UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI SASSARI
FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE
CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN EDITORIA, COMUNICAZIONE MULTIMEDIALE E GIORNALISMO
MERCATO A DUE VERSANTI: DALLA TEORIA DEL BENE PUBBLICO AL “ MERCATO MULTIPIATTAFORMA “
RELAZIONE DI: MARIO VIRDIS
Esame di: ECONOMIA DEI MEDIA
DOCENTE: PROF. AUGUSTO PRETA
PREMESSA
ORIGINI ED EVOLUZIONE DEL SISTEMA TELEVISIVO
La prima regolamentazione delle trasmissioni televisive avviene attraverso il codice postale, datato anni '30, che adattato, non senza eccessive semplificazioni, ai nuovi mezzi di comunicazione, riservava allo Stato "i servizi di televisione circolare a mezzo di onde radioelettriche", con esclusione di ogni altro soggetto. Lo Stato poi aveva concesso in esclusiva alla Rai- Radiotelevisione italiana, fin dal 1952, l'esercizio dei "servizi di radiodiffusione e di televisione".
Come sostenuto dal Prof. Vincenzo Zeno Zencovich “…Il governo del sistema radiotelevisivo poggia da quasi mezzo secolo su due dogmi: la scarsità delle radiofrequenze e la speciale capacità del mezzo di influenzare l’opinione pubblica…”.
Questi presupposti, soprattutto il primo, quello di bene “scarso”, hanno fatto sì che da sempre la gran parte degli Stati europei (governi, parlamenti, giudici), abbia ritenuti di assoggettare il sistema di radio-diffusione alla normativa del “ Bene Pubblico “.
L’argomento della scarsità delle radiofrequenze è stato utilizzato ieri (in parte anche oggi) per giustificare il monopolio statale dei servizi radiotelevisivi, oggi invece, soprattutto, per disciplinare la materia ed evitare pericolose concentrazioni, capaci di ledere la libertà dei mezzi di diffusione.
Il secondo dogma, invece, quello della forza persuasiva del mezzo, è utilizzato, oggi come in passato, per una minuziosa regolamentazione dei contenuti trasmessi (dai notiziari alla pubblicità, dalla tutela dei minori alle trasmissioni politiche, dalle quote riservate a produzioni europee alla tutela delle minoranze linguistiche). Questa disciplina non è una peculiarità del modello radiotelevisivo europeo, ma si avvale, anzi è mutuata dalla precedente esperienza statunitense, che in gran parte ha da sempre anticipato molti dei fenomeni relativi al broadcasting.
Ai due precedenti postulati, in tempi più recenti, se ne è aggiunto un terzo, quello del pluralismo. Il termine, recepito dalla filosofia politica, ha scopo ed utilizzo ben precisi: il sistema radiotelevisivo deve assicurare il pluralismo (politico, culturale, religioso, linguistico ecc.) e, a tal fine, risulta giustificato un penetrante controllo su di esso.
La risultante di tutto ciò è che la materia risulta talmente scottante, di cosi perenne attualità, che la lotta per il potere, per il controllo del mezzo, non ha un attimo di tregua. Partiamo dalle origini.
C'era, dunque una volta la Rai. Una “Istituzione”: bella, monolitica, democristiana, mamma Rai, insomma.
Rai padrona assoluta dell'etere, divinamente scelta per governare e proteggere un bene prezioso, rarefatto, unico e pericoloso. Inoltre i costi di gestione di quella tecnologia novecentesca chiamata tele-visione risultavano ingentissimi: naturale pensare ad un monopolio pubblico (sempre esistito, tra l’altro, prima con l’Eiar, la propaganda di regime, la notizia addomesticata). Certo, trattandosi di un “ bene pubblico” mica poteva essere assoggettato al mercato: era meglio la “mano pubblica” della “mano invisibile” ! Troppi rischi.
Mi piace ricordarla la “teoria del bene pubblico”, per togliere ogni dubbio.
