Oristano, 23 ottobre 2023
Cari amici,
Oggi voglio andare con
Voi alla scoperta delle espressioni romanesche più diffuse. Quello romanesco è un dialetto che ha dei curiosissimi e arguti modi di dire. Ci sono tante
espressioni dialettali che, ancora oggi, giovani e meno giovani sono soliti
usare nel parlato comune. Ad esempio, espressioni “Come er cacio sui maccheroni”,
“A chi tocca nun se 'ngrugna”, “Si nun è zuppa è pan bagnato”, “Papale papale”,
“Avecce prescia”, “Sei 'na pila de facioli”, “Sta 'n campana”, “Nun t'aregge”,
“Beato chi c'ha 'n occhio”, “Stai a guardà er capello”, “Fa 'na figura da
peracottaro”, “Fa venì il latte alle ginocchia”, fanno ormai parte di un
linguaggio che possiamo definire universale, perché da Roma hanno volato per il mondo.
In realtà la gran parte
di queste espressioni hanno dietro una storia, spesso molto lontana nel tempo. Una
di queste espressioni, che è sempre molto usata e in voga, sia a Roma che fuori,
è un detto che all’apparenza risulta poco chiaro: “ESSE ER FIJO DELL’OCA
BIANCA”. Letteralmente in apparenza non vuol dire nulla, tanto che, anche
tradotto in italiano, sembra privo di senso. In realtà, invece, un significato
lo ha eccome, ma per scoprirlo bisogna fare un salto indietro nel tempo, cioè,
tornare con la mente ai tempi dell’antica Roma, periodo nel quale il detto
nacque e le motivazioni che lo crearono.
Le origini di questa
espressione le troviamo scritte nella Naturalis historia di Plinio e nel
De vita duodecim Caesarum di Svetonio, i quali raccontano il
particolare, miracoloso episodio accaduto alla nobildonna romana Livia Drusilla (siamo nel 58 a.C.). La nobildonna, divenuta successivamente Augusta per aver sposato in
seconde nozze Cesare (lei a 16 anni aveva prima sposato il cugino
patrizio Tiberio Claudio Nerone), un giorno, mentre si trovava fuori dalla sua abitazione, stava osservando un'aquila in volo, e questa, all'improvviso, lasciò cadere nelle sue braccia una gallina bianca che tratteneva nei suoi artigli.
Questo strano fatto fu ritenuto
straordinario, e, da allora, diventò un simbolo alquanto augurale, tanto che la
gallina bianca e tutti i suoi nati divennero sacri e allevati per trarne degli
auspici. Perché, oggi però, il detto parla dell’oca bianca e non della gallina
bianca? Come riporta l'enciclopedia Treccani, secondo le ipotesi più
consolidate, si tratterebbe di un'alterazione, avvenuta col passare del tempo, del
"figlio della gallina bianca", in latino "gallinae filius
albae", che col tempo divenne poi figlio dell’oca bianca.
Amici, figlio dell’oca
bianca o della gallina bianca in realtà poco importa! Cerchiamo invece di
capire il senso attuale di questo modo di dire romanesco "Ma che sei er
fijo de l'oca bianca?". Questa espressione, divenuta ormai luogo
comune anche ben oltre Roma, oggi la possiamo sentire tra i banchi di scuola
così come negli ambienti di lavoro o in famiglia, così come nella cerchia dei
nostri amici e conoscenti. Ma con quale significato? In primis quello di indicare “un
privilegiato”, uno che dimostra di ritenersi superiore agli altri, e per questo
pretende di fare quello che vuole o cerca di imporre la propria volontà.
Amici, personalmente conoscevo da tempo questa espressione, in quanto da ragazzo (parlo della prima metà del secolo scorso) era alquanto utilizzata anche in Sardegna. Ebbene, poteva capitare che qualcuno, dandosi delle arie, accampasse dei diritti che di certo non gli erano dovuti, e, a seguito di possibili insistenze, veniva redarguito in malo modo con la seguente espressione di rimprovero: "Ma ita ti creisi fillu de sa pudda bianca? La cui traduzione è "Ma tu credi di essere figlio della gallina bianca?"
Si, oggi l'espressione essere
il figlio dell'oca bianca è ormai alquanto diffusa, nonostante molti
dizionari la riportino solo come espressione di provenienza regionale; un modo
di dire, dunque, usato a largo raggio per definire quelle particolari,
antipatiche persone che, spesso senza merito, "godono (o si attribuiscono) una particolare
condizione di privilegio", rispetto a chi, invece, lo meriterebbe. L’espressione
è utilizzata dunque in senso dispregiativo, rimarcando che si ha che fare con
una persona che abusa dei vantaggi di cui gode rispetto ad altri.
Seppure quest’espressione
si usata in particolare nel linguaggio verbale, tempo addietro questo modo di
dire veniva anche usata spesso in forma scritta, anche all’interno di poesie.
Una volta fu usata addirittura dal grande Giuseppe Gioacchino Belli, uno dei più grandi
esponenti della poesia romanesca. Il suo sonetto 346 “Lotte a ccasa” così
recita: "Cor zu' bbravo sbordone a mmanimanca, / Du' pellegrini, a or de
vemmaria / Cercaveno indov'era l'osteria, /Perc'uno aveva male in d'una
scianca. // Ce s'incontra er zor Lotte, e jje spalanca / Er portone discenno:
"A ccasa mia" / E lloro je risposeno: "Per dia /Dimani sarai fio
de l'oca bbianca".
Cari amici, la gran parte
dei satirici modi di dire popolari hanno sempre un’origine che attesta la
saggia ironia delle classi popolari, che si vedono, spesso, sottratti
diritti che spetterebbero loro, ma che per mille ragioni vanno assegnati ad
altri, non certo per il dovuto merito! Succedeva ieri, succede oggi e credo succederà
anche in futuro!
A domani.
Mario
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