondo conoscitore e scrittore. Gli anni trascorsi a Nuoro furono particolarmente importanti per fargli conoscere a fondo ed amare quella Barbagia che scoprì nella sua “vera essenza”, facendo negli anni giovanili l’uditore giudiziario a Nuoro dove seguì da vicino i grandi processi che riguardavano il mondo agro-pastorale dell’epoca: le grandi faide di Orgosolo, Mamoiada, Fonni, Orune e cosi via, dove la “disamistade” e l’applicazione del “Codice Barbaricino”, governavano ben più del Codice dello Stato Italiano.

Nel secondo dopoguerra, a Roma, si dedica alia cinematografia didattica e fonda la rivista “A passo ridotto”. Il giornalismo e la comunicazione lo affascinano sempre di più. Nel 1968 fonda una rivista nuova: “Frontiera”. L’esperienza maturata nel campo della cinematografia didattica e documentaristica lo portano a lavorare a lungo per il Ministero della Pubblica Istruzione; utilizzò anche le sue profonde conoscenze storiche per lavorare, da assistente, all’Università di Roma nella cattedra di Storia Medievale e Moderna.

Innumerevoli le sue pubblicazioni che affrontano temi diversissimi. Tra le molte opere ricordiamo, in particolare, i tre volumi fondamentali per la conoscenza dell’arte incisoria, sarda, italiana ed europea: “la Xilografia in Sardegna”, “ Breviario di xilografia”, “Incisori sardi”. La vasta produzione spazia dagli studi su Grazia Deledda, ai problemi sociali, che mettono a fuoco soprattutto l’aspro mondo barbaricino. Tra i più importanti: “Sardegna Segreta”, “Medioevo a Orgosolo”, “Raffaello”, “La vita nell’arte di Francesco Ciusa”, “Frate Silenzio”, “Giorni di Roma- 1942-44”, “Una gioventù bruciata”, “Il Crocefisso di Oristano”, “Fra Ignazio da Laconi” ed altri.

Remo Branca fu un uomo che prima di ogni altra cosa non rinunciò mai ad essere libero. Uomo di vasta cultura, oltre che artista poliedrico ed eclettico, rimase sempre fedele ai suoi ideali anche a costo di rinunce e sacrifici. Costretto all’esilio, trasformò l’abbandono, la fuga da Sassari, in forte “nuova occasione” per realizzarsi, cercando e trovando un rinnovato modo di scoprire altri mondi ed altre realtà. Un uomo solare, positivo, mai domo, geloso ed orgoglioso della sua libertà. Oggi le sue opere sono gelosamente conservate non solo in Sardegna (io ho il privilegio di averne diverse, tutte “dedicate” , a me o a mia moglie) ma in diverse parti del mondo: dal British Museum di Londra ad Atene; in Germania il più grande repertorio mondiale sugli artisti gli ha recentemente dedicato “un capitolo”, riepilogando la sua grande opera di incisore, pittore, letterato e cineasta, onorando cosi, con Lui, tutta la Sardegna.

Si dice, da sempre, “Nemo profeta in patria”. Credo che Sassari avrebbe potuto tributargli ben altri onori e riconoscimenti. Lo ha fatto, invece, a nome di tutta l’Isola, Iglesias, la città del suo “esilio”, dedicandogli nel 1997 il Liceo Artistico. Oggi ad Iglesias in suo onore è operante l’Associazione Remo Branca”, di cui è presidente onorario il figlio, Prof. Francesco Paolo. L’associazione, nata il 6 maggio 2008 con l'obiettivo di ridare vita all'arte xilografica avviata a Iglesias nel 1926 da Remo Branca, ha ora lo scopo di valorizzare il patrimonio culturale e artistico lasciato dall’illustre artista, il cui passaggio nella città di Iglesias ha lasciato una impronta indelebile nel campo dell'arte e della cultura. La famiglia Branca ha donato al Comune di Iglesias ed all’Associazione numerose opere dell’illustre artista.

Credo che Remo Branca, attraverso l’associazione che porta il suo nome, continuerà “ A VIVERE”, ad essere un grande punto di riferimento per l’arte: Il suo nome e le sue opere vivranno in eterno.

Cari amici, dopo aver riepilogato sinteticamente l’uomo e le sue meravigliose opere voglio ora parlarvi dell’AMICO, Remo Branca.

Come ho accennato aprendo questa riflessione con Voi, io l’ho conosciuto nella primavera del 1979. Frequentando lo stesso albergo, in periodi di non troppo affluenza di clienti, è facile fare la conoscenza degli ospiti. A pranzo ed all’ora di cena ci si siede, se non allo stesso tavolo, al tavolo vicino. Il padrone di casa, Ziu Battista, persona forgiata dal tempo e dalle non poche difficoltà di una vita di campagna, era un grande anfitrione e amava intrattenere gli ospiti dell’albergo, quella “sua creatura”, nata da una “pazza idea”, in tempi che pensare ad un albergo turistico a Fonni era davvero una scommessa.