Nel mondo, oggi più di ieri, tutto è oggetto di commercio La teoria economica moderna, è tutta basata su un concetto cardine: quello di bene, per distinguerlo dal suo opposto, quello di male. Un concetto importante dalle numerose conseguenze, anche pratiche. Il bene è una qualsiasi cosa oggetto di interesse da parte di qualcuno. Un centro di interesse, dunque. Vieppiù, se questo “qualche cosa” presenta la caratteristica della scarsità, allora rientra a pieno titolo nella sfera economica. L’economia, infatti, osserva e giudica i differenti metodi di allocazione delle risorse all’interno di una comunità.
Un bene che scarseggia è dunque un bene da proteggere, da sottrarre e da escludere alle comuni leggi di mercato: non può rientrare nelle ordinarie regole della domanda e dell’offerta. Questo, però, non è un concetto così pacifico come apparentemente sembra.
Il mondo e tutti i suoi beni non sono statici, non sono immutabili, ma in continua e progressiva evoluzione: basti pensare alle grandi rivoluzioni industriali ed umane degli ultimi secoli. Il concetto di bene, dunque, e quello della sua disponibilità sono indiscutibilmente variabili. La sua unità di misura è quindi una misura dinamica, variabile, tempo per tempo, in relazione alla disponibilità ed alla necessità di questi beni per gli individui. Pare ovvio, e credo proprio che lo sia, pensare che il valore di un qualsiasi bene è in stretto rapporto con la sua utilità, con il gradimento che, in un determinato momento, esso ha per un individuo o per un gruppo. Vorrei rimarcare che il gradimento, l’utilità di oggi, potrebbe diventare il rifiuto o l’inutilità di domani. Questa utilità/inutilità dimostra quanto il bene sia volatile: quanto le preferenze dell’uomo. La quantità di bene-risorsa presente in un determinato istante all’interno di una comunità è ben lungi, dunque, dall’essere statica e predeterminata. Al contrario, la dinamicità delle preferenze individuali la trasforma e la muta in un processo continuo. E’ solo nell’uomo la capacità della scoperta, dell’invenzione, dell’innovazione.
Definito il concetto di bene cerchiamo ora di focalizzare quale di questi beni rientri nel concetto di bene pubblico. Sicuramente sono pubblici quei beni sui quali non sarebbe pensabile costruire tutele all’interesse di un singolo. Sono le res communes omnium: L’aria, il calore e la luce del sole, ecc. Non può esistere una tutela privata su questi beni; non per qualche strana ragione equitativa, ma per il semplice fatto che nessuno avrebbe interesse a delimitare i suoi diritti su un qualcosa che non presenta alcun problema di scarsità. Sarebbe anche difficile osservare questo tipo di beni dal punto di vista economico, visto che non presentano alcun conflitto di allocazione. Il bene è definito bene non rivale. Non sorge rivalità nell’utilizzo e nello sfruttamento del bene. In questi termini, si può ben accettare il concetto di bene pubblico come un concetto sacrosanto, anche se praticamente inutile ai fini economici. Ma i c.d. beni pubblici non si limitano a questi. La difesa nazionale, l’ordine pubblico, le reti viarie e non pochi altri sono beni dei quali non si ci può appropriare, dai quali non si ci può escludere. Anche molti altri “beni” sono rientrati tra quelli pubblici. Uno di questi è il mercato radiotelevisivo.
Fin dalla scoperta delle onde radio-elettriche ( la radio inizialmente era uno strumento di importanza militare), si cercò di “riservare” e proteggere questo strumento. Strumento che, consentendo di allargare immensamente la comunicazione, costituiva un potente mezzo capace di mettere in pericolo l’autorità costituita. Il broadcasting, il potente strumento di grande capacità comunicativa, nasce, dunque, con le caratteristiche di “servizio pubblico”. La logica corrente era, allora, che il nuovo strumento non poteva essere concepito con semplici finalità di intrattenimento ma, invece, era necessario utilizzarlo per scopi ben più alti: formativi, pedagogici, culturali. Informare, educare divertire: questo sarà per oltre mezzo secolo il compito del nuovo strumento comunicativo televisivo.
