giovedì, maggio 31, 2012

LA LENTA EVOLUZIONE DELLA “FAMIGLIA”. IL PASSAGGIO DA QUELLA PATRIARCALE A QUELLA MODERNA, CHE HA ROVESCIATO LA SOLIDARIETA’ TRA GENERAZIONI.

Oristano 31 Maggio 2012

Cari amici,

non c’è bisogno di andare a rileggere la Costituzione per affermare che la “Famiglia” è il primo e più importante nucleo della Società.


L'articolo 29 della stessa, infatti, considera la famiglia il nucleo basilare dell'ordinamento sociale. I membri della famiglia sono soggetti a specifici diritti e doveri. Tra questi l'obbligo dei coniugi di salvaguardare l'unità familiare, nella reciproca assistenza e l’obbligo del mantenimento e dell'educazione comune dei figli fino alla maggiore età. La famiglia è riconosciuta legalmente quale soggetto economico con appositi istituti giuridici.

La famiglia, anzi l’organizzazione basata sulla famiglia, esiste fin dai tempi più remoti, quando l’uomo ha creato le condizioni per vivere “insieme” ad altri esseri umani. L’uomo è sempre partito dalla famiglia, come base irrinunciabile per la pacifica convivenza con gli altri individui.

La parola italiana famiglia deriva dal latino familia, termine che indica l’insieme dei “famuli”, ovvero i componenti di quel nucleo “familiare” legati da un rapporto di dipendenza dal capo famiglia, il “paterfamilias”. Non necessariamente questa famiglia era legata da vincoli di sangue: nel concetto latino di familia si sovrapponevano e coesistevano la “familia iure proprio” e la “familia domestica”. La prima non era basata quindi su vincoli di sangue, sulla parentela, ma su vincoli di tipo politico-economico e religioso; la seconda si fondava sulla consanguineità. Il paterfamilias era il capo assoluto di entrambe. Egli disponeva, come di cose di sua proprietà, non solo dei beni e dei servi, ma anche della moglie e dei figli.

Nella lenta ma costante evoluzione, la familia perse importanza come entità politica e divenne patriarcale, con più generazioni di consanguinei sotto lo stesso tetto. Il potere del paterfamilias sui familiari da assoluto divenne limitato, regolamentato per legge. Durante il Medioevo l'influenza del Cristianesimo e il legame matrimoniale, considerato un “sacramento”, apportarono ulteriori modifiche alla convivenza matrimoniale, dando alla nuova struttura della famiglia un significato ben diverso da quello antico, certamente meno “padronale”.

Per l'antropologia e la sociologia moderne, la famiglia è considerata “un gruppo sociale” fondato sul legame matrimoniale. Ha come nucleo i coniugi e i loro figli, ma può estendersi anche ad altri parenti di sangue o acquisiti. Si caratterizza per l'esistenza di una rete di vincoli, divieti e diritti affettivi, legali ed economici. Oggi si è ben lontani dalla precedente struttura di famiglia patriarcale, anche se resiste ancora in certe zone e in certe classi sociali la tradizione di questo tipo di famiglia, in cui diverse generazioni di parenti abitano sotto lo stesso tetto. A parte le eccezioni, però, ai giorni nostri la mobilità geografica e sociale, il mutamento del ruolo della donna, l'aumento dei costi della gestione familiare, la crisi della natalità e il divorzio stanno creando oggi nuovi tipi di famiglia.

La famiglia è sempre stata oggetto di studi approfonditi da parte degli studiosi sociali. I primi studi sulla famiglia furono condotti da F. Le Play (1806-1882), il quale per primo ideò uno schema di classificazione: la famiglia patriarcale (tutti i figli sposati convivono nello stesso ambiente domestico e l’autorità spetta al padre e, alla sua morte, al primogenito maschio); la famiglia instabile (caratterizzata da piena libertà dei figli sulla scelta del coniuge e su l’autonoma scelta della residenza); la famiglia ceppo (quando un solo figlio maschio porta la moglie a casa dei genitori). Un’ulteriore tipologia è stata sviluppata da P. Laslett per venire incontro ai mutamenti nella strutturazione della famiglia occorsi con i cambiamenti della società. Egli classifica la famiglia in cinque tipi: nucleare (una sola unità coniugale), estesa (una sola unità e più parenti conviventi), multipla (due o più unità coniugali), del solitario (una sola persona), senza struttura (più persone non vincolate da un rapporto coniugale). Oltre alle classificazioni su menzionate successivamente sono apparse nelle Comunità altre forme di convivenza familiare, essendosi sviluppate nuove forme di unioni familiari, come le convivenze more uxorio e le unioni civili, diventate sempre più modelli alternativi a quelli del passato.

