lunedì, settembre 30, 2013

«Peppetto Pau, l’usignolo dolce ardente del Sinis, il fido custode del sacro, dei miti della sua Terra». (Antonio Amore, 1989)




Oristano 30 Settembre 2013

Cari amici,
danno titolo a questa mia riflessione le parole che il prof. Antonio Amore, con intensa commozione,  dedicava dalle colonne della Nuova Sardegna, il 27 Luglio 1989, al Suo amico carissimo prof. Giuseppe Pau. Le parole del prof. Amore, rivolte al caro Peppetto, erano un vero  e proprio “atto d’amore” nei confronti di un uomo che ad Oristano e al suo territorio aveva dedicato tutta la vita, diventando un punto di riferimento straordinario e preciso per la nostra cultura.
Peppetto Pau è stato un intellettuale oristanese dai grandi sentimenti. L’illustre concittadino, figura di spicco nel panorama culturale sardo del Novecento, era nato nel 1915. Scomparso nel 1989 Pau fu poeta, scrittore, studioso d'arte e di archeologia, ma soprattutto un grande storico appassionato della sua città. Di Lui, che ha lasciato tante “tracce” scritte del Suo pensiero, possiamo riassaporare molti aspetti, letterari e poetici della Sua “mitica” personalità, legato com’era sentimentalmente e “indissolubilmente” alla sua e nostra terra. Tra narrativa e poesie, Peppetto, definito il “magico cantore del Sinis” ci ha lasciato ampi sprazzi del Suo pensiero, capaci di farci comprendere meglio la complessità della sua anima poliedrica.

 










Tante le opere che, chi volesse approfondire e comprendere la sua conoscenza, può sfogliare e studiare. Peppetto, infatti, non si limitava a scrivere saltuariamente liriche o racconti che, poi, custodiva gelosamente in cassetti mai accessibili ad estranei, ma lavorava in continuazione. Tra le tante cose scritte ecco le più importanti. Nel 1979  pubblicò “Il Sinis”, omaggio a quella terra che amava più di ogni altra; nel 1980 “Quattro note storiche sullo stemma della IV Provincia”, dove, rifacendosi all’illustre passato, ne riepilogava le nobili origini; nel 1984 “Sa Sartiglia di Oristano”, un’ode incredibilmente amorosa, sull’antica giostra, vanto e gloria del nostro territorio; nel 1986 “Oristano e il suo volto”, oltre altre, sempre importanti, ed una straordinaria raccolta di poesie.
La Sua poliedrica personalità è cosi ben descritta dal cattedratico Salvatore Naitza, che parla di Peppetto Pau in questi termini: “…una nobile e complessa personalità dell’intellettuale poligrafo, ma nella sostanza poeta” e che “la sua passione per il Sinis, storia e attualità, manifestata in tanti scritti assume il valore di un proprio auto riconoscimento del popolo oristanese, visto miticamente e realisticamente insieme, nel nesso inscindibile del passato fenicio e classico, sardo e giudicale come nella sua continuità storica: un vero nodo di contraddizioni risolte in unità irripetibile e struggente, colta dal Pau, e risolta, attraverso una poesia raffinata, dai toni lirici e sensuali”.

La città lo ritiene, oltre che “cantore del Sinis”, luogo da Lui amato immensamente, anche il vero cantore della Sartiglia. 
La Confartigianato, che ancora oggi attribuisce la “Maschera d’Argento” (riproduzione in metallo prezioso della maschera de “Su Componidori” della Sartiglia), ad uomini illustri che hanno dato visibilità ad Oristano, assegnò nel 1998 questo ambito riconoscimento alla memoria del prof. Peppetto Pau, con questa motivazione: A Peppetto Pau d'Oristano, poeta del cielo, della terra e del mare di Sinis, per aver amorosamente studiato la Sartiglia, di cui ha svelato l'anima-triste come i coriandoli all'alba sulle strade dopo la pioggia della notte e per aver cantato la città della Sartiglia dove i rami dei pioppi guardano le ultime maschere, straccioni di un giorno e di ogni giorno piangono”.