Col passare del tempo, siamo nella seconda metà del Novecento, l’unica rete cede al passo alle altre e si moltiplica; tuttavia in gran parte si resta convinti che “ la mano pubblica” sulle reti radiotelevisive sia “cosa buona e giusta”, poiché essendo limitato il numero delle frequenze le poche disponibili era meglio che fossero gestite dalla mano pubblica. In quel modo si sarebbe evitata la nascita di un mercato probabilmente oligopolista, con corruzione e accordi di cartello. Oggi, invece, tutto questo fa parte solo del passato, ancorché di un passato recente. Ora i servizi radiotelevisivi, con le nuove tecnologie, sono facilmente moltiplicabili, cosa che fa cadere uno dei presupposti ( la scarsità delle frequenza) su cui si basava il concetto di bene da “proteggere”.
Per poter meglio comprendere il passaggio da monopolio ad oligopolio e in ultimo al mercato multipiattaforma, si riepilogano le tappe più importanti, dalle origini ai giorni nostri.
CAPITOLO PRIMO
DALLA TV DI STATO ALLA TV COMMERCIALE
L'esercizio dei "servizi di radiodiffusione e di televisione", che lo Stato aveva concesso in esclusiva alla Rai - Radiotelevisione italiana, fin dal 1952, non aveva destato, nei primi tempi, contestazioni o richieste al Ministero delle Poste di deroghe per iniziative di natura privatistica.
Già nel 1956, però, qualcosa iniziò a muoversi: un gruppo vicino al giornale il Tempo lanciò un'iniziativa editoriale per la realizzazione di un servizio di radiodiffusione televisiva, basato economicamente sui proventi della pubblicità, da attuare nel Lazio, in Campania ed in Toscana, con eventuale successiva estensione ad altre regioni. La richiesta di concessione di frequenze al Ministero delle Poste venne respinta. In Lombardia furono più intraprendenti: Tvl Televisione Libera, finanziata da una cordata imprenditoriale, decise di tentare la forzatura, ma il 24 ottobre del 1958 la magistratura sequestrò tutte le apparecchiature prima dell'inizio delle trasmissioni. I tentativi di forzare il monopolio furono respinti brutalmente. Ma nessuno si arrese. Prima le battaglie al Consiglio di Stato, poi successivamente alla Corte Costituzionale. Si arriva, nel frattempo, al 1960.
Con la sentenza del 13 luglio 1960 la Consulta, per bocca del giudice relatore Sandulli, afferma che data la limitatezza di fatto dei canali utilizzabili, la televisione a mezzo di onde radioelettriche (radiotelevisione) si caratterizzava indubbiamente come una attività predestinata, in regime di libera iniziativa, quanto meno all'oligopolio: oligopolio totale od oligopolio locale, a seconda che i servizi venissero realizzati su scala nazionale o su scala locale. E siccome poi i servizi radiotelevisivi, se non fossero stati riservati allo Stato o a un ente statale ad hoc, sarebbero caduti naturalmente nella disponibilità di uno o di pochi soggetti, prevedibilmente mossi da interessi particolari, non poteva considerarsi arbitrario neanche il riconoscimento della esistenza di ragioni "di utilità generale" idonee a giustificare, ai sensi dell'art. 43 Cost., l'avocazione, in esclusiva, dei servizi allo Stato, dato che questo, istituzionalmente, é in grado di esercitarli in più favorevoli condizioni di obbiettività, di imparzialità, di completezza e di continuità in tutto il territorio nazionale.
Sostanzialmente nel 1960 la Corte Costituzionale conferma il monopolio Rai, pur esortando lo Stato a garantire un ampio accesso all'utilizzazione del servizio, basandosi sulle caratteristiche tecniche della radiotelevisione. Per un decennio nulla cambia. E’ con gli anni '70 che esplode il fenomeno delle radio e delle tv libere. Tra il '71 e il '72 nasce TeleBiella, inzialmente via cavo, ritenuta la prima tv privata italiana. E' da questo momento che il tema della tv privata comincia ad assumere i toni di un vero e proprio scontro: nel marzo del 1973 viene emanato il nuovo codice postale, il quale, riconducendo tutti i mezzi di comunicazione a distanza ad una categoria unica, sostanzialmente estendeva il monopolio pubblico a tutte le forme di trasmissione. Anche la tv via cavo privata diviene illegale. Il 1° giugno del '73 il provvedimento di chiusura: l'autorità taglia il cavo di trasmissione di TeleBiella mentre la tv tiene un'apposita diretta. Nel frattempo si pone anche il problema delle tv estere confinanti: Telemontecarlo, Telecapodistria, la tv svizzera, ed i loro programmi a colori, arrivano in territorio italiano grazie a ripetitori nostrani; nel giugno del 1974 il ministro delle poste decreta lo smantellamento anche di tali ripetitori. Non è finita.
