sabato, settembre 30, 2017

LA TRISTE FINE DEL BANCARIO: DA LAVORATORE PRIVILEGIATO E RIVERITO, A ESODATO. E’ LA FINE DI UN’EPOCA. L’INCUBO CHE ATTANAGLIA I BANCARI PER I 100 MILA “TAGLI” PREVISTI NEI PROSSIMI CNQUE ANNI



Oristano 30 Settembre 2017
Cari amici,
Voglio chiudere questo mese di Settembre con una riflessione che riguarda il settore lavorativo che mi ha assorbito per una vita intera. Ho trascorso in banca il mio percorso di lavoro, per cui la riflessione di oggi mi "tocca" davvero in modo particolare. Sono in pensione dal 2003 e vedere oggi diversi colleghi con i quali ho lavorato, angosciati, tristi e delusi, non è certo una sensazione confortante! E dire che una volta il bancario era un “lavoratore illustre”: ben retribuito (il suo stipendio era di molto superiore a quello di un professore di scuola media superiore) e con prospettive di carriera all’interno della stessa banca durante l’intera vita lavorativa.
Le note vicende economiche degli ultimi tre lustri, però, hanno messo KO un sistema che sembrava collaudato e inossidabile: dimostrando, invece, che anche la banca era un gigante con i piedi d’argilla. 
La mia riflessione di oggi non intende certo entrare nel merito delle colpe, delle variabili, e delle congiunture che hanno portato il nostro sistema bancario al collasso, ma vuole solo riflettere con Voi per capire se e come si potrà uscire da un problema serissimo, che si aggiunge ai molti altri già esistenti nel sistema economico di casa nostra.
Nel 2017 gli esuberi annunciati dagli Istituti di credito italiani si aggirano intorno alle 20 mila unità; il futuro, però, appare ben più triste! Le previsioni fatte appaiono da incubo, per i bancari italiani: sarebbero ben 100 mila i tagli previsti nei prossimi 5 anni. 
"Una ecatombe occupazionale” è stata definita drammaticamente dal segretario generale di First Cisl (il sindacato del settore finanziario) Giulio Romani; la situazione del settore bancario, non solo per i tagli previsti nel corso del 2017, ma anche per quelli futuri, potrebbe riservare risvolti addirittura imprevedibili. Già a Luglio gli esuberi annunciati dagli Istituti hanno toccato quota 17.500, e il numero è destinato a salire ulteriormente. Banca Carige, per esempio, la settimana scorsa ha pubblicato il nuovo piano industriale che prevede 1.000 tagli e la chiusura di 121 filiali.
Nella cancellazione di posti di lavoro in prima fila ci sono i grandi gruppi del Paese. A Febbraio in Unicredit è stata sottoscritta l’intesa per l’uscita di 3.900 dipendenti. Il piano industriale prevede 6.500 esuberi netti entro il 2019. Anche Intesa San Paolo nell’ambito dell’operazione di integrazione delle banche venete manderà a casa migliaia di dipendenti. La prima tranche prevede 1.000 tagli, le successive almeno 3.000. Il nuovo piano industriale del Monte dei Paschi prevede 5.500 licenziamenti. Anche le altre banche minori hanno annunciato di voler tagliare il numero dei dipendenti, che vanno da un esubero di 500 dipendenti a numeri più modesti, pur di alleggerire il peso del personale. Ecco la vera ecatombe, e siamo solo nella prima fase!
In 10 anni sia gli sportelli che i bancari sono diminuiti: il personale di 45 mila unità, circa 4.500 all’anno, passando da 340 mila ai 295 mila di oggi. Ma negli ultimi mesi l’accelerazione è stata impressionate. Le cause principali sono note da tempo: crisi finanziaria del settore e innovazione tecnologica. Il rischio di fallimento di diversi Istituti ha innescato una serie di fusioni che comportano sovrapposizioni di personale e di filiali. Il conto delle cosiddette razionalizzazioni viene pagato ovviamente dai dipendenti.
Anche in Sardegna, cari amici, la scure dei tagli ha iniziato a lavorare senza pietà. In un’Isola con grandi problemi di spopolamento, la chiusura di molte piccole filiali darà il colpo di grazia. Il gruppo bancario BPER, che oltre un decennio fa rilevò il Banco di Sardegna e la Banca di Sassari, ha messo in atto una ristrutturazione definita dai sindacati «Un piano di lacrime e sangue». La First-Cisl ha lanciato l’allarme: «Il gruppo BPER sta per tagliare 500 dipendenti e 100 agenzie nell’Isola».
Il piano di tagli al Banco di Sardegna, definito con un neologismo, “modenizzazione”, con chiaro riferimento al cuore emiliano del gruppo di cui fa parte l’Istituto di credito sardo che ha sede a Modena, caratterizzato dalla fuoriuscita pilotata di oltre 500 dipendenti e la contemporanea chiusura di non meno 100 agenzie periferiche, appare ai sindacati privo di un reale disegno di sviluppo e crescita per la nostra Isola. 
Ignazio Ganga, segretario regionale Cisl, spiega che la ristrutturazione di quella che è stata per 50 anni la “banca dei sardi” (che ha già subito dei tagli con la riduzione del numero delle agenzie), ha portato al netto distacco politico-economico del Banco di Sardegna dallo sviluppo e dalla crescita dei settori produttivi dell’Isola. In sostanza la capofila modenese, sostiene il sindacato, sta utilizzando il Banco come uno strumento utile a perseguire gli interessi del Gruppo stesso, e non per rafforzare l’economia dell’Isola.
Cari amici, come ho detto all’inizio questa débâcle del settore del credito mi mette davvero a disagio, toccandomi nel profondo dell’animo. Mai avrei pensato che la banca per cui ho lavorato con impegno e orgoglio una vita intera, quella banca che ho visto crescere e ampliarsi (personalmente ho contribuito ad avviare alcune dipendenze), avrebbe vissuto amaramente situazioni così terribili. Spero che la ripresa economica del Paese, da tutti tanto attesa, non tardi ad arrivare: potrebbe contribuire a dare un po’ di ossigeno ad un’economia ormai in agonia.
A domani.
Mario

