Cari amici,
In periodi di
particolare austerità come quelli che stiamo vivendo, credo che la spendita dei
soldi pubblici debba essere ancora più oculata che in tempi ordinari. Stante questo,
se ci soffermiamo sulle spese sostenute in passato nel settore immobiliare (recupero di
edifici storici, o di importanti reminiscenze del passato), questi esborsi
dovrebbero essere finalizzati, una volta portato a termine il recupero, alla conseguente
naturale fruizione del bene rimesso in pristino da parte della cittadinanza.
Semplice e facile a dirsi, ma, a quanto pare, molto più difficile a farsi.
Credo che la questio non riguardi solo Oristano,
ma sia ampiamente diffusa, anche se Oristano non è certo, in questo campo,
seconda a nessuno. Fare l’elenco delle diverse opere praticamente lasciate a
metà, oppure portate a termine e rimaste poi inutilizzate, imbalsamate, sarebbe
troppo lungo: bastino per questa riflessione solo le più eclatanti: il grande
immobile dell’ex mercato del bestiame in “Pratz’e is bois", mai nemmeno
inaugurato, e il prestigioso palazzo Arcais, nella via principale della citta,
Corso Umberto, ben più noto come Via Dritta. Proprio su quest’ultimo oggi
voglio soffermarmi in particolare, in quanto la sua storia merita davvero una considerazione a
parte.
Di questo antico
palazzo padronale in città (dopo l'acquisizione da parte dell'Amministrazione Provincale) si è parlato a lungo: farne in primo luogo la sede
di rappresentanza della Provincia di Oristano, trasformarlo in un secondo tempo in museo della
Sartiglia, e molto altro ancora. Però, di tutto questo niente appare oggi all’orizzonte.
Tramontata, ormai, la Provincia, che ha problemi ben più complessi che
occuparsi della sede di rappresentanza, il futuro di questo palazzo appare
sempre più incerto e fumoso e, proprio per questo, continua nel tempo la sua
praticamente eterna chiusura, salvo qualche rara manifestazione collegata alla Sartiglia.
Un vero peccato, in quanto l’aristocratica dimora degli Arcais meriterebbe ben
altro prestigioso utilizzo. In attesa della futura destinazione, rivediamo insieme, almeno, la storia di questo nobile palazzo.
Oristano nel 1.700 era
ancora un borgo contadino, fatto di casette modeste (poche quelle col piano superiore)
costruite in gran parte con l’utilizzo di mattoni crudi. Il centro, dove
abitava la ricca borghesia contadina, annoverava le case più importanti, e in
questo contesto Don Damiano Nurra Concas, marchese d’Arcais (il nome Arcais gli
venne assegnato dal Re Vittorio Emanuele III nel 1767, in quanto Don Damiano
era proprietario di numerose peschiere nella zona di Zerfaliu chiamate Arcais
Manna e Arcais Pittia) costruì il sontuoso palazzo di cui stiamo parlando,
dotandolo di tre piani (il primo realizzato all’epoca ad Oristano), dove spiccava
tra le case piccole, basse, poste su un solo livello.
Il sontuoso palazzo
padronale fu dotato anche di una bella cupola policroma: a realizzare il tutto
fu il celebre architetto piemontese Giuseppe Viana, un ingegnere militare arrivato
in Sardegna nel 1771. Il Viana realizzò diverse interessanti opere in Sardegna,
anche nel capoluogo, a Cagliari (come l’ex Seminario tridentino e N. S. di
Bonaria), ma in particolare operò ad Oristano, dove progettò il grande
complesso conventuale dei Carmelitani (1776 – 1785), commissionatogli proprio dal
Marchese Don Damiano Nurra. Quest’opera, e in particolare la bella Chiesa del
Carmine definita da Maltese un vero gioiello del rococò italiano, consentì al
Viana di ottenere il titolo di Architetto Regio da parte del Collegio degli
Edili di Torino.
Nello stesso periodo di
operatività in terra d’Arborea il Viana realizzò per il Nurra anche la sua
bella dimora familiare, strutturandola su tre piani. Al piano terra venivano ricevuti
gli ospiti, che poi, attraverso l’ampia e gradevole scalinata, si recavano al piano
superiore dove Lui alloggiava e viveva con la famiglia. All’ultimo piano (il
terzo) invece, risiedeva la servitù e vi erano le cucine. L’ampia dimora fu
dotata di 30 stanze, fra le quali, pensate, una destinata persino al cane di Don
Damiano. Una della particolarità del palazzo è proprio la bella cupola
policroma, visibile da molti punti della città. Nel cosiddetto piano nobile si
affacciano sulla Via Dritta quattro eleganti balconcini semicircolari chiusi da
parapetti in ferro battuto lavorato; gli stipiti di porte e finestre che si
affacciano sulla Via Dritta sono in trachite rossa, compreso l’oculo ottagonale
che sormonta l’ingresso principale che illumina l’atrio. Ampio il cortile che
si affaccia sulla Piazzetta Corrias.
La storia del palazzo,
fino ad arrivare all’attuale proprietario (la Provincia), ha visto, dopo la
morte di Don Damiano, il passaggio al nipote, Don Francesco Flores d’Arcais, dal
quale passò al Generale Poddighe e successivamente alla famiglia Siviero. Da
questa famiglia, nel 1983, lo acquistò la Provincia per farne la sua sede di
rappresentanza. A questo punto, visto che la dimora patrizia è sempre
inesorabilmente chiusa, sorge spontanea una domanda: Quale futuro dare a questo
bene, acquistato con il pubblico denaro, senza che si possa altrimenti parlare
di un grande spreco? Difficile rispondere.
Certo, si può
continuare a pensare di farne un polo museale, così come si possono fare tante
altre ipotesi! Per esempio il palazzo potrebbe diventare una sede
espositiva permanente, ma anche un multi-spazio dove allocare diverse attività
nel campo delle nuove professioni: space sharing, coworking e quant’altro. L’importante,
però, è smettere, nel più breve tempo possibile, di tenere ‘chiusi in naftalina’
i tanti spazi importanti di proprietà pubblica. Questo vale certamente non solo
per palazzo Arcais…ma per tanti altri, che oggi sono solo un monumento allo
spreco ed all’incapacità dei pubblici amministratori nella gestione del bene
comune. Riusciranno i nostri occhi a vedere in tempi brevi qualche cambiameto?
A domani.
Mario
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