Nuovi procedimenti penali contro i responsabili delle innumerevoli tv locali, nate sulla scia di TeleBiella, promossi dai pretori un po' in tutt'Italia, approdano nuovamente alla Corte Costituzionale. E' il 10 luglio 1974. I giudici costituzionali confermano il loro orientamento: la televisione opera in un campo dalle frequenze limitate e dai costi enormi, pertanto a fronte del rischio di monopolio o oligopoli privati meglio conservare la riserva statale. Tuttavia ciò non è certo applicabile ai sistemi televisivi via cavo a dimensione locale, che di conseguenza devono ritenersi pienamente leciti. Similmente si risolve la questione di ripetitori delle tv estere. La legge 103/1975, di riforma della Rai, sancì tali acquisizioni, ma il fronte del monopolio si andava incrinando con altri interventi giurisprudenziali via via sempre più derogatori. Sdoganato il cavo rimaneva ancora il tabù dell'etere. La Corte Costituzionale il 28 luglio 1976 ribadì con le consuete motivazioni la riserva statale ma ritenne perfettamente legittimi "l'installazione e l'esercizio di impianti di diffusione radiofonica e televisiva via etere di portata non eccedente l'ambito locale". A questa sentenza non seguì alcuna legge per disciplinare la comunicazione via etere sino al 1990 (la nota legge Mammì). Il nostro sistema era notoriamente definito Far west dell'etere.
Dal novembre 1977 inizia la diffusione su larga scala: ad Antenna3 Lombardia, alla cui attività parteciperà significativamente anche il presentatore Rai Enzo Tortora, che inaugurò una delle prime vere competizioni tra emittenza pubblica e privata, ne seguirono altre. L'affare diventava interessante. Entrano in gioco i gruppi editoriali: Mondadori, Rusconi, e nel 1978 il costruttore Silvio Berlusconi che vara Tele Milano 58 (ma già a Milano2 trasmetteva via cavo).
Nel 1979 nasce l'idea per superare il limite della trasmissione locale: il network delle reti Elefante trasmette su varie emittenti i programmi inviati da un'emittente centrale; il sistema viene perfezionato l'anno successivo quando Telemilano 58, TeleEmiliaRomagna, TeleTorino, VideoVeneto e A&G Television iniziano a trasmettere in contemporenea (con leggero sfasamento) lo stesso programma recando in sovraimpressione la scritta Canale5.
Nel 1980 Rizzoli, lancia Contatto, il primo telegiornale "privato", diretto da Maurizio Costanzo. La Rai questa volta agisce in prima persona e chiede al Pretore di Roma un provvedimento d'urgenza per impedire l'inizio delle trasmissioni: il Pretore concede l'inibitoria ma successivamente, su istanza della difesa Rizzoli, invia gli atti alla Corte Costituzionale. La Corte conferma il precedente pensiero. Nel gennaio del 1982 altri due network iniziano similmente a trasmettere: si tratta di Italia1 (Rusconi), e di Rete4 (Mondadori). Nello stesso anno Italia1 passa a Berlusconi, due anni dopo la stessa cosa avviene con Rete4.
La svolta avviene il 16 ottobre 1984: i pretori di Roma, Torino e Pescara, su denuncia di gestori di emittenti di ambito locale, dispongono l'oscuramento delle reti del gruppo Berlusconi, sequestrando nel contempo le cassette dei programmi registrati. Alla Presidenza del Consiglio siede da un anno Bettino Craxi, il quale, nell'arco di soli 4 giorni emana un decreto legge ad hoc (d.l. 694/1984) per consentire la "prosecuzione dell'attività delle singole emittenti radiotelevisive private", disponendo espressamente che "è consentita la trasmissione ad opera di più emittenti dello stesso programma pre-registrato, indipendentemente dagli orari prescelti".