venerdì, settembre 29, 2017

QUEL “FILO ROSSO” CHE LEGA ORISTANO E SASSARI. L’ESEMPIO DEL CANOPOLENO, IL COLLEGIO-CONVITTO DI SASSARI, FONDATO NEL 1611 DA ANTONIO CANOPOLO, ARCIVESCOVO DI ORISTANO DAL 1588 AL 1621.



L'antica sede del Canopoleno, oggi pinacoteca.
Oristano 29 Settembre 2017
Cari amici,
Sassari e Oristano. C’è un sottile “filo rosso”, che lega indissolubilmente queste due città dell’isola da oltre cinque secoli. Storicamente c’è una variopinta galleria di personaggi che lo storico Manlio Brigaglia definì “sassaro-oristanesi” quando, nel lontano 1997, dalle colonne della Nuova Sardegna ricordava l’antica storia del Convitto Canopoleno, posto nella via S. Caterina, nel cuore della vecchia Sassari. Lo storico, scrittore e giornalista oristanese Beppe Meloni, 20 anni fa, ebbe a scrivere l’interessante storia di questo collegio che, come qualificato luogo d’istruzione, ha attraversato i secoli ed è, ancora oggi, vivo e vegeto a Sassari.
Per Beppe Meloni rendicontare la storia di quel Convitto, concepito dall’allora Arcivescovo di Oristano Canopolo, fu abbastanza semplice: Egli lo frequentò negli anni dell’adolescenza, i duri anni Quaranta del secolo scorso nei quali l’Italia lottava col fascismo, la guerra e il successivo ritorno alla democrazia. Nella prima edizione del suo libro (Quelli del Canopoleno, storia e cronaca del Convitto Nazionale Canopoleno, di Sassari – 1996, Carlo Delfino, Editore) viene riepilogata la storia di questa struttura culturale, a partire dalla sua fondazione, avvenuta l’8 Dicembre del 1611.
L’Arcivescovo Canopolo, come scrive Meloni, mal sopportando il clima malarico della “basciura” campidanese, quella così ben descritta dal commediografo Antonio Garau, cercò di replicare a Sassari una struttura similare a quella del Seminario di Oristano che noi ben conosciamo. Pur realizzato nel Dicembre del 1611 il collegio stentò ad entrare a regime: fu inaugurato molto tempo dopo: il 1 Maggio del 1712 dall’Arcivescovo Francesco Masones Nin. Canopolo fu uno dei numerosi prelati sassaresi chiamati tra il 1578 e il 1657 a dirigere l’arcidiocesi arborense. Prima di lui si alternarono Francesco Frigo (1578-1588), Gavino Magliano (1627-1641) e Pietro de Vico (1641-1657). Quasi una costante nella storia della Chiesa sarda che si ripeté negli anni Ottanta del Novecento con Francesco Spanedda (1979-1986).
Il Seminario Canopoleno (o Casa Professa come fu originariamente chiamata) inizialmente fu affidato ai Gesuiti che vi ospitarono i seminaristi fino al 1773, quando chiuse i battenti per l’abolizione dell’ordine gesuitico da parte di Clemente XIV. Fu riaperto quindici anni dopo, nel 1788, per ordine del sovrano Vittorio Amedeo III e affidato al Preside del Collegio, prof. Giuseppe Pinna. Nel 1824 i Padri Gesuiti, grazie alla Bolla pontificia di Pio VIII, ricostituirono l’ordine e tornarono a governare la scuola. I locali del “Canopoleno” furono allora restaurati ed ampliati e venne esteso anche il programma di insegnamento. In seguito a queste innovazioni che interessarono sia i regolamenti scolastici che quelli amministrativi, il Convento fu trasformato da seminario religioso in Collegio dello Stato, riservato quasi esclusivamente ai figli della ricca borghesia di Sassari e del circondario. Per questo motivo, sotto il Re Carlo Felice, assunse il titolo di “Real Convitto Canopoleno dei Nobili” e vi si poteva accedere pagando rette molto care, che solo le famiglie più agiate e facoltose erano in grado di sostenere.