Nei primi anni del secolo XX, quando era imperante la “civiltà contadina”, la famiglia era un’unità allargata, estesa, che comprendeva i discendenti di una stessa linea familiare, e che conteneva – al suo interno - diversi nuclei familiari. Le famiglie contadine di allora erano decisamente numerose: non c’era allora il problema che affligge oggi il nostro Paese e cioè un incremento demografico vicino allo zero. Era normale per quei tempi che le famiglie fossero composte da trenta o quaranta persone, perché i poderi avevano un’estensione tale che occorrevano molte braccia per lavorarli. É anche per questo motivo che i figli venivano considerati una vera ricchezza. Nella famiglia rurale, nucleo importantissimo di un sistema economico di tipo artigianale - contadino, prevalevano schemi di autorità patriarcale o, in alcuni casi, matriarcale. Il governo degli affari familiari era affidato al capo famiglia. Ciascuna famiglia operava sotto la guida forte dell’anziano Pater familias, in genere in un clima di armonia e collaborazione. A Lui solo spettava il potere di dirigere l’organizzazione familiare: i lavori dei campi, i contatti con il fattore e il maneggio dei pochi soldi, la gestione delle risorse. Tutto ciò nella logica della saggezza e dell’esperienza che l’anziano poteva vantare, ed al quale erano dovute obbedienza e rispetto. Difficilmente i suoi ordini venivano disattesi. Le “riunioni decisionali” (vi era una discussione-approvazione ancorché formale) erano prese nelle due sedute più importanti della giornata e che vedevano riunito tutto il nucleo familiare: il pranzo e la cena. Questo quotidiano “stare insieme” della famiglia patriarcale-contadina consentiva di rafforzare la coesione del “gruppo” e dimostrava la forte connotazione che la legava: il legame di sangue ed il conseguente affetto dei suoi componenti.

Tenere unito un clan familiare spesso formato anche da decine di persone era allora più semplice di adesso. La famiglia patriarcale, dove tutti avevano un compito ed un ruolo in relazione alle proprie forze e capacità, era una specie di piccola società agricola/artigianale. Questa “unità produttiva” era completamente autosufficiente: capace cioè di provvedere da sola a procurarsi cibo, vestiti, scarpe, attrezzi, ecc. perché all’interno della famiglia/fattoria esisteva un sistema economico di tipo autarchico, capace di soddisfare i bisogni fondamentali di sussistenza, limitando l’interscambio con l’esterno al minimo indispensabile e, comunque, in linea di massima entro i confini della comunità del proprio villaggio.

Con l’avvento della società industriale, a partire dai primi del ‘900, la famiglia si trasforma da “unità produttiva” a “unità di consumo”, oltre che da “ estesa” a “coniugale”. Nel nuovo tipo di società, il lavoro si esplica principalmente fuori dall’ambito familiare: La produzione avviene “fuori”, nelle fabbriche, con retribuzione salariale per il lavoro svolto e che consente di provvedere ai bisogni della famiglia acquistando, direttamente sul mercato, quanto necessario il mantenimento della propria famiglia. Questo cambio radicale apporta modifiche rivoluzionarie anche alla struttura dell’autorità familiare: l’esternizzazione del lavoro ha sciolto o allentato i vincoli di appartenenza e sudditanza prima esistenti. L’abbandono della vecchia famiglia d’origine crea nuovi nuclei di dimensione molto più piccola, dove i coniugi spesso abitano con uno o due figli. Il cordone ombelicale prima esistente con le precedenti generazioni sembra caduto, tagliato di netto. E’ la nascita della famiglia “mononucleare”, ulteriormente ridottasi, spesso, ad un unico elemento.