L'operazione, spregiudicata, non passa esente da critiche e finisce silurata il 28 novembre 1984, quando, sottoposto a pregiudiziale di costituzionalità, il decreto viene bocciato dalla Camera dei Deputati con 256 voti contro 236. Un Craxi furente fa approvare in pochissimi giorni (5 dicembre) un nuovo decreto-legge, che viene pubblicato il giorno successivo (d.l. 807/1984). Il decreto contiene un articolo denominato "norme transitorie" che ripropone esattamente il contenuto del provvedimento decaduto, ma aggiunge anche una disciplina sulla struttura aziendale Rai (nomina e composizione degli organi di vertice).
Questa volta Craxi minaccia la crisi di governo e impone il voto di fiducia: le pregiudiziali di costituzionalità sono respinte alla Camera (12 dicembre 1984) ed al Senato (4 febbraio 1985). La legge di conversione (l. 10/1985) mette in salvo le reti Fininvest. Sotto l'auspicio del ministro delle poste Gava comincia l'attesa per la definitiva disciplina del sistema radiotelevisivo, che si concluderà nel 1990 con la legge c.d. Mammì: la transizione dal monopolio al duopolio è così compiuta.
Altre leggi completeranno il quadro legislativo relativo alla nuova situazione: dalla l. 249/97, c.d. legge Maccanico,che istituì l’Autorità garante per le Comunicazioni, alla 112/2004, c.d. Legge Gasparri, dalle Direttive Comunitarie sul commercio elettronico ( 31/2000) al Dlgs. 67/2000 sulla pubblicità comparativa. Tutte, a partire da quelle emanate dall’autorità europea, hanno dato ulteriore regolamentazione alla nuova emittenza: quella commerciale.
CAPITOLO SECONDO
LA TV COMMERCIALE
- la Tv generalista
La TV “pubblica”, agendo in regime di monopolio, lo abbiamo già detto, non era sottoposta alle leggi economiche della domanda e dell’offerta. Mancando un rapporto diretto tra domanda e offerta, potendo quest’ultima prescindere dalla prima, il prezzo per usufruire del programma o palinsesto, risultava indipendente dalle regole economiche. La prima dimostrazione di questa situazione è che la TV pubblica, per la sua gestione, ricava in parte i suoi mezzi applicando ai detentori del “ricevitore” una c.d. Tassa di possesso, un canone, che, calcolato alla fonte, non tiene conto delle leggi di mercato. Diverso, invece, il modello commerciale.
A differenza del modello pubblico l’emittenza commerciale, legata alle inderogabili esigenze di profitto cui necessariamente deve orientare la propria attività, opera in regime di concorrenza, di conflittualità, anche particolarmente aggressiva, con gli altri media. Tutto questo per fagocitare, acquisire, un importante numero di utilizzatori dei suoi programmi. E’ proprio il telespettatore la sua merce più preziosa. Questo non significa che la TV commerciale non faccia parte a pieno titolo dell’industria culturale e di informazione come quella pubblica.
Pur operando in ambienti apparentemente contradditori l’emittenza commerciale, attraverso una sapiente organizzazione del palinsesto, cerca di massimizzare gli ascolti per ogni singolo segmento offerto. In altri termini il palinsesto dell’emittente commerciale non è il prodotto finale, l’offerta, ma un fattore di produzione del bene, rappresentato dal pubblico, che viene venduto all’inserzionista, nel momento che egli dedica alla visione dello spot o messaggio pubblicitario. La merce, il prodotto da valorizzare, non è quindi il programma, la trasmissione, ma il pubblico che, esaminato sotto il profilo commerciale della domanda e dell’offerta, da soggetto si trasforma in oggetto della transazione economica, diventando merce di scambio, in quel particolare mercato, quello pubblicitario, tra il broadcaster, che da la programmazione in cui si inserisce lo spot, e l’inserzionista pubblicitario che lo acquista. Questa formula è efficacemente sintetizzata nell’espressione “ L’emittente commerciale vende pubblico ai pubblicitari ” (A.Preta , Economia dei contenuti, pag.51). Pubblico e Pubblicitari sono, dunque, i due piatti della bilancia dell’offerta radio-televisiva commerciale, i due versanti di un mercato dall’incerto equilibrio.
La TV commerciale, finanziata dalla pubblicità, estrinseca la sua offerta mediante tre modelli differenti:
1- TV generalista in chiaro
2- Canali tematici
3- TV locali
Il primo modello, multigenere, tende a massimizzare gli ascolti, che consente di attrarre rilevanti investimenti pubblicitari.