Fu Lui a presentarmelo e in poco tempo diventammo amici. Il professore nel 1979 aveva già i suoi 82 anni ma non li dimostrava proprio! Si muoveva velocemente a piedi, in campagna, anche in zone ripide che provavano le gambe di soggetti ben più giovani. Adorava i colori della campagna sarda dell’inizio dell’estate. In particolare quel giallo dorato dell’erba che ingialliva sotto il sole e che, agli inizi del tramonto assumeva una particolare sfumatura che lui chiamava “Giallo Branca”. Sia di mattina che a mezza sera era solito girovagare per le campagne in cerca del “paesaggio giusto” che lo colpisse: querce millenarie, terreni variegati con pietre a lungo scolpite dal vento e dalle intemperie, nuraghi, dumus de janas e tombe di giganti.

Pochi giorni dopo la nostra conoscenza eravamo già ‘in sintonia’. Lui apprezzava il mio modo di fare, io il suo estro, la sua cultura e le sue capacità artistiche. Un giorno mi chiese (era un pomeriggio ed io ero appena rientrato dal lavoro verso le 17,00) se potevo accompagnarlo in una località, sulla strada che conduceva a Nuoro, per dipingere una grande quercia millenaria. Detto fatto. Arrivati sul luogo prescelto cercò con calma una posizione che gli consentisse di trovare la giusta luce e l’inquadramento migliore. Io lo osservavo senza profferire parola. Era la prima volta che assistevo ad una operazione di questo tipo. Aperto un piccolo sgabello e un tavolino portatile iniziò a sistemare colori, tavolozza, bottigliette, stracci e cosi via. Dopo un po’ sistemò sul cavalletto ll supporto di compensato (dipingeva quasi esclusivamente, in quel periodo, su compensato di legno) e, dopo non pochi piccoli spostamenti, iniziò l’opera pittorica.

Prima dei colori usava un carboncino, con cui abbozzava la scena da dipingere. Le sue mani correvano veloci sulla superficie che si preparava a prendere forma. Disegnava e correggeva, cancellando il carboncino con il dorso della mano, fino a che si riteneva soddisfatto. Lavorava con una concentrazione che affascinava. Io lo osservavo, immobile a pochi passi da Lui. Presa la tavolozza ne copriva, in vari punti, la superficie con tanti colori: bianco, rosso, verde, giallo ed altri, che spremeva con forza dai contenitori. Afferrati poi tre o quattro pennelli di varia grandezza iniziava a creare i “suoi colori” che ricavava, mischiandoli, con maestria. Sulla “traccia” creata prima a carboncino lavorava con una velocità impressionante. Lo sfondo con i monti, gli alberi, la grande quercia, l’erba secca intorno, tutto “cresceva” nel dipinto come se l’opera uscisse dalli mani di un mago. Lavorava il colore con quella capacità che solo pochi anno: le sfumature erano praticamente infinite: i mille colori delle nuvole, l’incredibile varietà del marron e del verde degli alberi, il giallo oro dell’erba, lo scuro delle pietre e dei muretti, il bianco sporco degli animali al pascolo.

Se l’opera realizzata aveva raggiunto la sua soddisfazione lo vedevo subito dal suo comportamento e dal sorriso che incorniciava il suo volto. Un paio d’ore erano normalmente sufficienti per un quadro di piccole dimensioni. A lavoro finito lo aiutavo a raccogliere tutta l’attrezzatura e per l’ora di cena si rientrava in albergo. Nei mesi di Luglio e Agosto veniva raggiunto dalla moglie Lucia ed anche io portavo mia moglie Giovanna a Fonni, per un riposante soggiorno estivo. L’amicizia “allargata” tra la mia famiglia e la Sua, fu particolarmente interessante perché mia moglie già dipingeva, anche se a livello dilettantistico. Fu l’occasione per ideare ed avviare, a Fonni, una piccola scuola di pittura che entusiasmò diversi giovani locali: oltre mia moglie furono suoi allievi Elisabetta Falconi ed i fratelli Rita e Tonino Soddu -Pirellas, quest’ultimo oggi artista affermato.

Nei tre anni della mia permanenza a Fonni la nostra amicizia si consolidò. Sapendo che apprezzavo molto i suoi lavori me ne donò alcuni, altri li comprai. Tutti sono dedicati, con affetto, a me o a Giovanna, mia moglie. Volle anche farci posare per due piccoli ritratti ad olio che, con l’affettuosa dedica, conserviamo con grande gioia. Anche dopo il mio trasferimento ed il rientro ad Oristano la nostra amicizia non perse spessore. D’estate andavo a trovarlo a Fonni e Lui ricambiava, a fine estate, accettando di trascorrere qualche giorno a casa mia a Norbello.

Ci frequentammo ancora per alcuni anni, poi, per problemi di salute, smise di venire in Sardegna d’estate. Gli acciacchi della vecchiaia se lo portarono via proprio in uno dei mesi a Lui più cari: Luglio. Si spense a Roma il 26 Luglio del 1988, sicuramente attraversando quel ‘tunnel di luce’ che lo trasportava in Sardegna, sua patria d’origine, ed in particolare in quella Barbagia dove le luci i colori e le sfumature sono impregnate di quel particolare “Giallo Branca” che Lui ha cosi ben evidenziato in tante sue opere!

Perdere un amico è sempre una grande tristezza. Io, però, rivedo tutti i giorni alle pareti le sue opere: posso dire che l’amico Remo è sempre ancora con me!

Grazie a tutti Voi dell’attenzione.

Mario