 Il suo amore smisurato aveva, però, il Sinis nel profondo del Suo cuore. A Capo Mannu, la punta estrema della penisola del Sinis, luogo dove la natura è ancora protagonista, luogo conosciuto in tutta Europa dagli amanti del surf, windserf e kite e dove, quando soffia il maestrale le onde raggiungono oltre i 4 metri, Lui, Peppetto, ritrovava la Sua anima, confondendo il Suo respiro con quello del mare. Ecco, ricavate dai Sui ricordi, le parole d’amore per questa terra: "…portatemi un giorno sulla collina del Sinis, davanti al Mediterraneo, e mettetemi sotto la nuca una conchiglia verde perché la voce del mare mi canti ancora all’orecchio. Ch’io dorma là, tra i lentischi, cisti ed asfodeli, col suono delle onde sull’arenaria, sotto l’ala dei falchi e il volo ampio e molle dei gabbiani...".
Il Sinis era anche Tharros, dove gli scavi, prima clandestini, mettevano sempre più in luce la straordinaria civiltà che aveva albergato su questo lembo di terra straordinario. La profonda conoscenza e competenza che il prof. Pau aveva, anche a livello archeologico, fecero si che nel Febbraio del 1945 la Giunta Comunale di Oristano lo nominasse primo Direttore dell’Antiquarium Arborense. Ricoprì quell’incarico fino alla sua morte nel 1989. In tutti quegli anni fu l’anima del Museo che, anni dopo, gli fu intitolato dal Comune.
Cari amici ho conosciuto personalmente Peppetto Pau. Ho avuto modo di apprezzare le Sue grandi doti di studioso, ma soprattutto di poeta, innamorato in modo straordinario della Sua terra. 

Voglio chiudere questo mia riflessione, con una delle Sue bellissime poesie, che porta per titolo una domanda difficile:  

“MA A CHI REGALERO’ LE CONCHIGLIE SE RITORNERO’ TRA GLI UOMINI?”
Eccola.


1. Lunghe onde si avventano…

  
Lunghe onde si avventano
contro banchi di alghe.
Io fiuto il profumo dei pini
macchia verde
verso la torre solitaria
e raccolgo valve rosse di arselle
murici bianchi
ricci violetti
che schioccano
nel cavo delle mie mani
e fischiano
e hanno voce e odore di mare.
In me pulsa
l’anima dei Tritoni.
Scorre nelle mie vene
il sangue forte
di deità marine.
Ma a chi regalerò le conchiglie
        Se tornerò tra gli uomini? 

        2. Non so più il nome dei mesi
Non so più il nome dei mesi  
ma porto negli occhi
il colore dei fiori.
L’anima mia è profumo
amaro di prunella.
E’ stupore di un sentiero
tra rovi secchi che sfocia
sotto il verde di un pino
in un mare d’ulivi.
Che nessuno colga
i primi ranuncoli azzurri.
Lasciate morire le orchidee di velluto
di miele e d’avorio.
Non parlate guardando le pervinche.
                      Forse è primavera.

Sono felice, cari amici, di aver conosciuto personalmente un uomo straordinario!
Credo che dedicherò una delle mie prossime riflessioni alla storia del nostro museo, l'Antiquarium Arborense.
Grazie della Vostra sempre gradita attenzione!
Mario      

domenica, settembre 29, 2013

I CASTELLERS, UNA TRADIZIONE SPAGNOLA CHE POTREBBE INSEGNARE QUALCOSA ANCHE A NOI SARDI, DA SEMPRE IMPREGNATI DI CULTURA IBERICA. CAPIRE IL MODO DI FARE FESTA E’ COME ENTRARE NELL’ANIMA DI QUEL POPOLO, E’ COME APRIRE LO SCRIGNO DEI SENTIMENTI DI QUELLA COMUNITA’.