Il secondo modello, con trasmissioni sia in chiaro che a pagamento, è rivolta ad un pubblico di nicchia; a fronte di costi minori, però, fanno riscontro anche ricavi limitati.
Il terzo, anch’esso finanziato dalla pubblicità, è rivolto ad un mercato “limitato”, territoriale, ad un ristretto ambito geografico, dove prevale l’interesse locale. La TV generalista è, in tutti i principali mercati europei, la componente prevalente.
La TV generalista, ad alto indice di ascolto, è caratterizzata da forte concentrazione: un numero ridotto di canali ( da 4 a 6 ) si spartisce la gran parte degli introiti pubblicitari e degli ascolti, con i primi due operatori che controllano mediamente il 50% degli ascolti e degli introiti.
Il modello di business della TV generalista, finanziata dalla pubblicità, è ovvio che spinga alla competizione per assicurarsi quell’audience, base fondamentale della formula che quantifica i ricavi pubblicitari. In un mercato competitivo di questo genere, in presenza di una “concentrazione” non temporanea, la risultante di “oligopolio naturale” è generata, derivata, da un insieme di fattori i cui più importanti sono:
1- l’esistenza di costi irrecuperabili (sunk costs), sostenuti per l’acquisizione di strumenti che una volta usciti dal mercato, non sono più spendibili, recuperabili;
2- l’elevata dimensione degli operatori già presenti sul mercato, fatto che consente di avere costi di produzione assai bassi, nonché i nuovi mezzi per stare al passo con l’innovazione tecnologica;
3- la migliore conoscenza delle tecniche di gestione delle aziende del settore;
4- il maggiore potere contrattuale degli esperti operatori sul mercato sia con i clienti che con i finanziatori (Banche e finanziarie);
5- la già acquisita fidelizzazione della clientela in portafoglio.
Queste risultanti autorizzano la definizione di “oligopolio naturale”, come sostengono Sutton e Shaked (J. Sutton – A. Shaked, Natural Oligopolies -1983).
L’oligopolio naturale prima evidenziato, considerata l’esistenza dei “costi irrecuperabili”, prima evidenziati e delle altre variabili difficilmente superabili, limita fortemente il possibile ingresso di altro competitori, che difficilmente sarebbero capaci di produrre a costi uguali o inferiori a quelli degli operatori già presenti. E’ il “circolo vizioso/virtuoso che “…genera pochi vincitori ” ( A. Preta già citato, pag. 55).
Queste forti e permanenti ” barriere all’entrata “ sono ulteriormente aggravate dai seguenti altri fattori:
1- la necessità di disporre delle frequenze, notoriamente limitate;
2- la presenza di due operatori che già possiedono e controllano tre reti TV ciascuno ( gli eventuali altri ingressi dovrebbero anch’essi operare con lo stesso numero di reti);
3- L’integrazione verticale (proprietà della rete) che consente di massimizzare i vantaggi competitivi.
Tutto questo ha, di fatto, impedito l’ingresso di altri competitori, confermando la struttura duopolistica.
- la Tv a pagamento
Ad una TV in chiaro, pubblica o finanziata dalla pubblicità non importa, qualche decennio dopo si affianca, una nuova TV: quella a pagamento.
Nel corso dei primi anni settanta negli Stati Uniti, in anticipo di dieci anni rispetto all’Europa, si sviluppa un nuovo modello di televisione, inizialmente operante via cavo e successivamente via satellite, destinato a soddisfare nuove esigenze di un consumatore sempre più “particolare”, sempre più attento ai suoi bisogni. E’ questo il passaggio dalla TV uguale per tutti, “universale”, a quella specialistica, dove è l’utente che sceglie la tipologia dei contenuti a lui più soddisfacenti.
E’ questo un passaggio epocale: l’abbattimento delle barriere tecnologiche, pone le condizioni anche per il superamento delle barriere economiche, derivanti dalla non escludibilità del bene, che rendevano improduttivo un investimento in presenza di un mercato prevalentemente generalista. Le nuove tecnologie inoltre consentono il superamento della penuria di canali ( con il digitale teoricamente la moltiplicazione è infinita) creando, quindi, nuove possibilità, aprendo nuove frontiere.