Nel 1848, con il definitivo allontanamento dei Gesuiti, a seguito delle leggi Siccardi, il Convitto fu chiuso un’altra volta, anche se riaperto nel Dicembre dello stesso anno. Nel 1852 venne inserito nel piano dei collegi “Convitti Nazionali” come Torino, Genova, Nizza, Novara ed altri. Fu infine riconosciuto ufficialmente Convitto Nazionale con Regio Decreto del 10 marzo 1860. Nel Maggio 1865 venne istituito nei locali del piano terra dello stabile, il Liceo-Ginnasio “Domenico Alberto Azuni” che vi fu ospitato fino alla costruzione del nuovo edificio inaugurato nel 1933. Ancora oggi il Canopoleno, dopo aver abbandonato per incapienza la vecchia sede (opera ora nei nuovi spaziosi locali di via Luna e Sole), è a Sassari una scuola di alto livello, che ha attraversato senza timore secoli e generazioni. Questa scuola formò i grandi protagonisti della storia sarda: da Antonio Segni a Camillo Bellieni, da Enrico Berlinguer a Francesco Cossiga. E la sua vita continua.
Questa è la storia, cari amici!
A domani.
Mario 

giovedì, settembre 28, 2017

I GIOVANI E L’UTILIZZO DELLA MODERNA TECNOLOGIA. HAI UNO SMARTPHONE? IL SUO USO SMODATO PRODUCE GLI EFFETTI DELETERI DI UN GRAMMO DI COCAINA.