Oristano 29 Settembre 2013
Cari amici,
le piacevoli chiacchierate con una cara amica mi hanno portato a parlarvi oggi di una tradizione spagnola, diffusa soprattutto in Catalogna, e che affonda le sue radici nel secolo XVIII; tradizione quella dei Castellers, che ha superato i secoli e che oggi rappresenta – simbolicamente ma in modo chiaro – l’amore che questo popolo ha per la sua terra.
Sardegna e Catalogna sono legate da una tradizione (definita meglio anche dominazione),  iniziata circa ottocento anni fa. Un legame tormentato, costituito da vicende sanguinose, ma che storicamente ha fatto camminare insieme a lungo i due popoli, sotto il Regno di Spagna. Anche il nostro dialetto (anzi, la nostra lingua)  è infarcito di parole catalane,  trasformandosi nei lunghi anni di dominazione e acquisendo termini e modi di dire di quel popolo. La nostra città regia, Alghero, parla ancora catalano e strade e piazze ricordano senza ombra di dubbio, il passato spagnolo e in particolare il suo re Carlo V che le visitò. Anche la Catalogna non ha dimenticato il connubio con la Sardegna, se il ballo nazionale catalano  è chiamato “Sardana” e, soprattutto, se i nostri fratelli d’oltremare, dopo la fine del franchismo è la creazione della “Comunidad Autonoma”, hanno preso come modello per autogovernarsi lo Statuto della Sardegna! Oggi siamo soprattutto noi che guardiamo ancora a loro, ed alla Loro capacità di ricontrattare i loro diritti nei confronti dello stato spagnolo, per le aspirazioni d’indipendenza.  Certo le differenze socio-economiche tra Sardegna e Catalogna sono molte. La Catalogna una delle regioni più sviluppate della Spagna e noi, invece, siamo l’esatto contrario in Italia.
Una cosa è certa, per conoscere veramente un popolo, per capirne veramente l’essenza della sua cultura, delle sue capacità, dovremo osservare meglio non solo l’impegno dei componenti di quella Comunità nel lavoro e nella vita sociale, ma soprattutto in quelli del riposo: nei momenti dedicati all’aggregazione sociale. In poche parole bisognerebbe guardare meglio, in profondità, i modi utilizzati da quella Comunità per fare festa. Perché il momento ludico è spesso la rappresentazione esterna di quel che si è nel fondo dell’anima!
I Catalani, dal XVIII secolo avevano inventato un modo tutto particolare di festeggiare fatti ed avvenimenti: praticando la costruzione di torri umane, i cosi detti “Castells”. Era, questo originale sistema di piramidi umane dette Torri, capaci di raggiungere anche dieci livelli di persone sovrapposte, un intreccio di forza e abilità che, per funzionare, necessitava dell’apporto di tutti i partecipanti. Alla base della piramide erano disposti uomini maturi ancora forti, poi donne e uomini sempre più leggeri e giovani, ed in cima l’anxeneta, una bambina o un bambino piccolo che alzava la mano con le dita stese a significare le barre della bandiera. Non è un caso, certamente, che questa tradizione sia cominciata proprio quando la Catalogna perse l’indipendenza.
I Castells, dunque, come rappresentazione simbolica dell’amore per la terra catalana, della “continuità tra generazioni”, nella costruzione della struttura piramidale; una interdipendenza positiva dei componenti la “Colla Casteller”, colla costruttiva, capace di dimostrare la capacità di perseguire un obiettivo comune. E’ il “Cap de Colla”, il capogruppo, quello che stabilisce i ruoli, nei quali i partecipanti si riconoscono reciprocamente per poter affrontare “insieme” il rischio. Ogni Castell realizzato è una struttura organizzata che vive di un bene intangibile fondamentale: la fiducia degli uni sugli altri. Avere la colla come “espressione di Comunità” non ha certo cancellato nei Catalani le individualità esistenti (molto simili a quelle dei Sardi) o la propensione alla realizzazione personale, ma ha costruito in Loro importanti “comportamenti cooperativi” che hanno permesso Loro di raggiungere positivi risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Oggi i Castells, nella regione della Catalogna, in particolare a Barcellona, rappresentano la antica e radicata tradizione che non vuole tramontare anche conducendo una vita moderna, aperta, cosmopolita! Per soddisfare la curiosità dei molti lettori ecco qualche dettaglio sulla realizzazione di queste vere e proprie montagne umane che possono arrivare a costruire anche Castells a 10 piani!
La costruzione di un Castell segue un rito preciso ed è accompagnata da una musica che sottolinea l'impresa dei castelleros. Simbolicamente i Castells hanno un importante significato: salire sopra le spalle degli altri, fino a creare appunto una torre, vuol dire difendere la propria terra, esaltare le proprie tradizioni, oggi messe al bando dalla modernità e dalla perdita del sentire comune. I Castells, danno veramente l'idea dell'orgoglio che anima i catalani. Porre, poi, il bambino in cima, simboleggia la speranza che i giovani non dimentichino le proprie origini. La costruzione adotta una tecnica ben precisa che si tramanda di padre in figlio, quindi far parte di questa “istituzione” non è semplice. Già da bambini si imparano dai padri e dai nonni tutte le tecniche per diventare in futuro un “Casteller” e tramandare la tradizione.
