lunedì, marzo 18, 2024

FRITTATA DI RISO CON VERDURE, LA SAPORITA RICETTA VEGETARIANA (PER QUELLI CHE MANGIANO UOVA E FORMAGGIO) FACILE DA REALIZZARE, SANA E NUTRIENTE.


Oristano 18 marzo 2024

Cari amici,

Oggi voglio voglio dialogare con Voi di cucina. Ogni tanto meglio lasciar perdere le riflessioni filosofiche per pensare a qualcosa di buono e saporito da mangiare! Oggi, perciò, voglio consigliarvi un bella ricetta preparata col riso, che, oltre che essere buona e nutriente, può anche consentire di recuperare del riso bollito avanzato, oltre che soddisfare le esigenze di chi è vegetariano, ovviamente quelli che  seguono una dieta latto-ovo-vegetariana, ovvero che consumano latticini e uova. La ricetta che voglio proporvi è “LA FRITTATA DI RISO E VERDURE”, che, oltre al riso, utilizza uova, formaggi, diversi tipi di verdure, aromi, etc. Prepararla non è difficile, e, credetemi, anche il tempo necessario per realizzarla non è eccessivo. Ecco per Voi la ricetta con le dosi per 4 persone.

INGREDIENTI: 400 gr. di riso (io uso il CARNISE dell’azienda Falchi di Oristano), 4 uova, 300 gr di mozzarella, 150 gr di parmigiano grattugiato, 200 gr. di dolce di Arborea, 4 zucchine, 4 carote, 2 gambi teneri di sedano, una cipolla bianca piccola, olio EVO, sale, aromi Q.B.

PREPARAZIONE. Iniziate lessando il riso in acqua poco salata (se per caso avete del riso lessato avanzato dal giorno prima va bene uguale), poi scolatelo e versatelo in un pentolino condendolo con olio EVO e tenendolo da parte.

Preparate ora le verdure da lessare; dopo aver lavato le zucchine, le carote, il sedano, la cipolla e averle ripulite delle eventuali bucce, mettetele a lessare in acqua salata. Scolatele poi per bene e mettete le verdure lessate in una terrina, versandoci sopra un filo d'olio EVO. Prendete ora le mozzarelle, tagliatele a cubetti, poi il dolce di Arborea, tagliandolo sempre a cubetti. Dopo aver tagliuzzato le verdure, aggiungete i formaggi  e passate il tutto con il frullatore, creando una corposa crema. Sbattete ora le uova in una ciotola aggiungendo il parmigiano grattugiato, il sale e gli altri aromi a vostro piacere.

Prendete ora una ciotola capiente (magari di vetro) e iniziate a versarci il riso lessato, il composto di verdure e formaggi e le uova sbattute insieme al formaggio grattugiato, amalgamando il composto con un cucchiaio di legno fino a renderlo uniforme. Dopo aver preparato una padella antiaderente, versateci il contenuto della ciotola distribuendo per bene l’impasto e pressandolo in modo uniforme. Iniziate a cuocere a fuoco medio-basso per 20 minuti circa con un coperchio, finché non si sarà formata una crosticina dorata alla base. Girate poi la frittata capovolgendola con l'aiuto di un coperchio e facendola cuocere per altri 10 minuti dall’altra parte finché non si sarà dorata anche dall'altro lato.

Amici, siete arrivati al termine della Vostra fatica: spegnete ora il fuoco e lasciate raffreddare (la frittata, se volete, potrà essere mangiata a spicchi anche fredda), servendo la frittata a tavola su un capiente piatto di portata, magari tagliata a spicchi, guarnita eventualmente con qualche fogliolina di basilico, se gradito. Sicuramente è un piatto buono e gustoso, che potrete accompagnare con un fresco vino frizzante, come un Nieddera Rosé della Valle del Tirso. Buon appetito.

A domani, amici.

Mario

domenica, marzo 17, 2024

LA BRUTALE CARNEFICINA DEGLI ASINI! IL MOTIVO? PER PRODURRE UN'ANTICA MEDICINA CINESE, “L’EJIAO”, CONSIDERATO UNA SPECIE DI “ELISIR MIRACOLOSO”.


