martedì, settembre 28, 2010

ITINERARI SARDI MERAVIGLIOSI: LA VALLE DI LANAITTU E LA GROTTA DI TISCALI.



Oristano 28 Settembre 2010

Cari amici,
l'itinerario turistico che indico in questo articolo è stato da me realizzato per essere pubblicato su "VOCE DEL ROTARY", il periodico mensile del Distretto 2080, dove è stato pubblicato pochi giorni fa nel numero 75 di Settembre.

Esso analizza le bellezze della valle di Lanaittu, alle pendici del Monte Corrasi in territorio di Oliena, con all'interno la ormai "superfamosa " grotta di Tiscali ed il villaggio nuragico.
Eccolo.

Il Villaggio nuragico di Tiscali .

Alle spalle del Monte Corrasi, nel territorio di Oliena (NU), c’è forse uno dei più misteriosi esempi di insediamento umano del passato.
Visitare Tiscali è un’avventura che percorre i millenni della civiltà nuragica. Un viaggio che non offre risposte, ma che aumenta gli enigmi sulla civiltà che ha tempestato tutto il territorio della Sardegna di migliaia di segni inspiegabili e fantastici. Tiscali, per di più, ha lasciato segni completamente diversi da quelli, già misteriosi, lasciati dal popolo nuragico. Se i Nuraghi erano costruzioni ben visibili e raramente nascoste, Tiscali è infatti un fortino segreto, invisibile anche allo sguardo più attento ed individuabile solo una volta arrivati davanti al suo ingresso. In fondo all’incantevole e selvaggia vallata di Lanaittu si erge un monte, quello di Tiscali. Nella sommità della montagna, alta 518 metri, si nasconde una immensa grotta circolare a cielo aperto. Al suo interno ecco lo stupendo spettacolo: un villaggio bellissimo, fatto di capanne in muratura che si addossano l’un l’altra. L’agglomerato nuragico era talmente grande che si possono distinguere due veri e propri quartieri ben distinti.

Per raggiungerlo si attraversa la valle di Lanaittu inoltrandosi in un mondo di calcare, di ginepri e di lecci, in cui è nata la secolare e silenziosa civiltà dei pastori-guerrieri.
In questi luoghi la vita scorre nascosta: l'acqua abbondantissima nei fiumi sotterranei, gli animali (le aquile reali e i mufloni) e gli uomini nei canyon, immersi in foreste secolari e nelle spelonche o in luoghi come l'incredibile rupe che si apre nel monte Tiscali, con le rovine del villaggio nuragico più spettacolare della Sardegna. Al villaggio si arriva, tenendo sempre la sinistra, ai piedi del monte Tiscali, che si erge come una gigantesca e minacciosa bastionata, interrotta a nord dalla voragine di Tiscali, chiamata "Curtigia de Tiscali", originata sicuramente da uno sconvolgimento tettonico che ha poi dato luogo all'omonima dolina, dividendo la montagna in due monconi. L'arrampicata fino al villaggio di Tiscali è uno dei percorsi preferiti dai turisti, anche perché è un occasione fantastica per fare una "full immersion" di natura incontaminata e paesaggi spettacolari.

Si percorrono i vecchi sentieri dei carbonai, ci s'inerpica per pendenze al limite del percorribile, poco prima di arrivare al villaggio si passa attraverso una fenditura nella roccia alta e profonda diversi metri ma larga poco più di uno, rendendo il passaggio angusto anche ad una sola persona. Nell’ enorme dolina che ha sprofondato la sommità arrotondata di un monte di calcare luccicante, che ricorda molto realisticamente un cratere vulcanico. All'interno di questo cratere ancora un'altro cedimento della roccia, stavolta sulla parete rivolta ad ovest, ha creato una spettacolare ed impressionante balconata che guarda la vallata sottostante.