Con l’avvento di questo nuovo tipo di Società si registra, rispetto al vecchio concetto di famiglia patriarcale, la scomparsa di molte delle tipiche funzioni prima esistenti. Se la grande e numerosa famiglia patriarcale era deputata anche a sopperire alle avverse vicissitudini della vita, come calamità naturali, malattie, assistenza agli anziani e quant’altro, ora queste funzioni sono state demandate allo Stato e quindi all’Amministrazione Pubblica. Con l’avvento dello “Stato Sociale” la famiglia si è spogliata di molte delle sue vecchie prerogative, mantenendo, però, una delle sue più importanti funzioni: favorire al suo interno l’acquisizione di conoscenze, norme, atteggiamenti, valori che sono indispensabili per poter vivere all’interno di qualsiasi società.

Dopo questa rapida carrellata sull’evoluzione che la famiglia ha avuto nel corso del tempo cosa possiamo dire sul percorso fatto e, soprattutto, su quello ancora da fare? La risposta credo non sia ne semplice ne facile.

L’evoluzione, certo, non è stata di poco conto. A partire dagli anni Cinquanta il concetto di famiglia è iniziato a cambiare radicalmente: la donna ha conquistato la sua indipendenza economica ed ha smesso di essere soltanto moglie e madre. E' diventata una figura in grado di muoversi non solo nell’ambito familiare ma anche in quello lavorativo e professionale. Si è portato a termine il processo di trasformazione della famiglia dal modello patriarcale, caratteristico di una società contadina ed artigiana, nel quale l'uomo aveva il "dominio" sulla donna e a lui spettavano tutte le decisioni, al modello moderno, nel quale l'uomo e la donna sono considerati alla pari. L'uomo e la donna diventano quindi uguali sul piano dei valori e dei diritti e diventano complementari nello scambio dei compiti e nell'obiettivo di mantenere unita la famiglia. La conquistata libertà ha portato con se, però, un alto prezzo da pagare: l’allentamento se non la perdita di una parte di valori morali importanti, conseguenti alla vita sociale allargata ed all’espletamento del lavoro e agli impegni quotidiani fuori dalle mura domestiche che condizionano la vita di relazione della coppia. Se prima la donna, che dipendeva in tutto e per tutto dal marito, sopportava qualsiasi situazione e non osava ribellarsi al proprio marito, ora la donna vuole avere gli stessi diritti del marito e può arrivare a fare di tutto per mantenere la propria indipendenza. Inoltre il desiderio di affermarsi nel mondo del lavoro ha portato alla nascita di famiglie con pochi figli, uno solo o al massimo due, con un drastico calo del numero di bambini con due o più fratelli. Si tratta spesso di scelte dettate dalle esigenze economiche e dall’impossibilità di dedicare gran parte del proprio tempo alla famiglia, in una società dai ritmi frenetici e che valorizza il successo personale in ambito professionale. Al giorno d'oggi ci sono, inoltre, nuovi tipi di famiglie: le libere unioni, le famiglie ricostituite, le famiglie allargate e le famiglie formate da single. E sono in molti a domandarsi se l’istituzione familiare sia, come molti sostengono, in serio pericolo.

Evoluzione, quella prima menzionata, che parte dal patriarca “Pater familias” per arrivare alla donna-manager, libera ed indipendente. Ma siamo sicuri che questo processo sia stato realmente “evolutivo” o, sotto certi aspetti”, almeno in parte, involutivo? A ben pensare, a mio avviso, certi risultati e certe fughe in avanti si sono rivelate peggiori del male che cercavano di sanare. Cerco di spiegare meglio questo mio pensiero. Riepiloghiamo.


Siamo partiti, è vero, da una società patriarcale, dominata dal capo famiglia, vero padre padrone del clan familiare, dove però la solidarietà tra le vecchie e le nuove generazioni era la regola, per approdare ad una nuova società arida e globalizzata, dove il sistema socio economico è a dir poco ammalato di “egoismo generazionale”. E’ questa, purtroppo, la tristissima realtà che stiamo vivendo!

Siamo immersi in un sistema realmente ammalato ed egoistico nel quale “il conto” dei privilegi odierni dei padri (cioè NOI) viene rimbalzato e caricato ai figli, ipotecando il loro futuro, sul quale grava il pesantissimo debito pubblico, terzo per dimensioni nel mondo. Un egoismo il nostro che ha radici antiche e si rinnova di continuo, come l’araba fenice, perpetuandosi all’infinito, come il recente provvedimento per l’aumento dell’età pensionabile ha ulteriormente ingigantito. Nessuno si è posto la domanda: “ Ma i nostri figli, i giovani, quando potranno mai entrare nel mondo del lavoro?”. Sono molteplici le connessioni tra le regole pensionistiche ed il funzionamento del mercato del lavoro. Il mantenimento in piedi del “welfare system” attraverso il prolungamento delle carriere e l’allungamento dell’età pensionabile crea un’ulteriore difficoltà nella collocamento di nuova occupazione. L’analisi della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie mette in evidenza l’inderogabile necessità di riformare urgentemente sia il mercato del lavoro che il sistema pensionistico, strettamente legati ed interconnessi.