Oristano 17 marzo 2024

Cari amici,

Continua anche nel Terzo Millennio, DOPO TANTI SECOLI, una terribile carneficina che riguarda i poveri asini, sacrificati per produrre L’EJIAO, una sorta di “elisir miracoloso” che sin dall’antichità fa parte della tradizione popolare cinese. Si, amici lettori, un vero e proprio massacro, che vede ogni anno sterminare circa sei milioni di asini per poter soddisfare la crescente richiesta di un particolare, antico rimedio popolare, l’EJIAO, un prodotto gelatinoso ricavata dalla pelle degli asini.

L’utilizzo dell’EJIAO risale a circa duemila anni fa, quando i suoi benefici erano appannaggio esclusivo della famiglia imperiale, mentre oggi è esteso agli appartenenti alla fiorente classe media cinese. Il Daily Mail Online attribuisce la maniacale popolarità dell’ejiao a un potente mix di snobismo, superstizione e propaganda di Stato e racconta come la mitologia che circonda l’elisir impone che le pelli d’asino siano bollite solo durante i mesi invernali. Sulla base di questa credenza, l’ejiao più efficace è quello preparato durante il Dongzhi, come i cinesi chiamano il solstizio invernale.

La mistura preparata in questi tre giorni è quella che raggiunge il prezzo più alto sul mercato, tanto che una barretta da 250 grammi (8,8 once) di cereali infusi con l’ejiao può arrivare a costare oltre 3mila euro. Non stupisce dunque, che dopo aver falcidiato la popolazione asinina della Cina, le industrie farmaceutiche locali per produrre una quantità sufficiente di ejiao abbiano rivolto la loro attenzione all’Africa, dove la popolazione di somari gode ancora di ottima salute.

Con questo antico rimedio popolare, i manager cinesi utilizzano l’ejiao per curare le emorragie, riequilibrare l’energia vitale dello ying e dello yang e, recentemente, anche per combattere l’invecchiamento e aumentare la libido. Seppure ritenuta da millenni una “pozione miracolosa”, c’è da dire che non è riconosciuta dalla medicina ufficiale, ma, ciò nonostante, la richiesta continua a crescere, a scapito, ovviamente di milioni di incolpevoli animali che vengono sacrificati. A rivelare recentemente anche all’Occidente questa barbarie è l’ultimo rapporto realizzato dall’organizzazione britannica “The Donkey Sanctuary”, intitolato “Donkeys in global trade”.

Tale è la convinzione dell’efficacia dell’EJIAO che nel 2016 e nel 2021, la produzione è aumentata del 160%, crescita che, come si legge nell’indagine condotta da Donkey Sanctuary, entro il 2027,  gli asini sterminati avranno raggiunto la cifra di 6,7 milioni, causando il rapido declino della popolazione di asini in Cina. I commercianti di pelli, però, non si arrendono: hanno messo a punto una vera e propria organizzazione criminale, prendendo di mira gli esemplari più vulnerabili e le comunità che dipendono da loro, nei Paesi dell’Africa, dove questi animali sono ancora numerosi.

Il massacro di 6 milioni di asini ogni anno è un vero disastro, se pensiamo che gli asini sono un’ancora di salvezza per le persone che vivono in alcuni degli ambienti più difficili della terra, dove la perdita di un asino può fare la differenza tra una modesta sopravvivenza e la miseria. Come ha affermato Marianne Steele, CEO di The Donkey Sanctuary, gli asini sono rimasti invisibili nel dibattito politico per troppo tempo. Affinché questa problematica arrivi ai  più alti livelli decisionali in Africa e Brasile, si deve riconoscere la portata e la brutalità del commercio di pelli e il ruolo vitale degli asini in tutto il mondo.

