Oristano 11 marzo 2024
Cari amici,
Oggi la gran parte degli italiani osserva,
spesso con grande fastidio, il crescente arrivo di molti migranti, che a
frotte si riversano in Europa (la gran parte transitando dall’Italia) per
sfuggire alla fame ed alle guerre che massacrano i lori Stati di provenienza. Una reazione causata da timori e preoccupazioni spesso esagerate. Prima di esprimerci, però, dovremmo pensare (e...mai dimenticare)
che poco più di un secolo fa i “MIGRANTI” eravamo noi italiani, che in numero
considerevole abbandonammo la nostra patria per raggiungere il “Nuovo Mondo”,
ovvero l’America, in cerca di pane e lavoro.
L’emigrazione italiana,
in particolare quella verso gli Stati Uniti, assunse proporzioni imponenti tra
la fine dell’800 e la Grande guerra. In 15 anni, ai partire dai primi del 1900,
emigrarono dal nostro Paese oltre
3.500.000 persone, numero che poi si ridusse (a partire dagli anni ’20), quando
le restrizioni all’immigrazione fissarono dei limiti agli ingressi annuali negli
USA dall’Italia. In quei lunghi viaggi in nave senza ritorno, in quell'esodo
forzato “per fame”, i fanciulli e gli adolescenti erano numerosi, oltre ai
ragazzi e alle giovani donne che partivano da soli.
L’inserimento delle numerose famiglie italiane nel contesto americano non fu certo semplice, e la loro vita fu
inizialmente di pura sopravvivenza; riguardava un po’ tutti: adulti e ragazzi,
anche fanciulli e adolescenti, che, in qualche modo, dovevano ingegnarsi per riuscire
a dare una mano e contribuire al magro bilancio familiare. Erano bambini che in
Italia si erano lasciati alle spalle le fatiche del lavoro dei campi, oppure le
lunghe giornate trascorse al pascolo, per cui non trovarono delle grandi difficoltà ad
inserirsi in quei “lavori di strada” che le città americane potevano
offrire.
Un’indagine condotta dal New York Times nel 1914, sulle condizioni dei
piccoli italiani che operavano in strada, appurò, tra l’altro, che un bambino italiano di otto anni poteva
guadagnare, vendendo giornali per strada dopo la scuola, più di quanto avrebbe guadagnato in Italia se fosse rimasto a lavorare
nei campi l’intera giornata, e senza aver avuto neanche un momento per
divertirsi! I così detti “mestieri di strada”, oltre al “venditore
di giornali”, comprendevano il “lustratore delle scarpe dei signori”
dei ceti abbienti, e il “suonatore con l’organetto”.
A New York lo “SHOESHINE”,
ovvero il lustrascarpe, tanto diffuso nelle strade della Grande Mela, era una
figura che in passato incantò anche Stanley Kubrick, fotografo per la rivista
'Look' prima di diventare regista, e che nel 1946 realizzò la storia
fotografica dello 'Shoe Shine Boy', seguendo Mickey, un ragazzo dodicenne di
Brooklyn che lustrava scarpe per 10 centesimi l'una per aiutare economicamente
la sua numerosa famiglia. Era questo un mestiere che affondava le sue radici nel 19° secolo, con i lustrascarpe posizionati con le loro sedie alte in luoghi
strategici della città.
Anche da noi il grande
Vittorio De Sica, nel suo omonimo film del 1946 che gli valse l'Oscar al
miglior film in lingua straniera, prima pellicola ad aggiudicarsi il
riconoscimento, definì 'SCIUSCIÀ' i famosi 'shoeshine' della città di
New York, termine trasformato in napoletano per indicare i lustrascarpe di strada. Oggi questa
professione non esiste più, fagocitata dal progresso, da quella civiltà
dell’usa e getta, che non prevede migliorie all’esistente, ma solo un cambio
costante col nuovo, rovinando e inquinando anche l'ambiente.
Amici, questi lavori che
venivano svolti dai giovanissimi, per lungo tempo furono appannaggio dei figli
degli immigrati italiani, che a migliaia sbarcarono in quegli anni negli Stati
Uniti. Nelle grandi città, infatti, la vita era ben diversa da quella in Italia: ogni cosa doveva
essere acquistata sul mercato, i costi del mantenimento dei figli erano di gran
lunga più elevati di quelli dei paesi italiani di provenienza, in particolare
per le famiglie che arrivavano dalla campagna. Perciò, l’unica strada che rimaneva
da percorrere era quella di far contribuire al bilancio familiare anche i
ragazzi, seppure giovanissimi.
La vita di questi lavoratori in erba, seppure necessaria a garantire il minimo vitale alle
famiglie, era esposta a mille pericoli. Dall’esperienza della strada questi
ragazzi impararono a vivere di espedienti, organizzandosi anche in “bande”. La
vita trascorsa nelle strade, inoltre, esponeva i bambini anche ad abusi e
violenze. Si racconta la storia di Tino, un ragazzo italiano che capeggiava una banda di adolescenti a
Chicago e organizzava furti dai treni merci, che rimase paralizzato ad un braccio
per un colpo di pistola sparatogli da un guardiano.
Non stupisce, dunque, cari lettori, che
questi giovanissimi che lavoravano per le strade, fossero organizzati in bande.
L’esclusione sociale, il desiderio di rivalersi delle umiliazioni e delle
ristrettezze della vita, spinse molti di questi adolescenti a rifugiarsi nel “gruppo”, ad
organizzarsi in bande per conquistarsi dei margini di libertà. Era questa la prima “scuola
di strada”, da cui certamente uscirono i grandi nomi della "MAFIA americana", da New York a Chicago.
Cari amici, io credo che, quando guardiamo ai problemi di oggi, seppure importanti e impegnativi, non dovremmo mai dimenticare che anche noi siamo stati “MIGRANTI”, emigrati per fame, tra l'altro neanche tanto tempo fa! Pensate che è passato appena un secolo!
A domani.
Mario
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