Le colpe, cari amici, hanno lunghe e lontane radici e sono frutto dell’egoismo di un’intera generazione che prima ha preteso diritti che non si poteva permettere e poi ne ha scaricato il costo sui figli. Perché, come insegnano Holmes e Sunstein, i diritti, tutti i diritti, anche quelli di libertà, hanno un costo e quel costo qualcuno, prima o poi, lo deve pagare. E se non lo fanno i padri il conto lo pagheranno i figli, come giorno dopo giorno continuiamo a toccare con mano.

I recenti dati dell'istituto di statistica (Gennaio 2012) evidenziano che in Italia “Un giovane su tre è senza impiego”. Su base annua i disoccupati crescono del 10,9% a 2,423 milioni: 1,243 milioni sono uomini. L’Unione Europea sostiene che è "inaccettabile un livello così alto di disoccupazione tra i ragazzi". Incredibilmente siamo tornati indietro ai dati del 2001.

Le conseguenze di tutto questo, cari amici, sono a dir poco drammatiche. Il bello è che, da veri sadici, abbiamo preso a considerare questi giovani senza lavoro, arroccati e delusi nella case dei loro genitori, come dei “Bamboccioni”.

Il termine fu coniato non molto tempo fa da Tommaso Padoa-Schioppa, che volle definire in questo modo i giovani che non vogliono allontanarsi dalla famiglia d’origine preferendo, invece, di continuare a vivere nella casa dei genitori. Credo che questa affermazione pecchi se non .altro di superficialità. Ma chi l’ha detto che i giovani che abitano ancora con i genitori lo fanno perché non vogliono crescere? Qualcuno dovrebbe spiegare Loro come far quadrare il bilancio di un giovane “precario” fatto di guadagni incostanti se non assenti, di costo degli affitti da capogiro, di mutui negati o di prestiti a tassi usurari. Mettere su famiglia in queste condizioni è un rischio da correre? La risposta mi sembra scontata.

Le mancate necessarie riforme del lavoro costringono questi "bamboccioni" ad una convivenza consolatoria con genitori e nonni: la famiglia si ripiega su se stessa in una società ingessata, incapace di trovare soluzioni. I dati più recenti rivelano che in Italia il 60% dei giovani tra i 25 e i 29 anni e un quarto di quelli tra i 30 e i 34 continuano a vivere ancora con la famiglia d’origine. Il drastico calo delle nascite, inoltre, ha fatto sì che oggi i nonni siano di gran lunga più numerosi dei nipoti e gli ultranovantenni rappresentano ben mezzo milione di italiani.

In un momento di crisi economica che avvolge l’intero pianeta le soluzioni non sono certo facili o a portata di mano. La mia convinzione è che una generazione almeno vivrà in modo “precario” allocata, soprattutto, in famiglia. La curva del benessere ha smesso di puntare verso l’alto e dopo una breve posizione orizzontale si avvia ad una malinconica discesa.

Sembra che il sistema di sia avvitato su se stesso. Se rispettiamo le antiche regole matematiche che sostenevano che “cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia”, anche nell’evoluzione della famiglia, da quella patriarcale a quella odierna, il “prodotto”, in effetti sostanzialmente non è cambiato. L’antico flusso economico che ieri legava nonni e nipoti nella società patriarcale, è ancora oggi vivo e vegeto. Ha solo invertito la direzione, come se avessimo rovesciato l’imbuto. Ieri i nipoti, prima allevati e poi cresciuti, mantenevano nella maturità i genitori ed i nonni; oggi sono i nonni ed i genitori a mantenere a lungo, ad oltranza, figli e nipoti!

Grazie a Voi tutti dell’attenzione.

Mario

venerdì, maggio 25, 2012

L’EUROPA “UNIONE POLITICA” E’ SOLO UN’UTOPIA? LA TELA DI PENELOPE DEGLI “EUROBOND” LO CONFERMA. UN PERICOLOSO PERCORSO INCOMPIUTO.