Ci si chiede: come si può rimediare a questa carneficina? Il rapporto prima citato ha messo in evidenzia come la richiesta crescente di ejiao potrebbe essere soddisfatta utilizzando metodi umani e sostenibili, per esempio incoraggiando i produttori di ejiao a fermare la macellazione e a porre fine al commercio della pelle degli asini, abbandonando l’uso del collagene proveniente dalla pelle degli asini veri, utilizzando il collagene prodotto nei laboratori, dove viene ricavato con i processi di coltivazione cellulare. Indubbiamente potrebbe essere una soluzione, oltre a rappresentare una maggiore sicurezza, frutto della tecnologia più sicura, più pulita e umana, oltre ad evitare l’inutile crudeltà praticata sui poveri animali incolpevoli, sfruttati solo per ricavare collagene dalla loro pelle e soddisfare certe nostre credenze.

A domani.

Mario

sabato, marzo 16, 2024

IN SARDEGNA C'È CHI CERCA DI SALVARE UN’ANTICA ARTE, ORMAI IN VIA DI ESTINZIONE: “FARE I CESTINI” COME IN PASSATO. FRANCO DENTE È UNO DI QUESTI. ECCO LA SUA STORIA.


Oristano 16 marzo 2024

Cari amici,

Qualche giorno fa ho letto, con vero piacere, sulla NUOVA SARDEGNA un interessantissimo articolo della giornalista Serena Lullia su un certo Franco Dente, di Berchidda, che, con grande passione, cerca di rivitalizzare, insegnandolo ai giovani, l’antica arte di “FARE I CESTINI”, arte che, a dire il vero, è praticamente quasi scomparsa. Era questa un’arte di grande importanza, prima dell’avvento della plastica, e da noi in Sardegna i cestinai erano numerosi e adeguatamente remunerati. La storia di Franco Dente, sapientemente raccontata da Serena Lullia, è alquanto particolare e pure complicata, e di certo merita di essere raccontata.

Franco Dente nasce a Berchidda, piccolo paese della Gallura, da una famiglia contadina che ha una grande passione per l’intreccio; il nonno materno di Franco e lo zio, infatti, a Berchidda erano gli unici artigiani che costruivano i cestini. Anche il papà, una volta lasciata l’attività della campagna, si appassionò all’arte dell’intreccio, e Franco proprio da lui imparò i primi segreti; segreti, però, rimasti nella fase iniziale, perché a 24 anni Franco decide di emigrare. A Berchidda aveva fatto la terza media, e, dopo aveva iniziato a lavorare come falegname, mestiere che, seppure gli piaceva, non intendeva svolgerlo a vita alle dipendenze di altri. Avrebbe voluto, infatti, mettersi in proprio, ma per farlo gli mancava la liquidità necessaria (all’epoca avviare una falegnameria costava circa 50 milioni di lire).

La sua decisione fu quella di andare in Germania, in quanto riteneva di avere una buona opportunità: vi  erano alcuni suoi cugini che lavoravano in quello Stato e, tramite loro, al suo arrivo avrebbe certamente trovato un lavoro. Fu assunto in una fabbrica della zona della Rhur. dove si producevano turbine per centrali nucleari; vi rimase circa 12 anni. «Arrivai senza conoscere il tedesco e all’inizio fu difficile. A farmi sentire a casa ci pensava però la bella comunità sarda e il circolo dei sardi. Avevamo anche una squadra di calcio», raccontò al suo ritorno nell’Isola.

Da sardo verace la Sardegna gli era rimasta nel cuore, in particolare il legame con la sua Berchidda, dove tornava almeno una volta all’anno per incontrarsi con i suoi genitori. Nel 1993 decise di lasciare la fabbrica e, con il gruzzoletto messo da parte, riuscì a comprare una gelateria. Così racconta Franco: «era un’attività che in Germania funziona benissimo, ancora di più con una gestione italiana. L’ho tenuta fino al 2002. Negli ultimi 20 anni ho fatto il rappresentante di prodotti per gelati. Un lavoro che mi permetteva di tornare al paese anche due volte all’anno. Negli ultimi cinque lavoravo a casa, da Berchidda, da ottobre fino a febbraio».

La possibilità di lavorare da casa gli consentì, in particolare nel periodo del Covid, di trascorre molto tempo nel paese gallurese, insieme al padre ormai quasi centenario. Nel famoso periodo delle restrizioni imposte dal lockdown, che imponeva di restare chiusi in casa senza frequentazioni, Franco ebbe un’idea geniale: chiese al padre di insegnargli per bene l’arte di fare i cestini. Detto fatto:  Iniziò così ad andare nella campagna della famiglia, distante circa un chilometro dal paese, per procurarsi tutto il materiale naturale di cui necessitava.