Nella struttura del castello umano messo in atto si distinguono diverse parti: la Pinya, è la base della costruzione, qui si trovano quasi tutti i Castellers che hanno lo scopo di sostenere i livelli superiori, stabilizzare la struttura e attutire l'impatto in caso di caduta; il Tronc è invece la struttura verticale composta da un numero vario di persone per ogni piano; il Folre e le Manilles sono le persone che sostengono il terzo e il quarto livello del Castell.
L' Agulla è una torre che ha un solo Casteller per livello, chiamati di solito pilar.  Il bambino o bambina in cima  al Castell e detto l'Anxaneta, ultima propaggine del Castell che, una volta arrivato in cima, saluta il pubblico, quasi a voler confermare la riuscita dell'opera. Tra l'altro ogni castello ha un nome a seconda del numero delle persone che lo compongono e a seconda dell'altezza. Ad esempio, un castello formato da 3 persone, alto 8 piani, verrà chiamato 3 di 8 e cosi via. Ci sono poi castelli che hanno bisogno di basi supplementari tra un livello ed un altro. La costruzione dei castelli, come detto, è di solito accompagnata da una musica speciale, il toc de Castell, appositamente studiata per i Castells, che scandisce il progredire della torre. La "Gralla", simile al piffero, e la grancassa sono gli strumenti che da sempre sono usati per la composizione di questa musica.
L'inizio, è di solito accompagnato dal “toc d'entrada a plaça”, che invita la gente ad assistere allo spettacolo; la fine, invece, è segnata dal toc de vermut, che tra l'altro invita gli spettatori ad andare a pranzo. Le dimostrazioni dei Castells infatti, si svolgono normalmente a mezzogiorno della domenica, nella piazza davanti al municipio della città. Sono molte le città e i villaggi, in cui si può assistere allo spettacolo dei Castellers. L’usanza di costruire queste torri, partita dalla Catalogna, si è estesa poi a tutta la Spagna. Nella regione di Tarragona, dove l'usanza è molto sentita, si possono osservare vere e proprie gare di Castellers, stessa cosa a Valls. Sicuramente, però, i Castells migliori sono quelli di Barcellona.
Cari amici, noi dalla Spagna abbiamo certamente preso molto, sia  in cultura che tradizioni; molte però le differenze, le specificità che ci sono rimaste: in particolare il nostro splendido piacere all’isolamento ed il nostro ineguagliabile individualismo. Gli amici/colonizzatori catalani di un tempo sono riusciti fortunatamente a superare certe barriere e, attraverso una maggiore apertura verso gli altri, a costruire un comunitarismo che, senza cancellare le individualità, ha consentito Loro di costruire un vero, grande, gioco di squadra, come nella costruzione di Castells di gigantesca portata.
La Sardegna, oggi, ha bisogno di “emulare” gli amici catalani e imparare a costruire i suoi Castells.  Partendo proprio dai momenti di coesione creati dallo stare insieme per le feste! Uniamoci, prendiamoci a braccetto, come facciamo quando balliamo “su ballu tundu” comunitario. Impariamo a “metterci insieme”, a trovare soluzioni “facendo squadra”, ne abbiamo bisogno! La nostra crisi attuale è soprattutto crisi di fiducia nelle nostre capacità collettive ed individuali di affrontare le difficoltà e trovare, tutti insieme,  la soluzione. Oggi è il momento di riscoprire la coesione, affrontare tutti insieme il difficile momento, per riuscire ad andare oltre. Ce n’è bisogno perché la crisi che ci sta colpendo minaccia di riportarci a condizioni ottocentesche. Senza più lavoro, con il Welfare accusato di essere l’origine di ogni male e con uno Stato che si dimentica di onorare la sua stessa Costituzione nel negarci quanto dovuto. Un grande sforzo di coesione di questo tipo comporta per ognuno di noi la necessità di rinunciare a qualsiasi forma di individualismo e/o personalismo.
Noi Sardi siamo stati dominati per secoli e questo ha stroncato la nostra iniziativa e ha costruito generazioni servili. Solleviamo il capo e rivolgiamolo al futuro: sono le situazioni difficili quelle che forgiano un popolo, che fanno emergere la necessità di rimboccarsi le maniche per affrontare la realtà a testa alta e, soprattutto “insieme”, uniti. Nessuno si salverà da solo se non unirà la sua rabbia e la sua forza a quella degli altri. Prendiamo, senza indugio, esempio dai nostri amici della Catalogna, vestiamo l’armatura e lo spirito dei Collas Castellers. Basta volerlo. Insieme possiamo vincere e costruire un nostro alto e forte Castell! Più forte e solido di un “Nuraghe”!
Facciamo sì che il famoso detto “Pocos, Locos y Mal Unidos”, sia solo un triste ricordo del passato.
Grazie della Vostra amicizia.
Mario