Il villaggio si trova all'interno di una dolina di crollo, formatasi in seguito allo sprofondamento del soffitto di una grotta carsica. Un enorme frammento della volta si è conficcato verticalmente nel terreno assumendo l'aspetto di un Menhir. Qui gli antichi e gli indomiti abitatori, perseguitati dagli invasori, pensarono di costruire un nucleo di abitazioni, riparate da giganteschi soffitti di roccia per proteggersi anche dalle intemperie dei rigidi inverni del Supramonte. Per alcuni versi il villaggio di Tiscali ricorda gli insediamenti rupestri dell'America Latina o certi "pueblos" indiani, edificati entro i canyons. Infatti agglomerati costruiti sotto immense pareti di roccia possono ritrovarsi nel Colorado o nell'Arizona.
Così la dolina divenne un vasto riparo, sicuro e molto comodo, che consentiva di controllare l'esterno: circa 3000 anni fa lo abitarono antiche popolazioni sarde che vi edificarono un villaggio nuragico. Circa cinquanta capanne costruite pressappoco a semicerchio intorno a questo, in maggioranza circolari, ma anche rettangolari, sono divise in due quartieri e sono addossate alle pareti della dolina, esse sono in parte crollate, ma si possono notare ancora le fondamenta. Tutte le strutture attualmente visibili (del IX-VIII sec. a.C.) sono realizzate con pietre murate a secco; le capanne sono sia di forma circolare che rettangolare ed oggi sono fortemente degradate per i crolli e le azioni vandaliche. Gli architravi di tutte le costruzioni sono in legno di terebinto o ginepro e non in pietra, come accade invece normalmente nelle capanne nuragiche. Le due capanne circolari conservate meglio, all’epoca del Taramelli (famoso studioso ed archeologo), avevano un’altezza tra i 3 e i 4 metri, pareti spesse circa un metro e diametro interno di circa 3 metri. Originariamente la copertura dei vani doveva essere realizzata con travi lignee e/o frasche come nelle attuali pinnettas. Ancora in discreto stato una capanna (con diametro esterno di circa 5 metri) che conserva una nicchia, alcuni stipetti e l’originale architrave in legno di terebinto. Si presuppone che il villaggio sia nato sul finire della civiltà nuragica o durante il dominio dell’impero romano, data la posizione strategica che lo rendeva invisibile e imprendibile. Accessibile esclusivamente attraverso una sola via d’accesso: la diaclasi, una strettissima spaccatura nella roccia, unico collegamento esterno con il villaggio. Ci piace ancora oggi immaginare, con un sottile brivido, un gruppo di indomiti guerrieri sardi che difendevano strenuamente la loro indipendenza vietando quel passaggio agli invasori.
Queste sono le tracce più affascinanti lasciate dall'uomo nel Supramonte, legate a quell’epoca.

Il villaggio di Tiscali non rimase però segreto alle popolazioni che seguirono quelle nuragiche. Una conferma, questa, di come per millenni sia stato considerato un luogo ottimale nel quale vivere.
Il sito fu abitato fino all’epoca romana ed alto medioevale, anche se fu “riscoperto” casualmente solo verso la fine del XIX secolo.




Ecco una serie di foto dei luoghi.
Visitateli!
Mario Virdis






L'OLIO DI LENTISCHIO, UNO STRAORDINARIO ED ANTICO PRODOTTO ANCORA OGGI DI GRANDE ATTUALITA'.



ORISTANO 28 Settembre 2010
Cari amici,
ecco un'altro dei miei ricordi giovanili. Spero sia di Vostro gradimento.