Iniziò così a perfezionarsi nell’arte dell’intreccio, grazie agli insegnamenti del papà. Ecco come Franco descrive l’apprendistato: «Ho cominciato a intrecciare, con papà: Lui non aveva più tanta forza nelle dita e faceva cestini piccolini. Ma mi ha insegnato come fare il fondo fino ad arrivare al manico; era una tradizione di famiglia: il mio nonno materno e mio zio, erano gli unici artigiani di cestini a Berchidda. Papà era contadino, aveva cominciato a intrecciare quando era andato in pensione, come passatempo, senza che qualcuno glielo avesse mai insegnato. Anche io ho cominciato così, un po’ guardando lui, un po’ andando a tentativi».

Quest’arte, retaggio di famiglia, lo appassionò in modo forte: il primo esperimento di cestino non fu felice, ma non si diede per vinto. Franco riprovò con un secondo e poi con un terzo, venuto abbastanza bene, tanto che decise di pubblicare la foto sul suo profilo Facebook. Incredibilmente ricevette tanti consensi. « Da allora è diventato un hobby, una passione che mi aiuta a meditare», ha raccontato commosso Franco. Ora, amici, Franco, dopo 41 anni trascorsi in Germania è tornato nel suo amato paese, Berchidda, dove con l’antica arte dell’intreccio cerca di  tenere viva la tradizione!

Franco Dente ha voluto mantenere viva l’autentica tradizione dell’intreccio: utilizza i materiali usati nel passato, come olivastro, salice a volte sbucciato, canna mediterranea, midollino. A volte usa anche il mirto, che dona ai cestini un profumo che dura negli anni. Col tempo ha apportato anche piccole modifiche, dando ai cestini realizzati una sua particolare impronta personale.  Il manico, per esempio, che per tradizione viene fatto a treccia, lui lo realizza a due fili, innovazione che considera un po’ la sua firma. È un lavoro che richiede pazienza e la giusta dose di forza.

Franco realizza le sue opere con capacità e sapienza: quattro ore sono il tempo medio per realizzare un cestino, creato senza bozze su carta, ma solo col disegno creato dalla sua mente. Sono creazioni “Bio 100% e a chilometro zero”. Usa solo materiali naturali, fedele all’antica tradizione. Per lui è un lavoro che lo appaga, che lo gratifica, Piano piano, intreccio dopo intreccio, le sue mani creano, e nella sua mente i pensieri cattivi si volatilizzano, diventando gioiosamente positivi, appagati dal risultato ottenuto. Una cosa Egli si augura: che l’arte dell’intreccio non vada perduta, che altri, come lui, riescano a conservare e tramandare, anche alle nuove generazioni, un’arte che non deve morire.

Cari amici, anche io mi auguro che dei giovani capaci, con l’aiuto degli anziani, riescano a salvare e conservare le nostre belle tradizioni che altrimenti andrebbero perdute!

A domani.

Mario

  

venerdì, marzo 15, 2024

L'UOMO, PER INVECCHIARE BENE E PIÙ A LUNGO DEVE IMPARARE DAL PIPISTRELLO! NEL SUO DNA IL SEGRETO DELL’INVECCHIAMENTO.


Oristano 15 marzo 2024

Cari amici,

Se è pur vero che la specie umana, grazie alla medicina, sta facendo grandi progressi nell’allungare la vita che sempre più spesso supera il secolo come durata, è anche vero che, di pari passo, non è migliorato lo stato di salute, che, con l’avanzare dell’età, presenta molte problematiche anche di autonomia. Il problema da risolvere non è solo l’aumento della durata della vita, ma anche “l’invecchiamento sano”, ovvero  lo star bene ed in autonomia negli anni della senilità, che fortunatamente continua ad allungare la sua durata.

