Ho voluto titolare "in modo scherzoso" un serio articolo della Prof. Antonietta Mazzette ( apparso su http://www.eddyburg.it/ )sulle recenti trasformazioni dei luoghi del nostro vivere quotidiano, il cui titolo reale è:
LUOGHI, NON LUOGHI E SUPERLUOGHI.
La prof. Mazzette è docente di Sociologia Urbana nella Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Sassari. Tra i lavori più recenti "La città che cambia", "La vulnerabilità urbana", "Effervescenze urbane", "L'Urbanità delle donne" e l'ultimo "La Metropoli consumata".
ecco l'articolo.
Luoghi, non-luoghi e super-luoghi Dai non-luoghi ai super-luoghi. Su questo ipotetico passaggio si è concentrata recentemente anche l’attenzione mediatica italiana. Le espressioni non-luoghi e super-luoghi, seppure appaiano straordinariamente efficaci, sono artificiose e vanno utilizzate con grande cautela perché un loro uso semplificato può diventare fuorviante e distorcente. Mi sottraggo perciò a questo uso ed entro nel merito dei contenuti del dibattito che si è sollevato sulle pagine di Repubblica e di Eddyburg.
Sinteticamente si possono individuare due percorsi riflessivi che non sempre, però, rimangono distinti e opposti: quello che porta a definire i cosiddetti super-luoghi una nuova forma urbana; quello che li considera invece una forma rinnovata di anti-città.
Sono pienamente convinta che i nuovi ‘contenitori’, deputati al consumo come svago e forma di socializzazione che si collocano lungo i sistemi viari e di collegamento, seppure non siano percepiti come appartenenti alla città anche dai suoi diretti fruitori, sono a tutti gli effetti una esplicita manifestazione del vissuto metropolitano ed urbano. Ciò perché, come ha scritto Sgroi nel nostro volume La metropoli consumata: “Nella urbanizzazione neometropolitana le funzioni urbane … sono rimescolate e disperse nel territorio in modo che siano fruibili da tutte le popolazioni che vivono occasionalmente o continuativamente l’esperienza metropolitana”; dagli spazi dell’abitare (continuativa o instabile) a quelli del produrre; dagli spazi del consumare a quelli dell’agire collettivo. Si badi - avverte Sgroi - “che questa classificazione è nella sua esemplificazione assolutamente fluida: i luoghi sempre di più perdono il loro carattere di stock per assumere quello di flusso; non soltanto: i luoghi sempre meno sono e sempre di più sono creati”, compresi quelli che abbiamo ereditato dal passato.
E se l’urbanistica e la politica continuano ad ignorare la proliferazione ‘spontanea’ di questi contenitori, l’architettura fa del déjà-vu urbano occasione di business economico: dalle mura medievali ai capitelli, dalla piazza alla fontana, e così via. Appaiono lontani, dunque, i contenitori grigi rivolti verso l’interno (perché la centralità era data dalle merci esposte) ideati da Gruen e dai suoi successori, e ciò non perché è intervenuta l’architettura a dare ‘dignità’ urbana a questi luoghi del consumo, bensì perché il consumo è diventato un’azione sociale ben complessa e potenzialmente infinita. Come scrive Cini nel suo bel libro Il supermarket di Prometeo le nuove forme di consumo sono infinite perché è “senza limiti la nuova informazione che la mente umana può creare”. In altre parole, il consumo (materiale o immateriale che sia) è diventato l’elemento trainante e unificante che sta permeando di sé luoghi fisici e luoghi virtuali, conoscenze e culture, socialità e bisogni individuali.
Si tratta di un processo inevitabile? In parte sì, se lo leghiamo ai nuovi caratteri della modernità, ai mutamenti della produzione materiale ed alla sua de-localizzazione nello spazio-mondo, al fatto che l’informazione e la rivoluzione microelettrica sono l’input e la sostanza di questi mutamenti. In parte no, se pensiamo alle politiche urbane di questi ultimi anni che, più che ‘regolatrici’ del consumo (in senso di contenimento), sono diventate esse stesse politiche orientate al e produttrici di consumo, a partire dal consumo del suolo. Ciò riguarda in special modo l’Italia. Condivido l’affermazione di Salzano secondo cui oggi nel nostro Paese si è creato un grande squilibrio tra la forza dell’impresa commerciale e la debolezza dell’amministrazione pubblica. Anche perché questa forza è concentrata nelle mani di soggetti extra-urbani e (extra)sovra-nazionali che con le loro scelte di investimento e di localizzazione delle attività, per lo più prese al di fuori della ‘cinta urbana’, oltre che della singola nazione, incidono sul mutamento territoriale ed economico, senza per questo avere il bisogno di stare dentro i processi decisionali tradizionali e di governo pubblico della città. Ovvero non hanno bisogno del consenso democratico, eppure giocano un ruolo pesantissimo nella dis-articolazione territoriale e nella trasformazione economica e sociale della città. Mi riferisco alle multinazionali proprietarie di catene d’alberghi, di centri della grande distribuzione, di convenience store, di factory outlet ed altro ancora.
Il tutto però avviene in sintonia con la proliferazione di politiche urbane orientate quasi esclusivamente ad attrarre visitatori/consumatori, perché questa è apparsa alle amministrazioni locali la modalità centrale, se non l’unica, per rilanciare e rendere competitive le città o parti di esse. Da questo punto di vista appare poco significativo entrare nel merito dei tipi di consumo che si formano in un centro storico o in uno shopping mall, in un centro commerciale di vecchia o nuova generazione oppure in un open air center. Così come poco importa la tipologia dei mezzi di consumo, perché in fondo la città di lunga durata sta sempre più assomigliando ai nuovi contenitori, non tanto per la sua conformazione fisica ed architettonica quanto per le azioni sociali di cui si sta riempiendo, azioni dense di uno stare insieme sociale finalizzato quasi esclusivamente al consumo.
Il consumo è democratico? Formalmente sì. Nel senso che ogni singolo individuo ha il diritto di accedere a questi spazi. Naturalmente l’esercizio di questo diritto particolare varia con il variare della concreta capacità economica e culturale che ha ogni singolo individuo. In pratica significa che se si accetta l’equivalenza città=consumo, facendo di quest’ultimo l’indicatore di misurazione della cittadinanza, l’esito finale non potrà che essere quello di produrre una città sempre più duale in termini di inclusione ed esclusione sociale, prima ancora che in termini territoriali.
La città è storicamente luogo e prodotto del conflitto, dove, come scrive Salzano nel suo Ma dove vivi?, le contraddizioni sono “momenti di dialettica”, ossia momenti di formazione dello “spirito cittadino”. Ma quel che manca oggi sono per l’appunto le sedi dove sviluppare questo spirito cittadino. E mi appare difficilmente sostenibile l’idea che il mercato (in qualunque forma si presenti) possa assumere anche la veste di luogo di decisione democratica.
(a.m.)
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