martedì, settembre 24, 2013

ARBOREA, FRUTTO INTELLIGENTE DELLA BONIFICA AGRARIA DELLA PIANA TERRALBA, SI AVVICINA AL SECOLO DI VITA. PERCHE’ QUEST’UNICO ESEMPIO DI MODERNIZZAZIONE AGRICOLA DEL TERRITORIO SARDO NON SI E’ ESTESO AL RESTO DELL’ISOLA?



Oristano 24 Settembre 2013
Cari amici,
che la realtà di Arborea costituisca quasi un’eccezione nel panorama agricolo della Sardegna è un dato di fatto. Anche le recenti polemiche sulla liquidazione della Società Bonifiche Sarde, la società che avviò quell’importante progetto di trasformazione agraria che fece di una landa desolata e infestata dalla zanzara anofele  una terra di alta qualità, non fanno che ribadire che in Sardegna “INNOVARE”, cambiare radicalmente e modernizzare è un’impresa titanica.
Mi piace riepilogare qui con Voi la lunga storia di questa grande bonifica che ha creato Arborea, progetto innovativo  che, se avesse avuto miglior seguito, se non fosse rimasto isolato, avrebbe potuto costituire il volano per trasformare il nostro territorio sardo in una regione ad alta competitività sia agricola che industriale, sfruttando al meglio il potenziale insito nelle sue caratteristiche: posizione, clima, e risorse naturali.
In Italia tra fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento venne avviato un processo d’industrializzazione massiccio, destinato a cambiare gli arcaici precedenti processi produttivi, mediante l’utilizzo delle nuove tecnologie: energia elettrica ricavata dalla costruzione di nuove dighe e nuovi mezzi di trasporto, in particolare ferroviari. La Sardegna, a differenza di molte altre Regioni, era sempre rimasta schiava delle sue profonde contraddizioni: allevamento della pecora a pascolo brado, campi non coltivati lasciati ad erbai naturali, acque malgovernate, aziende agricole male attrezzate e scarse attività produttive e di trasformazione, carenti proprio a causa della mancata bonifica di ampie zone pianeggianti che restavano incolte, e diventate, per la mancata regolazione delle acque,  paludi e acquitrini, dove la zanzara anofele, portatrice della terribile MALARIA, si riproduceva in quantità industriali!
Ai primi del ‘900 il crescente intervento dello Stato nel settore delle opere pubbliche, la legislazione speciale per il Sud e per le Isole, con la conseguente opportunità di finanziamenti pubblici e di agevolazioni creditizie e fiscali, nonché le grandi possibilità offerte dall’elettrificazione come volano dello sviluppo industriale, avrebbero potuto portare anche in Sardegna sviluppo e innovazione. Si presentava, insomma, per l’Isola un’occasione irripetibile per uscire dall’arretratezza e dal sottosviluppo, considerati gli ampi mezzi finanziari disponibili. Presso il Ministero dell’Agricoltura fu istituito (1909) l’ufficio speciale per la Sardegna. Il sardo Cocco Ortu, Ministro dell’Agricoltura con Giolitti, fu promotore di molte delle riforme sociali varate con diverse Leggi Speciali in favore della Sardegna, la quale, per la prima volta, avrebbe avuto una reale e concreta possibilità di cambiamento. La Sardegna, dunque, doveva assolutamente cogliere questa favorevole occasione, svegliarsi dal suo torpore e dal suo tradizionalismo, abbandonando quel deleterio individualismo e accettando lo slancio proveniente dall’esterno! Questo forte impulso innovatore, che metterà insieme pubblico e privato, operando, attraverso il connubio tra Stato e Sistema Creditizio, a partire dalla Banca Commerciale Italiana, è destinato a portare avanti grandi interventi  anche nella negletta terra dei nuraghi.
