Oristano 10 settembre 2023
Cari amici,
Tornando indietro nel
tempo, agli albori dell’umanità, il lavoro non esisteva. La terra offriva
spontaneamente i suoi frutti, vegetali e animali, e l'uomo si limitava a
godere dei beni che la natura gli offriva. Era il tempo di Crono, il tempo
felice di un Eden ben rappresentato da Esiodo in Opere e giorni, ai versi
109-119. Poi l’uomo, col passare del tempo e relativamente alla sua crescita,
da semplice raccoglitore-cacciatore divenne coltivatore e allevatore, dando
vita così alla fase successiva: quella del lavoro per potersi sfamare.
Non voglio qui fare un excursus
sulle varie fasi che hanno portato al lavoro ed al suo svolgimento come lo
concepiamo oggi, ma semplicemente focalizzare l’attenzione su un punto
importante: l'etica nel lavoro. La creazione di un'etica del lavoro ha un
grande valore a livello collettivo: nel senso che dalla necessità di lavorare si
è passati al dovere di lavorare bene, e questo ha implicato il “seguire una
serie di regole”, ovvero un "modo organizzato" di operare nel lavoro, vissuto
come regola comportamentale.
E qui riprendo quanto
scritto da Esiodo, che richiama l’esortazione al lavoro nel suo libro Opere
e giorni, relativamente alla centralità del lavoro nel sistema dei valori
sociali (Esiodo nei versi 299-316 con l’esortazione iniziale «lavora, Perse!»),
a cui segue l’illustrazione dei vantaggi che il lavoro presenta: vantaggi
concreti in termini materiali (= allontanamento della fame e della miseria) e
sociali (= apprezzamento del lavoro da parte di dèi e uomini)! Quella descritta
da Esiodo, amici, è un’etica positiva del lavoro, visto come sostentamento:
"Nessun biasimo al lavoro; biasimo all’inattività" anche perché
"Fame sempre è compagna dell’uomo inoperoso". Finché le cose non sono cambiate.
Col passare del
tempo, infatti, l’etica del lavoro grazie ai più intriganti marchingegni, è andata a
perdersi, in modo particolare per la sempre crescente sete di guadagno da parte dei padroni delle grandi aziende che il lavoro lo offrono; decisioni tese a massimizzare il
profitto a spese di chi, lavorando, questo profitto lo creava. A questo si è
aggiunta anche la sete di guadagno del lavoratore, sempre orientata al maggior
introito, che, giorno dopo giorno, ha snaturato la iniziale natura del lavoro,
ovvero quella di: “LAVORARE PER VIVERE”, trasformandola in “VIVERE PER LAVORARE”!
Lentamente ma
inesorabilmente, tanti lavoratori, stimolati anche psicologicamente dai
responsabili aziendali, hanno iniziato a dedicare completamente se stessi
all’azienda, rinunciando alla propria vita personale, al proprio benessere (fatto
di amore per se stessi, per le proprie relazioni sociali e per la famiglia). Ma, spesso, senza rendersi conto che a tutto c’è un limite: una volta arrivati al “Burnout” (ovvero a quello
stato di STRESS sul piano emotivo, fisico e mentale, che porta spesso a
situazioni sociali, famigliari tali da risultare impossibili da gestire), si sono ritrovati KO, ed è stato
necessario trovare una ragionevole soluzione per rimediare.
Secondo lo studio di BCG
e The Network (What Job Seekers Wish Employers Knew, nessun stipendio, per
quanto alto, e nessuna carriera, per quanto altisonante, sono una leva
sufficiente a giustificare la distruzione della sfera personale del lavoratore,
privato di una parte importante della sua vita! Di conseguenza, la risultante è che, giorno
dopo giorno, sta venendo meno la predisposizione di tanti lavoratori a dedicare
completamente se stessi all’azienda, nel tentativo di rimettere al centro della vita il proprio IO, le
proprie relazioni sociali e il personale benessere.
Da questa presa di
coscienza è nato un comportamento nuovo, definito “Quiet quitting”,
ovvero l’«abbandono silenzioso» del precedente, totale impegno dedicato all’azienda; ovviamente, però, restando al proprio posto di lavoro, limitandosi a svolgere le attività strettamente necessarie nella propria mansione, quelle previste all’interno dell’orario lavorativo,
assicurandosi così lo stipendio ed evitando il licenziamento. Secondo Harvard
Business Review, il lavoratore che applica il Quiet quitting ha lucidamente deciso di volersi bene: riscoprendo così il tempo libero, e, una volta tornato a casa, si concentra non più sul lavoro ma su attività di altri tipo: famiglia, amici, hobbies.
Seppure in un primo tempo preoccupate, anche le aziende, in gran parte, hanno capito che era inutile lamentarsi troppo dello sviluppo del Quiet quitting;
l’abbandono silenzioso da parte dei dipendenti costituiva di certo un preoccupante sintomo di vicinanza al burnout, per cui era giusto, quindi, intervenire per garantire la salute mentale dei propri lavoratori. In che modo possono intervenire positivamente le aziende nell'interesse comune? Sviluppando una cultura aziendale in cui si promuova il
benessere del lavoratore, introducendo nel welfare agevolazioni per lo sport,
la nutrizione e la salute psicologica. Sono cose possibili, che creerebbero un
clima positivo, con sicuro aumento della produttività aziendale. Insomma, il benessere del lavoratore costituisce benessere anche per l'azienda.
In conclusione, cari
amici, il Quiet Quitting è nato come fenomeno cognitivo-protettivo del
lavoratore. Il fermarsi evitando il burnout, serve in primis a proteggere se stessi, e di riflesso anche l'azienda. La nuova consapevolezza del lavoratore, che ha capito che oltre il lavoro c’è la propria vita, la felicità personale e
la socialità è alquanto positivo. È la consapevolezza che il lavoro non è tutto, che non è l’intera sua vita, costituita, invece, dalla relazione sociale dalla famiglia, dagli amici e
dalle tante esperienze che possono essere fatte oltre il lavoro!
A domani.
Mario
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