Si, amici, nel mondo la popolazione continua a crescere, e la vita media si allunga, ma spesso la maggiore durata non è qualitativamente rilevante, essendo gli acciacchi capaci di condizionarla negativamente.  Molti studiosi cercano di capire le reali motivazioni che portano il fisico alla vecchiaia, e i più recenti studi hanno messo in luce che ci sono animali, come i pipistrelli, che, forse, potrebbero darci luna mano a trovare le risposte che cerchiamo.

I pipistrelli, questi piccoli mammiferi, tra l’altro poco simpatici, sono noti per la loro grande capacità di resistenza alle patologie; pensate che possiedono dei veri e propri super-poteri, nel senso che sono capaci di vivere fino a 40 anni, l’equivalente di due secoli per un essere umano!  Inoltre, superato il primo periodo di formazione dopo la nascita, restano praticamente identici, senza nessun segno di vecchiaia, nel senso che l’individuo giovane non è distinguibile da quello adulto, seppure con tanti anni di vita già vissuta. I pipistrelli, dunque, sembra che non conoscano proprio la vecchiaia!

Gli studi su questo curioso animale, che pare, appunto, non conoscere la vecchiaia, hanno appurato che uno dei segreti sta nella loro perenne capacità di smaltimento delle proteine e delle altre molecole ormai inutilizzate dalle cellule. Mentre nell’essere umano questa capacità di eliminazione col passare degli anni rallenta, nei pipistrelli si mantiene efficiente lungo tutto il corso della loro vita. Nelle nostre cellule “giovani” la pulizia dei ‘rifiuti’ funziona molto bene, ma con l’avanzare dell’età, con l’invecchiamento, il materiale di scarto si accumula, provocando nell’organismo danni di vario genere. È lo stesso principio alla base di alcune malattie come l’Alzheimer e il Parkinson.

Amici, gli scienziati ritengono che i geni di riparazione del DNA presenti nei pipistrelli potrebbero essere la chiave per comprendere ed eventualmente correggere il nostro processo di invecchiamento. Particolari studi in corso hanno preso in esame i “telomeri” (sono le parti terminali dei filamenti di DNA che proteggono i nostri cromosomi) di quattro specie diverse di pipistrelli selvatici, per determinare il loro eventuale ruolo nella longevità del pipistrello.

Tra i mammiferi, i pipistrelli rappresentano la specie più longeva in rapporto alle dimensioni corporee. Utilizzando molti dei dati ottenuti in oltre 60 anni di studi sul campo, il gruppo responsabile del progetto ha cercato di scoprire se i telomeri si accorcino o meno con l'età nelle diverse specie di pipistrelli: Rhinolophus ferrumequinum, Miniopterus schreibersii, Myotis bechsteinii e Myotis-myotis.

Nei pipistrelli Myotis-myotis, a differenza delle altre specie, con l'avanzare dell'età i telomeri restavano efficienti, senza ridursi, in quanto in possesso di alcune particolari cellule capaci di combattere l'accorciamento dei telomeri, esprimendo la telomerasi, un enzima che estende i telomeri dei cromosomi. Gli studi ora cercano di portare anche nel corpo umano il mantenimento della lunghezza dei telomeri, senza il coinvolgimento della telomerasi, che è particolarmente importante per gli esseri umani, in quanto l'espressione della telomerasi è presente in circa il 90% dei tumori umani.

Cari amici, Il progetto AGELESS (Comparative genomics / ‘wildlife’ transcriptomics uncovers the mechanisms of halted ageing in mammals) intende contribuire ad approfondire la comprensione dei meccanismi che i pipistrelli hanno sviluppato nel tempo per garantirsi la longevità. È questo è sicuramente un altro grande passo che avvicina gli scienziati allo scoprire come arrestare l'invecchiamento umano e, di conseguenza, alleviare le malattie legate all'avanzare dell’età nell'uomo.

A domani.

Mario

giovedì, marzo 14, 2024

TEMPI PASSATI...QUANDO IL PERSONALE DELLE FERROVIE E DELLE STRADE NAZIONALI (ANAS) ABITAVA SUL LUOGO DI LAVORO.