Oristano 25 Maggio 2012

Cari amici,

scrivevo nelle pagine di questo blog nell’ottobre dell’anno scorso della grande preoccupazione che attanagliava l’Unione Europea a seguito dei gravi problemi di natura economica manifestati da alcuni Stati membri. La mia riflessione, senza velature, rimarcava un dato inconfutabile: a distanza di oltre 60 anni dai primi accordi di natura economica il percorso intrapreso dai Paesi che credevano in una Europa unita, verso la costituzione di un vero e proprio Stato Federale, non riusciva a completarsi.

L’ Unione Europea il 9 maggio di quest’anno ha compiuto 62 anni. Nata il 9 maggio 1950, quando la gran parte degli Stati si rimboccava le maniche per rimettere in moto un’economia distrutta, il ministro degli Esteri francese Robert Schuman lanciava l’idea di un’unica “ Comunità “ Europea, capace di mettere insieme le risorge energetiche, a partire dal Carbone e dall’Acciaio, la CECA appunto, a cui successivamente avrebbero fatto seguito tutti quegli altri atti per arrivare a quella reale e politica “Federazione di Stati”, L’Europa Federale, che sarebbe stata in grado di competere ad armi pari con gli Stati Uniti d’America.

Ebbene, cari amici, sono trascorsi oltre 62 anni da quello storico giorno: la CECA è diventata con gli anni la Comunità Economica Europea (CEE), poi la Comunità Europea tout court (CE) ed, infine, l’Unione Europea, con gli storici accordi di Maastricht e il varo dell’euro e, successivamente, gli ulteriori passi avanti, ultimo il trattato di Lisbona. Ma il cammino finora fatto, se riflettiamo, può essere considerato concluso? Io personalmente credo proprio di no! Gli Stati aderenti all’Unione Europea continuano a pensare solo ed esclusivamente in termini “nazionali” e non sovranazionali.

Lo tocchiamo con mano tutti i giorni, quando dopo estenuanti riunioni, ognuno continua a vedere i problemi solo ed esclusivamente dal punto di vista egoistico della propria nazione, sia essa Germania, Francia, Inghilterra, e cosi via.

I processi incompiuti, lo sappiamo, sono pericolosi: sono un aborto che può portare alla morte del nascituro.

Oggi gli attuali 27 Stati membri, divisi ed incapaci di un’unica, univoca, visione politica ed economica, faticano a parlare con un’unica voce e trovare soluzioni ragionate, concordi, e capaci di spegnere i numerosi “incendi” che di giorno in giorno si accendono. Non vi può essere, nel lungo periodo, una ‘teorica’ politica monetaria unica, nata con l’introduzione dell’Euro e governata a livello centrale, senza una comune “reale ed unica” politica fiscale ed economica europea. L’assenza di questo univoco strumento politico, sostituito, invece, dalle diverse decisioni di ogni Stato membro, è sicuramente la principale causa delle incertezze e delle debolezze della nostra moneta unica, l’Euro, non supportata da un univoco indirizzo economico-fiscale. Sta proprio qui il grosso handicap! E’ proprio il mancato completamento di quell’Unione Europea sognata da Schuman che impedisce questo processo decisionale unico, capace di adottare sistematicamente, in tempi rapidi, i giusti provvedimenti. E’ la forza di uno Stato vero quella che manca e che, forse, l’egoismo di molti Stati continua a procrastinare.

L’esempio più recente ci viene dai cosi detti “Eurobond”. Vediamo innanzitutto cosa sono.


Gli italiani hanno imparato in fretta a familiarizzare con termini che fino a poco tempo fa erano di uso comune solo negli ambienti della finanza. Faccio un esempio. Quanti italiani conoscevano prima dell’estate anche solo il significato dello “spread” dei titoli di stato? Oggi non c’è italiano che non controlla “a quanto ha chiuso la borsa di Milano” e a quanti punti è arrivato lo spread il giorno prima. Dal “bund” tedesco, che manovra lo spread, agli altri “bond” il passo è breve, passando per i “bonos” spagnoli e per il BOT italiani, fino ad arrivare al teorico e mai nato “Eurobond” di cui tanto si parla.