L’olio di lentischio

Quand'ero ragazzo, erano i primi anni del dopoguerra, il riscaldamento come lo intendiamo oggi ( termosifoni, pompe di calore, etc. ), non c’era. L’unica fonte di calore era un grande camino che assolveva, sia al compito da dare un modesto tepore alla casa, che a quello di preparare una buona parte dei pasti. Salvo, infatti, alcuni piatti che richiedevano una cucina con un fuoco più lento e controllabile, come i sughi e le fritture, e che venivano cucinati nei fornelli in ghisa alimentati a carbone, ubicati per comodità nelle vicinanze del grande camino, tutto il resto veniva cucinato utilizzando la brace del grande fuoco della cucina, alimentato dalla legna che veniva raccolta in campagna durante il periodo asciutto.
Il problema maggiore, però, non era quello di cucinare i cibi, ma quello di trovare i cibi da cucinare!
Negli anni del dopoguerra la lenta ripresa economica faceva sì che i pochi prodotti circolanti costassero molto di più di quello che si poteva spendere per comprarli. Uno per tutti l’olio d’oliva. I pochi uliveti erano in mano alle famiglie benestanti e acquistare l’olio necessario era un sacrificio notevole. Le campagne circostanti erano ricoperte, invece, nella parte collinare, di abbondante macchia mediterranea dove il lentischio abbondava. Pianta modesta, umile, il lentischio ma dalle tante qualità nascoste, capace di dare alla povera economia di allora un grande contributo. Rivediamo, insieme, le caratteristiche di questa pianta.