Oristano 14 marzo 2024

Cari amici,

Seppure in gran parte oramai disabitate, sono ancora tante e in buon stato le “STAZIONI FERROVIARIE” presenti lungo le strade ferrate, oltre ai caselli per l’apertura delle sbarre agli incroci delle strade ordinarie, così come le “CASE CANTONIERE DELL’ANAS”, costruite nel secolo scorso ai bordi delle strade statali su tutto il territorio nazionale. Rappresentano le tracce indelebili di un passato ben presente nella memoria degli anziani, mentre oggi destano, curiosità mista a commiserazione, nella schiera dei giovani che scuotono la testa al pensiero del solitario svolgersi della vita di una volta, trascorsa in ristrettezze e solitudine in questi edifici costruiti ai bordi dei linee ferroviarie e delle strade principali del nostro Paese.

Da noi in Sardegna la rete ferroviaria prese il via nel1863 con la costituzione della Compagnia Reale delle Ferrovie Sarde, avvenuta a Londra il 2 Giugno 1863. L’Ingegnere inglese Benjamin Piercy venne nominato progettista e responsabile tecnico della costruenda ferrovia, e ancora oggi di questo importante personaggio inglese, noi sardi possiamo ammirare la sua casa sarda, “VILLA PIERCY”, posta al centro di una meravigliosa tenuta a Badd’e Salighes. il 1° Maggio del 1871 venne inaugurato il primo tratto della linea ferroviaria che andava da Cagliari a Villasor e la locomotiva che fu utilizzata portava il nome di Ichnusa.

La realizzazione di una linea ferroviaria prevedeva, per il suo regolare funzionamento, oltre la posa dei binari, la costruzione di tutta una serie di immobili: dalle stazioni di partenza e di arrivo dei passeggeri ai caselli, dislocati all'incrocio delle strade per l'apertura e chiusura dei passaggi a livello; locali che il personale utilizzava non solo per lo svolgimento del servizio ma anche come residenza per se e la famiglia. Si, amici, in un passato non poi così lontano la vita lavorativa e quella familiare non avevano grandi differenze: si lavorava, si mangiava e si dormiva, praticamente sul luogo di lavoro! Mio nonno materno Domenico Serra, “sorvegliante” delle Regie Ferrovie, abitò con la famiglia per un lungo periodo nei diversi caselli ferroviari, dal Cagliaritano fino al Sassarese, e la moglie, nonna Giuseppina Atzori (Peppica), pensate, ebbe, a volte anche da sola, nei diversi caselli ferroviari, ben 12 figli!

Nella stessa identica situazione si trovava nella prima metà del secolo scorso il personale che operava nelle strade nazionali gestite dall’ANAS; lavoratori che anch’essi abitavano con la famiglia praticamente “sul luogo di lavoro”, ovvero nelle “Case cantoniere”, costruite ai bordi delle strade di cui dovevano occuparsi. Indubbiamente era una vita piena di grande solitudine, se pensiamo che in queste abitazioni non c’era la luce elettrica, la rete idrica (in ogni cantoniera vi era una cisterna che veniva riempita ogni mese) e ovviamente senza possibilità di comunicare, mancando il telefono! In caso di malattie, si raggiungeva in bicicletta il paese più vicino per chiamare un medico.

Amici, ho vissuto anche personalmente le difficoltà di abitante delle case cantoniere, perché, come figlio di dipendente dell’ANAS, ho trascorso diversi anni in due cantoniere, prive come detto di luce elettrica, acqua corrente e riscaldamento; per studiare usavo il lume a petrolio o le candele, e calmavo la sete non certo bevendo l’acqua minerale in bottiglia ma quella della cisterna, preventivamente bollita; l'unico riscaldamento era un modesto focolare, che bruciava la poca legna che si reperiva in campagna. La lontananza dai centri abitati, inoltre, costringeva le famiglie dimoranti nella solitaria cantoniera a coltivare e gestire un orto  per avere le verdure, un pollaio per allevare le galline o un locale per l'allevamento dei conigli, oltre a curare qualche albero da frutto! Insomma in questo modo si realizzava quel vero, realistico progetto alimentare chiamato oggi “a chilometro zero”!