Oristano 28 Settembre 2017
Cari amici,
La psicologa Mandy Saligari, intervistata di recente dal giornale The Independent circa il pericolo delle nuove tecnologie nel campo della comunicazione come gli smartphone, ha spiegato che i rischi (in particolare per i più giovani) derivanti dall’uso e “dalla conseguente dipendenza”, dello smartphone, sono elevati; oltre un certo limite, infatti, il suo uso esagerato comporta “gli stessi effetti prodotti dall’assunzione di un grammo di cocaina"
Affermazione drastica e pesante, quella fatta dall'illustre psicologa, una diagnosi preoccupante che mette in luce il fatto che lo smartphone sta "creando dipendenza", come una droga, sopratutto sui più giovani. Una recente ricerca americana, che ha stabilito che essendo il nostro cervello un organo plastico, l’uso intensivo di questo computer-telefono qual'è lo smartphone, ha un forte impatto sulle connessioni neurali delle persone, in particolare su quelle dei più giovani. Le conseguenze sono talmente rilevanti che la psicologa americana Jean Twenge ha affermato che ormai ci troviamo di fronte ad una nuova generazione: la iGeneration.
Per la psicologa Jean Twenge, docente alla San Diego State University, i nuovi dispositivi elettronici hanno creato la iGeneration, una generazione altamente tecno-dipendente, che prima si è sovrapposta e poi ha scavalcato le precedenti generazioni ed i loro cambiamenti. Se quella del dopoguerra è stata la geneerazione dei Baby Boomers, la successiva (i nati tra il 1946 e il 1964) è stata quella che ha beneficiato della grande crescita economica della maggior parte dei Paesi occidentali; a seguire è venuta la Generazione X (quella dei nati tra il 1965 e il 1979), cresciuta nel benessere (grazie al successo ottenuto in precedenza dai Baby Boomers) e che per questo motivo ha sviluppato grande cinismo e mancanza di profondi valori.
A partire dai nati del 1980 (per arrivare a quelli degli anni ’90), i protagonisti sono diventati i Millennials, ovvero i primi a crescere familiarizzando da subito con le nuove tecnologie digitali di comunicazione come Internet. Impatto forte, ma che tuttavia risulta limitato, se confrontato con quello a cui sono stati sottoposti i giovani nati dal 1995 in poi. Per Jean Twenge a fare la differenza è stata l’arrivo e l’uso massiccio dello smartphone. 
Ma in che modo questo dispositivo apparentemente innocuo sta riuscendo ad influenzare un’intera generazione? L’effetto più rilevante è quello di aver sottratto tempo alla frequentazione fisica degli amici, con conseguenze rilevanti sui comportamenti sociali. I più giovani ad esempio hanno forti difficoltà ad interpretare e capire gli stati emotivi delle altre persone, vivendo sempre di più una vita virtuale e allontanandosi in questo modo dalla vita reale.
La frequentazione virtuale, sostitutiva di quella fisica, dal punto di vista del benessere mentale risulta fortemente negativa, anzi addirittura devastante. Il risultato è che la iGeneration soffre di maggiore depressione, ansia e solitudine rispetto alle generazioni precedenti. Il tasso di suicidi è aumentato di oltre il 50%, così come il numero di adolescenti con depressione a livelli patologici. Ad aumentare il disagio stanno contribuendo anche i social network. Numerosi studi scientifici dimostrano inequivocabilmente che l’uso intensivo dei social riduce la felicità e l’autostima delle persone. E c’è anche dell’altro.
Gli effetti collaterali derivanti dall’uso dello smartphone si manifestano nella diminuita efficienza delle competenze intellettuali. 
Le statistiche affermano che i giovani della iGeneration leggono meno giornali, riviste e libri. Se la frequentazione via computer è cresciuta a dismisura, quella reale continua a calare. Secondo una rilevazione condotta negli Stati Uniti i numeri sono devastanti: l’acculturamento è crollato dal 60% del 1980 al 16% del 2015. Gli studenti, anche quelli universitari, mostrano difficoltà a leggere i periodi lunghi.
Insomma, cari amici, se lo smartphone è accusato di distrugge le competenze sociali, di creare un forte aumento della depressione e di far lievitare l’ansia e solitudine, creando pericolosi effetti negativi sulle competenze intellettuali, allora l’uso quotidiano dello smartphone, da parte dei più giovani in particolare, andrebbe fortemente limitato, a partire dall’intervento e dall'imposizione da parte dei genitori. 
Inutile sostenere che esso apporta alle nuove generazioni anche aspetti positivi (rispetto alle generazioni precedenti), perché questi vantaggi alla fine sono ben poca cosa rispetto ai danni che lo smartphone è capace di fare. Per la Twenge, per non avere ripercussioni sul benessere psicologico, l’uso dello smartphone dovrebbe essere drasticamente limitato e non superare un’ora al giorno.
Pensate Voi che interventi così drastici possano essere messi in atto? Io ritengo proprio di no, per tutta un serie di ragioni che qui sarebbe difficile elencare! Cari amici, credo proprio che si sia superata la “soglia del non ritorno”, per cui, ormai, qualsiasi intervento (dei genitori, della scuola o altro) risulterebbe più che tardivo.
A domani.
Mario