Grazie ad un intelligente pool di uomini d’azione, in primis l’ingegnere cagliaritano Edmondo Sanjust di Teulada, Ingegnere Capo del Genio Civile di Cagliari, assertore vigoroso della realizzazione di importanti interventi di bonifica nell’Isola, attraverso la partnership tra lo Stato e il Capitale Privato, e di illuminati e sapienti progettisti, come Angelo Omodeo, viene studiata per l’Isola un’azione bonificatoria, idraulica e di trasformazione fondiaria di grande spessore. A loro, infatti, va riconosciuto il merito d’aver avviato il grande progetto del recupero e della trasformazione della Piana di Terralba, che prese corpo e poté realizzarsi attraverso la stretta alleanza tra tecnica (Sanjust e Omodeo), Politica (Cocco Ortu, Nitti e Turati) e Finanza (Giuseppe Toeplitz, B.C.I. e Giulio Dolcetta), senza dimenticare l’avv. Felice Porcella (Sindaco di Terralba dal 1895, Deputato dal 1913), vero ispiratore della bonifica terralbese.
Il 4 novembre 1911 venne costituita in Sardegna  la S.E.S., Società Elettrica Sarda, sostenuta dalla B.C.I. e dalla Società Strade Ferrate Meridionali. Scopo principale della neonata società era l’esercizio di centrali generatrici d’energia elettrica, da erogarsi come forza motrice per trazione ed altri usi industriali, ferrovie e tranvie. Determinante fu l’apporto tecnico di Angelo Omodeo che, su incarico della B.C.I. e della S.E.S., mise in cantiere progetti innovativi per la regolamentazione delle acque del Tirso con la costruzione di una grande Diga nell’alto oristanese che, realizzata, prenderà il suo nome. L’impianto, straordinariamente innovativo per l’epoca, oltre che fornire un grande quantità d’acqua per l’irrigazione, produrrà a basso costo energia elettrica (carbone bianco).
Nel 1912 l’Avv. Felice Porcella, allora Sindaco di Terralba (diventerà Deputato nel 1913), perennemente interessato al risanamento del suo territorio, presentava al Regio Parlamento un Progetto di deviazione del rio Mogoro, per mettere fine alle inondazioni ed agli impaludamenti, anche in vista dell’eliminazione della piaga della MALARIA che poneva l’Isola al vertice della graduatoria della sua diffusione in Italia. Affermava Porcella: “…per la felicità e la fortuna di questo popolo non basta curare soltanto la malaria del corpo, bisogna fugare anche la malaria dell’anima, che è l’ignoranza. Un popolo tanto più vale e può quanto più sa, perché l’ignoranza è compagna inseparabile dell’ignavia e della miseria…”. Terralba, dalla cui bonifica nascerà Arborea, contava allora oltre cinquemila abitanti e inaugurava, su progettazione degli ingegneri Remigio Sequi e Dionigi Scano, un grandioso edificio scolastico dopo circa un anno dall’inaugurazione dell’Acquedotto. Dionigi Scano sarà poi Direttore Generale della Bonifica.
Nel 1914 Felice Porcella, già Deputato da un anno, vista l’inerzia del suo precedente intervento, intraprendeva nel Regio Parlamento (XXIV Legislatura, Disegno di Legge 3 luglio 1914 n.152 Provvedimenti straordinari in favore della Sardegna) una appassionante battaglia per sollecitare il risanamento idrico-agricolo-finanziario-culturale della sua Terralba, ripresentando la progettazione per la bonifica idraulica nella valle inferiore del Tirso e la bonifica agraria del Campidano d’Oristano, in esecuzione delle leggi riunite nel T.U. 10 novembre 1907 n.844, rimaste lettera morta. Il progetto di bonifica idraulica, che partiva dalla sistemazione del rio Mogoro, non ebbe vita facile, visse un iter tormentato, complice anche la forzata interruzione della Grande Guerra 1915/18, e troverà concreta realizzazione solo negli anni 1923/24.