Era indubbiamente una vita di sacrifici, che la generazione di oggi di certo non sarebbe disposta ad accettare, convinta che sia possibile avere tutto e subito, ignorando l’impegno e la fatica della generazione precedente, che ha costruito quel benessere di cui oggi essi godono! Quella di oggi è una nuova generazione irriconoscente, che sottovaluta i grandi sforzi fatti dalla generazione che li ha preceduti, che con fatica ha ricostruito l’Italia uscita dalle macerie della guerra, che è vissuta senza agi, spesso mancante anche del pane, con i ragazzi cresciuti senza avere un pallone per giocare o le bambine di una bambola; una generazione che non avrebbe mai nemmeno potuto sognare gli agi di cui i giovani godono oggi! Dovrebbero solo riflettere, prima di dichiarare il loro scontento!

Cari amici, tornando a questi numerosi immobili presenti sia nella rete ferroviaria che in quella stradale (sono diverse migliaia), costruzioni che rappresentano la storia dell’Italia e che ancora oggi (tanti in ottimo stato di conservazione) conservano la pianta e l’architettura di quell’epoca, ci si interroga sulla loro possibile "nuova destinazione" (conservandone in primo luogo l'originaria architettura), con un utilizzo consono ai bisogno della nostra epoca.

La società Rete Ferroviaria Italiana ha pensato di destinare questi ex spazi abitativi a nuovi utilizzi di pubblica utilità. Sono stati sottoscritti quasi 1500 contratti di comodato d’uso gratuito in favore di: associazioni culturali, circoli che organizzano eventi pubblici (concerti, corsi, mostre e presentazioni), Enti di volontariato, operanti nel terzo settore, Comuni per l’allestimento di biblioteche di paese e anche come centri di accoglienza di migranti per la gestire delle situazioni di emergenza.

Anche l’ANAS ha deciso nella stessa direzione. Con un accordo sottoscritto dall'Anas con il Ministero delle Infrastrutture (MIT), il Ministero dei Beni Culturale (MIBACT) e il DEMANIO, le case cantoniere ormai dismesse, dopo una riqualificazione e un'adeguata sistemazione, saranno adibite a scopi turistico culturali. Le cantoniere, dall’inconfondibile colore rosso pompeiano, diventeranno un brand formidabile per promuovere quel turismo sostenibile necessario allo sviluppo sociale, economico e culturale dei tanti territori ricchi di arte, tradizioni enogastronomiche e bellezze paesaggistiche che rendono l’Italia un Paese unico al mondo.

Cari amici, plaudo a questa interessante iniziativa che costituisce, indubbiamente, un positivo recupero dell'esistente, capace di soddisfare due importanti bisogni: il primo di natura conservativa, per preservare la storia di questi immobili, il secondo per  un loro fruttuoso utilizzo turistico, essendo in gran parte immobili dislocati vicino a tanti paesi dell'interno, centri minori, ma ricchi di quell'antico patrimonio di saperi e sapori da diffondere e trasmettere, ai possibili visitatori.

A domani.

Mario

mercoledì, marzo 13, 2024

POCO MENO DELLA META' DEI SETTEMILA (7.000) IDIOMI PARLATI NEL MONDO RISCHIA DI SCOMPARIRE: TRA QUESTI C’È ANCHE IL SARDO. L'ALLARME DELL'UNESCO.


Oristano 13 marzo 2024

Cari amici,

Incredibile ma vero: oltre il 45% delle 7.000 lingue parlate nel mondo sono a rischio di estinzione, con una imperdonabile e irrimediabile perdita di un intero patrimonio culturale e intellettuale che andrebbe perduto per sempre. Lo ha rilevato con grande preoccupazione l'UNESCO, che ha dichiarato che "ogni lingua è un riflesso di una cultura, in particolare le lingue delle minoranze e dei popoli indigeni, che svolgono un ruolo vitale nel preservare e continuare a trasmettere la nostra ricca diversità culturale globale”.

Purtroppo, Globalizzazione, Spopolamento di alcune aree del pianeta e una predilezione tra gli studenti nei confronti delle lingue più parlate (per noi l'italiano). sono tra i fattori che minacciano la diversità linguistica nel mondo, mettendo a rischio l’estinzione di un numero sempre maggiore di idiomi. Lo studio effettuato da PREPLY, la piattaforma di apprendimento delle lingue, ha messo in luce che il Paese con il numero più alto di lingue minacciate è la Guinea, che ne conta 367, seguita dalla Papua Nuova Guinea, con 345 lingue a rischio.