Il lentischio, “Pistacia lentiscus”, è un arbusto sempreverde dall'intenso profumo resinoso e aromatico, tipico della macchia mediterranea, molto diffuso in Sardegna dalla pianura alle zone montuose Il lentischio è considerato una pianta miglioratrice del terreno in quanto lo rifornisce di sostanze organiche e ioni minerali che favoriscono la nascita di altre piante. Per questi motivi. la specie è importante dal punto di vista ecologico per il recupero e l'evoluzione di aree degradate. Il terriccio presente sotto i suoi cespugli è considerato un buon substrato per il giardinaggio Questa utilissima pianta ha foglie coriacee di un colore verde intenso, con fiori unisessuati e poco appariscenti , il frutto è una piccola drupa,che assume varie colorazioni durante la crescita, passando dal verdastro al rosso granato brillante, fino a diventare, a completa maturazione, rosso scuro. Da questi frutti si estrae un olio molto aromatico che un tempo, specialmente dalle classi più povere, veniva utilizzato a scopo alimentare.
Oggi c’è una spontanea rinascita dell’olio di lentischio ricco di Acidi Grassi Essenziali (acido oleico, linoleico e linolenico) anche se la produzione, però, è minima, tanto da farla definire di nicchia: vi assicuro che un'insalata di pomodori condita con delle gocce di olio è un'esperienza sensoriale notevole.
Le bacche del lentischio si raccolgono in autunno, lo stesso periodo della raccolta delle olive. Oggi, a differenza di ieri, si fanno bollire in acqua per mezz’ora, si scolano si mettono in un sacco di tela, si pressano per filtrare l’olio che poi viene brevemente sobbollito con qualche fico secco, per addolcirne il gusto pungente dei tannini. Una goccia, ma nel vero senso della parola, sui formaggi erborinati o a lunga stagionatura ne esalta il sapore dandogli una nota balsamica. Il suo uso non si limita a questi “sfizi” alimentari: le sue proprietà cosmetiche e medicamentose sono eccellenti: dalla cura del viso (ottimo per far seccare velocemente i brufoli e rinfrescare la pelle) ad eccellente prodotto antiodore ( in passato veniva largamente utilizzato, con il decotto di foglie, per rinfrescare le scarpe dall’intenso e forte odore di piedi), oltre che battericida e fungicida. Non solo l’olio e le foglie rivestivano e rivestono un’importanza notevole. Un’altra delle sue grandi proprietà è contenuta nel lattice che si ottiene incidendo la sua corteccia. Questo “latte”, questa resina lattescente e profumata, che lentamente fuoriesce dalla ferita, ha un grande potere cicatrizzante; si raccoglie in estate, si fa essiccare e si conserva dentro piccole scatole di legno, sempre di lentischio, che in passato si riponevano all’interno degli armadi, dove oltre che profumarli proteggevano anche la biancheria dalle tarme.
Nella mia famiglia questa utile pianta era considerata una panacea. Invariabilmente, sia che si trattasse di un livido, di un foruncolo, di un herpes, di un dolore reumatico, di pelle screpolata, di tosse e bronchite, la risposta era sempre quella: Ollu ‘e stincu! Questo è uno dei diversi nomi del lentischio nel dialetto sardo. Tutte le parti della pianta possono essere utilizzate: per il mal di gola e le gengiviti sciacqui con Filu ‘e ferru (acquavite), dopo avervi messo a macerare freschi e giovani rametti, per il sudore e contrastare l’odore forte dei piedi, rametti freschi dentro le calzature, per curare le piccole fissurazioni che compaiono sui pollici, olio di lentischio lavorato con il “lattice della corteccia”, applicato sui tagli (se lo applichi la notte al risveglio non senti più il dolore e il taglio è praticamente chiuso), oltre che per infinite applicazioni medicamentose di piccola gravità.
Torniamo all’introduzione di questa storia ed agli anni del dopoguerra che ho vissuto in prima persona. Erano anni difficili e la carenza sia di materie prime che dei mezzi per procurarsele, aguzzavano l’ingegno. La carenza di buon olio d’oliva ed il suo prezzo proibitivo avevano fatto scoprire ( o riscoprire ) l’uso alimentare dell’olio di lentischio. Il risultato fu che in tanti, per sopperire alle difficoltà economiche, iniziarono a raccogliere i preziosi semi della pianta che maturavano proprio nello stesso periodo di raccolta delle olive.
Il lavoro di raccolta era svolto principalmente dalle donne. Muovendosi a piedi, sin dalla mattina presto, gruppi di donne chiacchierando e facendosi compagnia a vicenda si portavano nelle campagne circostanti, munite di uno setaccio ( su sedazzu[i] ), e di un sacco per riporre il prodotto. Data la distanza dal paese la giornata lavorativa non prevedeva il ritorno a casa per il pranzo: una parvenza di frugale colazione, spesso costituita da un pezzo di pane, accompagnato da erbe selvatiche, era consumata nel breve momento del riposo, sedute sotto un albero. Il lavoro era impegnativo e si effettuava in due: una sfregava velocemente ma delicatamente le infruttescenze ( in dialetto andare a raccogliere questi frutti aveva un termine preciso: “andai a frigai”[ii]), l’altra, invece, muoveva, sapientemente e velocemente, sotto le mani della comare che faceva cadere le drupe, “ su sedazzu”, il recipiente prima menzionato, per raccogliere, senza farle cadere per terra, le piccole drupe che si staccavano dalla pianta.