L’ennesimo disastro provocato nella piana di Terralba dall’inondazione del febbraio 1917 accelerò l’iter parlamentare per la definizione delle progettazioni della bonifica di quel territorio. Grazie anche alla collaborazione tecnica fornita a Porcella dall’amico e collega Antonio Pierazzuoli e favorito anche dallo studio Alpe-Serpieri sul Campidano oristanese, vengono messe a punto le proposte definitive per la bonifica integrale della Piana Terralbese. Realizzatore illuminato sarà l’ing. Giulio Dolcetta. Nell’Oristanese, la scelta del risanamento del Terralbese, da parte di imprenditori privati ed istituti di credito meno lenti dello Stato, con una bonifica integrale che doveva impiegare migliaia di uomini disoccupati, donne e ragazzi, venne accolta come una manna dal cielo, come un ritorno alla vita, dopo i disastri portati dalla Grande Guerra. Il solo desiderio era, ora, quello di lavorare in pace per riprendere a vivere, rifarsi una casa e una famiglia. L’8 agosto 1918 il Decreto Luogotenenziale n. 1256 (alla cui preparazione collaborò Porcella) autorizzò il Governo a concedere l’esecuzione delle opere di bonifica integrale.
Il 23 dicembre 1918 venne costituita la Società Bonifiche Sarde, S.B.S., che svolgerà una funzione essenziale nella trasformazione della improduttiva e acquitrinosa piana terralbese. Il territorio del Terralbese oggetto della bonifica era vasto: oltre 18 mila ettari, delimitato dagli stagni di S’Ena Arrubia a nord, Sassu ad est e di San Giovanni a sud. La Società Bonifiche Sarde iniziò i lavori il 1° marzo 1919, cominciando dalla TANCA DEL MARCHESE, la Tenuta ubicata a 4 km a sudovest di Terralba. La nuova società, la SBS, era governata dagli ingegneri Ottavio Gervaso, e Dionigi Scano, Direttore generale della Bonifica, espressamente designati da Giulio Dolcetta. 
Nella prima fase furono assunti un centinaio di operai e la direzione operativa della S.B.S., ovvero il suo Quartier Generale, trovò sede presso la Cascina del Marchese, opportunamente riadattata. Era questo l’unico manufatto esistente nei circa 18 mila ettari da bonificare! Proprio qui si presentarono i tanti senza lavoro che, sollecitati dai bandi comunali di Terralba, Marrubiu, Uras, S.N.D’Arcidano, Santa Giusta e tanti altri paesi sardi, cercavano ristoro alla miseria; successivamente negli anni dal 1927-28, arrivarono i continentali (veneti in particolare) che s’insedieranno pian piano sulla terra bonificata che diventerà una nuova realtà con la nascita di Mussolinia-Arborea., nata originariamente come Villaggio Mussolini. Nell’ottobre del 1928, alla presenza di Vittorio Emanuele III°, di Costante Ciano (padre di Galeazzo) e delle più alte cariche dello Stato, venne, infatti, inaugurato il “Villaggio Mussolini”, articolato in  sette corti coloniche denominate S’Ungroni, Alabirdis, Pompongias, Torre vecchia, Linnas, Tanca Marchese e Luri.