A seguire Indonesia e Australia, con un totale di 231 idiomi in pericolo, e l’Australia è anche il Paese con il più alto numero di lingue considerate “in pericolo critico”, ben 133. Al 5° posto c’è l’India, Brasile e Cina occupano la 6ª e la 7ª posizione, seguite da Niger (146) e Nigeria (142). A chiudere la Top 10 stilata da PREPLY sono gli Stati Uniti d’America, con 124 lingue minacciate. Tra queste, ad esempio, il Lakota: un tempo lingua principale della tribù di nativi americani, conosciuta come Teton Sioux, che oggi è parlata correttamente da appena 2.000 persone.

L’Italia rientra tra i 50 Paesi con le lingue più minacciate, occupando il 35° posto della classifica globale, con 21 realtà linguistiche da tenere sotto controllo. Nel nostro Paese risulta in pericolo anche il sardo, nei suoi principali dialetti; il sardo è classificato dall'UNESCO come una lingua in serio pericolo di estinzione (definitely endangered), essendo gravemente minacciato dal processo di deriva linguistica verso l'italiano, il cui tasso di assimilazione, ingenerato dal diciannovesimo secolo in poi presso la popolazione sarda, è ormai alquanto avanzato in via esclusiva e sottrattiva verso gli idiomi storici dell'isola.

Amici, senza nulla escludere per quanto riguarda il pericolo di estinzione delle tante altre lingue parlate nelle regioni della nostra Italia, voglio soffermarmi in particolare sul nostro “Caso Sardegna”. Il famoso processo di “deriva linguistica” prima accennato, iniziato nei primi anni del secolo scorso, ha ridotto la lingua sarda in uno stato alquanto fragile e precario, considerato il crescente regresso finanche nell'ambito familiare. Nel rapporto EUROMOSAIC, compilato nel 2000 dal linguista Roberto Bolognesi, il sardo «è collocato al 43º posto nella graduatoria delle 50 lingue prese in considerazione e delle quali sono stati analizzati (a) l’uso in famiglia, (b) la riproduzione culturale, (c) l’uso nella comunità, (d) il prestigio, (e) l’uso nelle istituzioni, (f) l’uso nell’istruzione».

I sociolinguisti hanno classificato il panorama linguistico della Sardegna come diglossico a partire dall'unità d'Italia nel 1861 fino agli anni Cinquanta del Novecento, in accordo con la politica linguistica del Paese che designava l'italiano come la sola lingua ufficiale da promuovere in ambiti quali l'amministrazione e l’istruzione, relegando di conseguenza il sardo e altre minoranze linguistiche a domini non ufficiali, quando non a un piano di disvalore.

Amici, purtroppo a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, è subentrato il predominio totale dell'italiano, cosa che fa sorgere seri timori sull'estinzione della lingua sarda, seppure riconosciuta, allo scadere del secolo scorso, come minoranza linguistica della Repubblica italiana. Questa, purtroppo, è la triste realtà, che vede le generazioni più giovani capaci di parlare solo in italiano; generazioni per le quali il sardo è diventato un ricordo e «poco più che la lingua dei loro nonni», nella quale mai si identificherebbero, essendone stata recisa la trasmissione intergenerazionale a partire dagli anni Sessanta.

Amici, credo che il pericolo di estinzione sia concreto e reale. Purtroppo la lingua sarda non è stata de facto ancora introdotta nella scuola, nonostante sia riconosciuta dal 1999 come minoranza linguistica della Repubblica, in contemporanea con le altre undici. C’è da dire che da qualche tempo sono in corso dei tentativi di recupero, con progetti volti a riguadagnare al sardo un ruolo di lingua viva, da trasmettere soprattutto alle classi più giovani ed ai ceti culturalmente più avveduti. Sarebbe il giusto modo di riappropriarsi di un patrimonio che le errate politiche linguistiche del passato, purtroppo non hanno provveduto a tutelare.

A domani.

Mario