La fatica maggiore consisteva nello stare inchinati o inginocchiati per terra per ore, data la modesta altezza degli arbusti di lentischio. Due donne esperte, però, erano in grado di raccogliere e portare a casa anche un quintale di prodotto in una giornata di lavoro!
Il prodotto raccolto veniva, con la collaborazione dei figli, ripulito dalle foglie e dai rametti caduti dalla pianta insieme alle drupe, usando i grandi recipienti di vimini, “is carrigus”, e gelosamente conservato per alcuni giorni, fino a completare la quantità necessaria, per essere avviate, per la spremitura, al frantoio. Tra le donne (le comari) era un grande orgoglio poter raccontare la quantità raccolta in una giornata particolarmente proficua! Una famiglia, se c’erano molti figli che collaboravano tutti alla raccolta, era in grado di raccogliere una quantità di prodotto sufficiente ai bisogni di olio per tutto l’anno.
La qualità dell’olio prodotto dipendeva dall’annata più o meno piovosa. Una buona annata regalava un prodotto a bassa acidità, di un bel colore giallo oro e con un profumo intenso. Le prime prove, “i test di qualità”, venivano effettuati dopo aver fatto riposare, per alcuni giorni, l’olio nuovo in damigiana. Sostanziale la differenza, il raffronto, con l’olio d’oliva: l’olio di lentischio conservava il forte aroma della pianta ed aveva una maggiore acidità; il sapore di quest’olio era più “forte”, asprigno, e non poche erano le ricette per “correggere”, diminuire, questa forte asperità. Una delle più comuni consisteva nel riscaldare l’olio nel tegame e friggerci, prima dell’utilizzo in cucina, una larga fetta di pane spalmata di aglio, che rendeva l’olio meno forte. La fetta di pane dorata, che aveva assorbito l’olio, avrebbe dovuto essere destinata agli animali da cortile, alle galline o miscelata al pastone del maiale. Difficilmente questo succedeva: nei dintorni della cucina c’erano sempre i ragazzi che catturavano all’istante la fetta di pane e la mangiavano in pochi secondi. Io non facevo certo eccezione: non appena mi accorgevo delle manovre per preparare il pranzo o la cena stazionavo nelle vicinanze, all’erta, fino all’uscita della fetta di pane dall’olio. Caldissima è fumante la soffiavo per raffreddarla e a lunghi morsi, nonostante il sottofondo asprigno, la mangiavo con avidità. Antipasto d’altri tempi! Altro che le merendine o gli snack odierni!
I tempi cambiano e tutto passa. Da questi bisogni al successivo benessere i tempi non sono stati lunghi. Oggi viviamo l’epoca dello spreco delle risorse, delle tonnellate di alimenti che finiscono nei cassonetti, mentre in tante altre parti del mondo si muore ancora terribilmente di fame. Purtroppo l’egoismo domina e l’altruismo è spesso un termine dimenticato.
Un’ultima considerazione. E’ la conoscenza, la ricerca, quella che il mondo dovrebbe maggiormente incentivare e portare avanti. Questo, purtroppo non avviene: in Italia la ricerca è cosi trascurata da essere relegata a Cenerentola, con percentuali irrisorie di investimenti.
Perché sostengo la necessità assoluta della ricerca? Perchè è proprio con essa che potranno nascere in futuro i presupposti per far lavorare i nostri giovani!
Tornando al fatto che ho raccontato, se allora si fosse saputo che l’olio di semi di lentischio era un raro e prezioso elemento, molto ricercato e richiesto dall’industria, in quanto olio di base per la preparazione di numerosi farmaci e prodotti di bellezza, certamente avrebbe avuto ben altra destinazione. Venduto ad alto prezzo avrebbe consentito di acquistare vari altri prodotti alimentari, regalando un tenore di vita certamente più elevato.
Ecco cosa vuol dire il sapere, la conoscenza!! Una cosa, però, è certa: spesso gli umili hanno parecchie doti, non poche qualità nascoste.
Vi porto un esempio che riguarda la nostra “Grande” Grazia Deledda.
Fortemente delusa anche dagli amici a Lei vicini, ma soprattutto addolorata dalle critiche, dopo la pubblicazione delle sue prime opere, che non apprezzavano le sue iniziali fatiche letterarie, cosi scrisse:
“…Sarò anch'io come il lentischio, che solo per gli umili che ne conoscono il segreto nasconde nelle sue radici la potenza del fuoco, e nel frutto selvatico l'olio per la lampada e per gli unguenti…".

Aveva pienamente ragione dimostrando al mondo intero con l’acquisizione del Premio Nobel che, come il lentischio, possedeva, dietro il suo "carattere umile", tante qualità nascoste.
Meditate, gente, meditate.

Mario

................................................(note)

[i] Su sedazzu, o su chibiru ( o chiliru) era lo strumento che in casa serviva per setacciare la farina e gli altri cereali. Lo strumento era di diverse tramature a seconda delle varie necessità. Per la raccolta dei semi di lentischio veniva usato il setaccio “grosso”, con le trame più larghe.
[ii] “Andai a frigai”, significava letteralmente andare “a sfregare” (con le mani), e quindi indicava l’azione di sfregamento, con successivo distacco delle drupe oleose dall’arbusto, che venivano raccolte e poi macinate.