Questa rivoluzione, in primis, travolge, distrugge, uno dei pilastri fondamentali su cui si era basato per tanto tempo il prodotto radiotelevisivo: il concetto di “ bene pubblico” in quanto scarso, limitato. Caduto il “muro”, il prodotto televisivo si libera dai vincoli e si trasforma: diventa “bene privato”, commerciabile, vendibile attraverso la definizione di un prezzo, regolato dalle leggi dello scambio economico. E’ il passaggio alla logica economica del libero mercato, dove si confrontano, si instaurano rapporti diretti tra domanda e offerta, basati sulla disponibilità del consumatore/cliente a pagare per il prodotto il prezzo relativo.
Il costo richiesto al cliente/consumatore per il prodotto televisivo fornito, si basa sulla logica del “valore percepito”, ovvero da quanto il consumatore è disposto a pagare per il prodotto offerto. La differenza tra il valore massimo che il consumatore attribuisce al prodotto offerto e quanto effettivamente richiesto, costituisce il suo guadagno, meglio definito come il “ Surplus del consumatore”.
Nella teoria economica il surplus del consumatore è strettamente legato al concetto di benessere economico: il consumatore acquista un bene se ne trae utilità, se questo bene gli da la soddisfazione richiesta. Questa utilità, questa soddisfazione, ha per il consumatore un prezzo massimo, ovviamente legato al reddito. Se il prezzo richiesto è più basso il consumatore comprerà, se il prezzo supera la soglia rifiuterà l’offerta. Più basso è il prezzo, maggiore sarà la differenza tra il prezzo massimo da lui attribuito al prodotto ed il prezzo pagato. Questa differenza è il surplus del consumatore.
Esaminando, invece, il problema dall’altra parte, quella dell’impresa che fornisce il servizio, i termini risulteranno rovesciati. Infatti dal prezzo attribuito al servizio l’impresa deve detrarre il costo sostenuto per produrlo: maggiore è la differenza tra il costo sostenuto ed il prezzo di vendita del servizio, maggiore sarà il suo guadagno (surplus del produttore). La risultante che stabilisce il “massimo benessere economico”, la massima efficienza del mercato, in situazione di concorrenza perfetta ed in assenza di esternalità, è ottenuta quando si massimizza il Surplus totale, cioè quando i consumatori attribuiscono ai beni il valore più elevato ed i produttori sono in grado di offrirli al costo più basso.
La TV commerciale ha, negli ultimi anni, modificato radicalmente le abitudini dei suoi fruitori/consumatori. Il forte cambiamento portato dalle Pay TV, o TV multichannel, si basa su due forti elementi di novità:
1- la disponibilità di un maggior numero di canali, ottenuta mediante la diffusione via cavo o via satellite;
2- l’utilizzo in via predominante, anche se non esclusiva, degli abbonamenti.
Il primo elemento, certamente il più importante, è quello che fa cadere uno dei due dogmi da cui siamo partiti: la scarsità delle radiofrequenze. Se agli inizi del secolo scorso i presupposto fossero stati quelli di oggi, forse, il percorso fin’ora seguito sarebbe stato molto diverso! Il modello originario televisivo, analogico, universale, in chiaro e terrestre, forse non sarebbe mai esistito.
Il progresso, però, come è giusto che sia, non si ferma mai. L’era del digitale da una parte ha resa obsoleta una parte importante del nostro passato ma, soprattutto, ha aperto frontiere di portata ancora tutta da scoprire. La Pay TV multichannel è solo un primo passo verso un futuro fatto di ben altro.
Tramontato il dogma più importante, quello di bene pubblico, quindi limitato, entrata a pieno titolo nel “mercato” commerciale dopo la caduta del monopolio prima e dell’oligopolio dopo, l’industria dei media è diventata grande. Oggi, raggiunta la maturità, ha non solo migliorato se stessa ma ha anche contratto più di un matrimonio: con la telefonia e con la rete di Internet. E’ questo il passaggio, ancora in corso, del mercato televisivo dalla piattaforma unica al mercato multipiattaforma.
Questa, però, è un’altra storia!!!
Mario Virdis, ECG, matr. 30019800