Terminata la bonifica era necessario “popolare” queste nuove terre recuperate. La Società Bonifiche Sarde aveva realizzato poderi modello che ora necessitavano di braccia forti e capaci per gestirli. Il problema del popolamento di questi luoghi, fu risolto dal regime fascista invitando a  “trasferirsi” nei nuovo poderi  i contadini e gli agricoltori, provenienti da altre regioni italiane. A Mussolinia-Arborea arrivarono in tanti, soprattutto dal Veneto, dove la grande povertà portata dalla Grande Guerra, era maggiore. Si pensi che i soli coloni veneti, nel 1930, rappresentavano ben il 67,8 % della popolazione residente. I primi abitanti della zona bonificata non raggiungevano le 1.000 unità ma nel 1936 Mussolinia contava già 3.800 persone.
L’intenso lavoro di questi coloni, svolto spesso in condizioni incredibilmente difficili, riuscì a trasformare radicalmente l’acquitrinosa e spopolata zona, regno incontrastato della zanzara anofele, in una fertile e rigogliosa pianura. Sono passati ormai 85 anni da quel lontano ottobre del 1928, che vide la nascita di una nuova cittadina, in un territorio fino ad allora, chiamato “Ala Birdis” che in lingua sarda significa “ali del diavolo”. Nome appropriato perché non solo paludoso ma infestato da insetti, bisce, tarantole e scorpioni. Per curiosità ci basti ricordare che per limitare il terribile frutto portato dalle zanzare, la malaria, si pensò addirittura di costruire manufatti idonei ad ospitare una particolare specie di pipistrello, chiamata Kahili, molto prolifera e notoriamente insettivora che, moltiplicandosi rapidamente, avrebbe contribuito notevolmente ad agevolare la lotta agli insetti portatori di malaria.
Un immane lavoro, quello portato avanti dai coloni in gran parte veneti, fatto di disboscamenti, di paludi colmate, di spianature dei terreni, della costruzione di canali, strade, centri agricoli e  case poderali, sorte dove prima c’era solo desolazione e morte.  Case poderali, quelle da assegnare ai coloni, realizzate in perfetto stile architettonico neo-classico veneto, compreso l’emblematico esempio della “Chiesa del Cristo Redentore” ancora oggi esistente.
Oggi Arborea, nome definitivo assunto nel 1944, conta poco più di 4.000 abitanti e, oltre a essere noto come “giardino veneto in terra sarda”, ha un prestigioso primato: quello di figurare al 10° posto, in Italia, per reddito pro capite (dati ISTAT 2004). L’azienda lattiero casearia 3A è oggi una delle realtà economiche di eccellenza, non solo a livello nazionale ma europeo.
A ricordo perenne della figura dell’Ing. Dolcetta  è stato edificato, ad Arborea, un monumento in suo onore e l’Assessorato alla Cultura organizza con l’Associazione Veneti nel Mondo, il Premio letterario “Giulio Dolcetta”, mentre un chiaro riferimento alla regione d’origine è rappresentato dalla “Sagra della polenta”!
Ecco, cari amici, questa che ho voluto ripercorrere è la storia di una “rinascita” portata avanti in anni difficili, e realizzata in un dopoguerra dove tutto mancava e bisognava sopravvivere. L’esempio di Arborea non è comunque servito da traino, da volano per “migliorare” molte altre parti dell’Isola che avrebbero potuto essere migliorate anche in maniera molto più semplice. L’innata diffidenza dei sardi, l’individualismo esasperato, che non consente di mettersi insieme, di “fare squadra”, ha continuato a dominare, stroncando l’associazionismo, unica via per uscire da un contesto arcaico, mettendo “insieme” esperienza ed innovazione.
Chissà se le nuove generazioni, aperte molto più di noi al dialogo con gli altri, sapranno superare questo gap che rischia di tenere la Sardegna più vicina al medioevo che al terzo Millennio!
Grazie dell’attenzione.
Mario