Oristano
15 Aprile 2019
Cari amici,
Con la globalizzazione
imperante, tutto ormai risulta collegato in tempo reale: il mondo delle
persone, del lavoro, del commercio, dell’informazione. All’interno di questo “melting
pot”, di questa miscela di popoli che effettuano un velocissimo interscambio,
in particolare nel mercato del lavoro e della produzione, avviene di tutto e di
più. Un mondo che ormai dà valore solo al prodotto e non all’uomo! Il luccicante
prodotto finale, è totalmente staccato “da chi e da come” è venuto alla luce,
relegando purtroppo nel limbo il sacrificio e il lavoro di chi lo ha generato; le persone solo solo "api operaie", che restano
celate nell’ombra, ridotte al rango di invisibili schiave. È come osservare il brillare della
punta di un iceberg, dimenticando l’enorme massa sottostante, ben più
consistente e pesante.
La premessa di cui sopra
mi serve oggi per evidenziare un mondo, quello della moda, ai più sconosciuto
nella sua interezza. Un mondo che a quanto pare "evitiamo" di conoscere nella sua globalità, perché
è preferibile vedere solo “la facciata”, senza andare a verificare cosa si nasconde
dietro il luccichio dei bei vestiti, della moda e delle modelle.
È stato un interessante documentario, firmato da Chiara Cattaneo e Alessandro Brasile, a “portare alla luce” questo ‘dietro le quinte’, ovvero quello che si cela dietro lo sfavillante mondo della moda. Nel docu-film vengono raccontate le tristi storie delle giovani donne del Tamil Nadu, nell'India Meridionale, che lavorano nell'industria tessile locale, che produce i più importanti filati per le catene di fast fashion.
È stato un interessante documentario, firmato da Chiara Cattaneo e Alessandro Brasile, a “portare alla luce” questo ‘dietro le quinte’, ovvero quello che si cela dietro lo sfavillante mondo della moda. Nel docu-film vengono raccontate le tristi storie delle giovani donne del Tamil Nadu, nell'India Meridionale, che lavorano nell'industria tessile locale, che produce i più importanti filati per le catene di fast fashion.
Chiara e Alessandro non
sono cineasti di professione; lui è fotografo, e spesso aveva collaborato per
dei servizi fotografici richiesti dalle ONG nei Paesi in via di sviluppo; lei
invece da 10 anni si occupa di cooperazione nel tessile proprio nell’India Meridionale.
Il documentario da loro realizzato è stato commissionato proprio dalle ONG
presenti nella zona, nell’intento di far conoscere al mondo una realtà
sicuramente poco conosciuta e che, invece, è apparsa a loro interessante da raccontare.
Il documentario
realizzato dai due, che ha avuto per titolo “Fashion victims”, è stato presentato in anteprima al 29° Festival
del Cinema Africano, d'Asia e America Latina (Fescaal), il 28 marzo scorso a Milano. Chiara
Cattaneo e Alessandro Brasile con quest'opera hanno inteso evidenziare la triste vita
lavorativa e personale delle lavoratrici, costrette a turni estenuanti,
anche di venti ore al giorno; giovani private della libertà di movimento e della
possibilità di comunicare col mondo esterno, pagate non con uno stipendio
mensile, ma con una modesta somma di denaro necessaria per le esigenze
quotidiane.
Come ha riportato l’ANSA, Chiara
e Alessandro nell’ascoltare le confessioni delle ragazze e quanto riferito dai
responsabili delle organizzazioni che offrono loro supporto, si sono resi conto
che queste fabbriche tessili in India "sono un particolare e terribile segmento economico inesplorato;
è come se in quella struttura ci fosse mano libera per uno sfruttamento che, anche se non a livello
giuridico, rasenta le condizioni di schiavitù". "Era come stare in prigione, dalla
fabbrica non ci si licenzia, si scappa" ha raccontato una delle
ragazze intervistate.
Amici, è il bisogno che crea le condizioni di lavoro
schiavistiche. Le giovani e giovanissime ragazze che lavorano in quelle
fabbriche-lager, provengono quasi sempre da zone povere e rurali, dove in
famiglia non ci sono altre fonti di reddito, spesso a causa del persistente
declino dell'agricoltura. È in questi villaggi che i "broker", agendo
da intermediari tra le aziende alla ricerca di manodopera numerosa e docile, la individuano
presso una popolazione locale sempre più disperata, riuscendo ogni anno a reclutare migliaia di
giovanissime.
Una volta assoldate le
ragazze si trasferiscono in azienda, dove oltre a lavorare, sono costrette
anche a vivere, negli ostelli annessi alle fabbriche. L’assunzione, poi,
avviene attraverso schemi di reclutamento e sfruttamento con contratti come quello dello 'Sumangali scheme', un tipo di
contratto per il quale devono lavorare da tre a cinque anni e, solo al termine
del periodo stabilito, dovrebbero ricevere il pagamento cumulativo di quanto
guadagnato. Cifre che vanno dai cinquecento agli ottocento euro e che loro sognano
di usare come dote per il proprio matrimonio.
Accordi, quelli raggiunti,
spesso violati, non rispettati, negati con l’impudenza di false dichiarazioni,
come per esempio usare la motivazione che il lavoro prestato era illegale. E c'è
anche di peggio, come ha avuto modo di affermare Brasile: "una ragazzina di 16 anni
dopo 4 mesi di lavoro ha avuto un ictus perché lavorava 16 ore al giorno e, con
questi ritmi, gli incidenti sono all'ordine del giorno". Senza
contare che all’interno di una situazione di per sé ben triste, si nascondono
anche zone ben più grigie, fatte di sfruttamento del lavoro minorile e di abusi
sessuali.
Cari amici, da questo
blog dico un sincero grazie a Chiara Cattaneo e Alessandro Brasile, per avere
con il loro film-documentario messo “il dito nella piaga” delle tante
nefandezze create dalla globalizzazione. L’India è uno dei maggiori produttori del
filato che serve nel mercato internazionale della moda, dal fast fashion ai
grandi brand del lusso, e questo a noi occidentali basta! Poco importa se in
questa catena industriale sono impiegate centinaia di migliaia di giovani donne
rese schiave, in quanto quello che conta per noi è il prodotto finale, non come
questo è stato prodotto!
Dovremmo, invece,
riflettere molto su questo film- inchiesta, perché non possiamo continuare a
dare valore solo al prodotto, dimenticando le persone che lo hanno realizzato! Occupiamoci
seriamente, sempre, dell'intera filiera di produzione, anche allora di quelle donne indiane senza futuro, sfruttate e violentate nel
corpo e nell’anima, come risulta evidenziato nel documentario Fashion Victims. Riflettiamo bene sulle
parole di chiusura del film: “Se conoscessimo i nomi e le storie di chi
ha fatto i nostri vestiti, cambierebbe il modo in cui li produciamo e
indossiamo?”. Meditiamo...
A domani.
Mario
Mario
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