Oristano
12 Settembre 2018
Cari amici,
Che il sistema
pensionistico italiano non sia mai stato equo è una cosa da tempo nota: fin dai
tempi della prima Repubblica. In teoria compito del gestore di ogni Sistema Pensionistico dovrebbe essere quello di gestisce l’introito dei
contributi che ogni lavoratore versa (oggi all’INPS, ieri anche a diversi altri
Enti, allora gestori dei contributi versati dalle varie categorie di lavoratori), amministrandoli nel modo migliore fino al collocamento in pensione. Il montante di quanto versato da ogni lavoratore, poi, dovrebbe essere versato, sotto forma di rendita vitalizia (ed eventuale riversibilità) dal momento del collocamento a riposo e vita natural durante. Ma nel nostro sistema pensionistico questo teorema è
rimasto sempre e solo teoria, non essendo mai stato applicato.
Complice la ricerca di
consenso politico da parte dei governanti del secolo scorso, per molti anni in
Italia si è andati in pensione non con il così detto “sistema contributivo”, ma con quello “retributivo”, ovvero ancorato non ai versamenti realmente effettuati ma all’ultimo stipendio percepito dal
dipendente. Era anche prassi
corrente, infatti, in particolare nella Pubblica Amministrazione, “promuovere” al grado superiore il
dipendente alle soglie della pensione, facendo sì che egli potesse in questo
modo usufruire di una pensione ben più consistente di quella effettivamente dovuta.
In realtà, quando il sistema si
comporta come la cicala e non come la formica, la cassa si vuota facilmente! C’è un momento in cui i nodi
vengono al pettine e l'equilibrio prima vacilla e poi si spezza; allora pagare le pensioni (a causa delle tante “esagerate”) diventa praticamente impossibile. Che fare allora? Dopo non pochi
giochi di prestigio (in primis si è cercato di fagocitare il salvadanaio degli
Enti previdenziali "in attivo" extra INPS, accorpando tutte le pensioni proprio nell’INPS), si è
arrivati a stabilire, seppure con non poche eccezioni, un parziale "ritorno alla realtà", varando l’applicazione del
sistema contributivo a quelli ancora in attività lavorativa, non risolvendo, però,
del tutto il problema.
La lunga storia del
sistema pensionistico italiano non si può certo esaurire con queste mie poche
battute, considerato anche che l’INPS da tempo deve provvedere anche a “pagare”
qualcosa che non gli dovrebbe proprio competere: la cassa integrazione, per esempio, l'aiuto a chi perde il lavoro, che in
molti Stati grava direttamente sulle casse dello Stato. Ecco perchè oggi, si tenta di correre ai rimedi (quando i buoi, però, sono scappati dalla stalla) e, per
cercare di far quadrare il cerchio, si è partiti da un'operazione di facciata (giustissima certamente ma che non risolve di certo il problema), iniziando dal
taglio delle così dette “Pensioni d’oro”. Su questa particolare operazione, però, credo di dover
dire la mia, precisando alcune cose.
Nel confermare che sono
assolutamente favorevole al ‘taglio’ delle pensioni, se queste non sono frutto
dei contributi concretamente versati e per un periodo congruo, la regola d'oro è che il sistema deve venire applicato a tutti, in modo uniforme. Lo strombazzato taglio tanto
pomposamente proclamato dal Governo in carica (M5S e, più tiepidamente la
Lega), fu inizialmente reclamizzato legandolo al ricalcolo contributivo, ovvero ai contributi versati, Inizialmente il ricalcolo
avrebbe dovuto riguardare le pensioni superiori a 5.000 € netti al mese, poi
diventati rapidamente 4.000. Insomma, il ricalcolo contributivo appariva,
finalmente, come la chiave dell’equità!
Il Disegno di Legge
presentato di recente in Parlamento per l’applicazione, però, sembra ignorare questo
parametro “contributivo”, basandosi su altro, facendo in questo modo cadere il presupposto iniziale! Poco importa se i parametri di riferimento confliggono con quanto scritto nel contratto di governo e con le
multiple e ricorrenti dichiarazioni di Luigi Di Maio sul tema: “tagli… se non si sono versati i
contributi”. Il sistema proposto parla solo di una ri-parametrizzazione
delle pensioni più alte, basata unicamente sull’età di ritiro comparata con
l’età di pensione di vecchiaia vigente al momento del pensionamento,
indipendentemente da quanti contributi siano stato versati. Ma allora si doveva
o no andare verso un sistema pensionistico di equità? Misteri della politica...
Cari amici, come
ricordano Milena Gabanelli e Massimo Sideri sul Corriere della Sera, il sistema
pensionistico italiano appare come quello più duro e meno equo d’Europa; oggi
esso si basa su una profonda ingiustizia sociale, con l’applicazione di un
differente trattamento dei cittadini: da una parte quelli che sono andati in
pensione con il sistema retributivo o misto e dall'altra quelli che ci sono andati e,
soprattutto, ci andranno con quello contributivo. Che dire, poi, della futura
pensione che potrebbero percepire le persone che oggi hanno 30 o 40 anni? E i
nati dopo gli anni ’90 riusciranno mai ad assicurarsi una pensione degna di
questo nome?
In realtà alla fine una soluzione
dovrà necessariamente essere trovata, perché i dati reali del nostro Istituto
di Previdenza sono davvero molto seri: i dati relativi a quest’anno evidenziano
entrate per 227 miliardi e uscite per almeno 265 miliardi in prestazioni. Oggi
il buco da coprire e di poco inferiore ai 40 miliardi e domani? Ogni ulteriore commento
appare del tutto superfluo.
A domani.
Mario
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