martedì, giugno 04, 2024

“RICICLARE”, UN VERBO CON CUI CI RIEMPIAMO SPESSO LA BOCCA, MA SENZA DARE SEGUITO AI FATTI. IL TRISTE DESTINO DELL'ABBIGLIAMENTO USATO.


Oristano 4 giugno 2024

Cari amici,

A parole siamo tutti ecologisti! Nella gran parte delle città sono tanti i cassonetti gialli che invitano la popolazione a depositare l’abbigliamento usato che, una volta sanificato, dovrebbe avere una seconda vita. Abbigliamento destina a chi, purtroppo, certe spese non se le può permettere. In tanti rispondono positivamente, e spesso questi contenitori sono addirittura stracarichi. Ma ci siamo mai chiesti che fine fa, poi, tutto questo abbigliamento che viene ritirato dai camion delle imprese autorizzate? Come prosegue, poi, la catena del riciclo solidale? Purtroppo in maniera alquanto diversa da come la gran parte della gente pensa e crede!

Dopo che in tanti abbiamo depositato negli appositi cassonetti gialli l’abbigliamento, spesso in ottime condizioni (ce ne siamo liberati solo per il fatto di averli voluti cambiare perché ormai un po’ fuori moda o fuori stagione), abbiamo ingenuamente pensato che questi indumenti sarebbero stati proficuamente utilizzati da famiglie bisognose o, comunque, ben riciclati. La triaste realtà, però, risulta alquanto diversa da quella che noi pensiamo. Andiamo a vedere perché.

Per analizzare il grande problema dello smaltimento dell’abbigliamento usato, abbiamo chiesto l’aiuto di un esperto: il dottor Giuseppe Ungherese, giornalista e responsabile della Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. Abbiamo così scoperto che nel mondo il recupero e il riciclo di vecchi  tessuti è ancora decisamente marginale, tanto da non rappresentare al momento una modalità valida per calmierare i problemi che avrebbe dovuto risolvere. Greenpeace, infatti, ha affermato che meno dell’1% degli indumenti dismessi viene riciclato!

Come ha avuto modo di spiegare in dettaglio il dottor Ungherese, “Il riciclo degli abiti è abbastanza una chimera! I vestiti usati? Non è facile recuperarli. Sono in pochi a sapere che solo una piccola porzione dei vestiti usati, quelli portati nei cassonetti gialli della raccolta, viene effettivamente riciclata o consegnata ai bisognosi”. Stando ai dati raccolti dal Guardian, a livello mondiale, solo il 20% di tutti gli abiti raccolti finiscono effettivamente in opere di bene o venduti nei negozi di seconda mano. Ecco, invece, come viene gestito il considerevole resto.

Un recente Studio ha accertato che i vestiti non utilizzabili, ad esempio perché danneggiati, vengono termo-valorizzati, mentre per il resto, una piccola porzione è venduta a chili a società che, almeno in teoria, si dovrebbero occupare del loro smaltimento. E il resto? Purtroppo non è facile saperlo, poiché il percorso non prevede tracciabilità se non in poche organizzazioni d’eccellenza, ma potrebbero essere la causa di un forte inquinamento che si sta verificando in Africa. Si, perché, come afferma ancora Ungherese, “sono molti i passaggi e, perciò, la tracciabilità si perde. La realtà è che il grosso dei nostri abiti dismessi, va a finire in Africa, indipendentemente da quale sia la provenienza del suo canale europeo”.

Amici, da qualche anno diversi Paesi dell’Africa sono diventati dei grandi importatori di abiti usati. Solo il Ghana, ad esempio, importa ben 214 milioni di dollari di abiti usati ogni anno, grazie alle bassissime tasse d’importazione. Lo stesso accade anche in Kenya, ma dove finiscono tutti questi indumenti? Il percorso è alquanto complesso e sotto certi aspetti misterioso, in quanto in questi Paesi non è facile seguire l’intero processo. Sappiamo che una parte di questo abbigliamento, donato dei Paesi del Nord del mondo, vengono aggregati in balle e venduti al chilo a trader ghanesi o kenioti; di ogni singola balla, meno del 40% dei capi viene rivenduto localmente o donato ai poveri. Il resto viene perlopiù gettato in luoghi naturali trasformati in discariche a cielo aperto. Uno degli esempi più eclatanti è quello del mercato di Kantamaro, ad Accra. Qui ogni giorno arrivano centinaia di tonnellate di capi, di cui 100, ogni giorno, vengono gettate come rifiuti.

Ci si chiede: “Ma chi sono i soggetti responsabili dell’inoltro di questi abiti in Africa, dei veri e propri “regali avvelenati”, come emerge dal report Poisoned Gift di Greenpeace, condotto in Kenya? “È molto difficile risalire all’esatta provenienza dei singoli capi di abbigliamento, è molto complicato”, sottolinea sempre Ungheresi. In altre parole, egoisticamente, i Paesi ricchi del mondo stanno delegando a quelli meno sviluppati l’onere di smaltire i propri rifiuti tessili. “Noi andiamo a scaricare le conseguenze di una produzione insostenibile su altri Paesi”. aggiunge Ungherese. “È come se noi decidessimo di spazzare il pavimento della nostra casa, per poi nascondere tutto quel che raccogliamo sotto lo zerbino davanti al portone”!

Il problema del riciclo, amici, al momento viene in gran parte affrontato solo a parole. Se abbiamo difficoltà noi, a trovare soluzione, immaginiamoci se il problema lo si risolve scaricandolo a quei Paesi  che non hanno nessuna struttura in grado di farlo! E quindi è un problema veramente serio, che andrebbe arginato, perché dovrebbero essere impedite queste esportazioni all’estero, che risultano altamente inquinanti. Per ora, la triste realtà è che la circolarità, di cui a parole ci riempiamo la bocca, è qualcosa che praticamente non esiste nel settore!

Cari amici, il problema del riciclo è più serio di quello che crediamo, per cui l’ultima cosa da fare è proprio quella di giocare a scaricabarile, perché una volta che il mondo sarà totalmente inquinato, nessuno si salverà!

A domani.

Mario

 

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