Eurobond è per ora un titolo “virtuale”, anche se abbiamo già imparato a prendere confidenza con lui, perché in questi giorni entra ed esce dalla bocca di tutti, se non altro per constatare la irriducibile ostilità da parte di diversi Stati, in primo luogo della Germania. Ma come sono strutturati questi agognati titoli?

Per Eurobond s’intende un titolo (un’obbligazione) relativo al debito di un paese dell’area euro, emesso non direttamente dal paese in questione, ma da una apposita agenzia dell’Unione Europea (si parla delle BCE) che quindi si fa formalmente “garante”, nei confronti dello Stato ordinante, rappresentando la garanzia di tutto il blocco dei paesi dell’Euro.

Questi per ora “teorici” titoli, per lungo tempo evocati dall’ex ministro Giulio Tremonti come unica soluzione possibile per uscire dalla crisi dell’annoso debito pubblico in capo alla gran parte dei Paesi dell’area Euro, avrebbero consentito di porre un freno alla speculazione messa in atto dalla finanza internazionale verso i paesi “deboli” dell’Unione, ritenuti poco affidabili. La situazione attuale, dove ogni Paese gioca la partita ”individualmente” crea, come sappiamo, enormi disparità di tasso che vanno da un minimo per quelli tedeschi ad un massimo a due cifre per quelli greci. Lo spread è la differenza dei rendimenti tra il minimo tasso applicato e quello del Paese preso in esame. Senza nascondersi dietro il dito al momento in cui sto scrivendo anche quello italiano è ancora superiore ai 400 punti.

La situazione credo che sia più seria di quanto molti credono di immaginare. Senza un intervento “comune” i Paesi più in difficoltà non potranno mai uscire dalla crisi. Chi è già debitore per cifre rilevanti del proprio debito pubblico, già faticherebbe a pagare il tasso minimo esistente sul mercato, figuriamoci se deve pagare tassi a volte tre o quattro volte superiori! L’eurobond avrebbe soprattutto questa funzione abbassare al minimo i tassi del debito, consentendo, anche nel medio/lungo termine una graduale diminuzione dell’esposizione in essere.

Ovviamente questo di “garantire in blocco” il debito di Paesi in difficoltà vede i Paesi più solidi restii a prestare questo impegno, questo avallo. Il pericolo paventato è che l’Europa, in questo caso, diventerebbe garante di un eventuale Paese che andasse in default. Ma a volte rinchiudersi nel “castello dorato” dell’abbondanza senza “condivisione” con gli altri partner non paga: anzi a volte l’egoismo paga meno della solidarietà.


Gli eurobond non piacciono soprattutto alla Germania, che attualmente ha una posizione di avanguardia in Europa, essendo considerato il paese più affidabile, ma, occorre ricordare che anche l’economia tedesca non può fare a meno dei paesi limitrofi. La Germania, non lo dimentichi, è proprio in Europa che piazza una grossa fette delle proprie esportazioni, e che quindi inevitabilmente il protrarsi della crisi finirebbe per avere forti ripercussioni anche sulla sua economia. Non solo. Non è cosi lontana, anche se molti tedeschi sembrano averlo dimenticato, la riunificazione delle due Germanie. Allora per salvare l’economia disastrata della Germania Est il corso del marco orientale fu forzosamente parificato a quello occidentale coinvolgendo e facendo pagare un prezzo altissimo (in svalutazione delle monete) alla gran parte degli altri Paesi europei. Angela Merkel, nata proprio nei territori della ex Germania Orientale dovrebbe saperlo bene! Oggi, invece, sembra aver dimenticato tutto e ostinatamente continua nella sua battaglia di difesa a oltranza della sua Germania, senza pietà per nessuno; costi quello che costi!

Il recente cambio di Presidenza in Francia ha, però, certamente scombussolato un po’ i giochi. La nuova vicinanza tra il nostro Paese e la Francia certamente cambierà certe precedenti posizioni, anche se La Merkel, pur elettoralmente battuta nella sua politica anche dai suoi elettori, resiste arroccata sulle proprie posizioni.

Mario Monti è convinto che anche se ci vorrà del tempo gli eurobond nasceranno, anche se non si sa quando. In un recente incontro con il nuovo Presidente francese F. Hollande il premier Monti ha detto: “il fatto che il tema degli eurobond sia chiaramente sul tavolo e abbia consensi da parte di Paesi che sono e che non sono nella zona euro, come la Gran Bretagna, significa che la cosa si muove e credo che questo determinerà aspettative nei mercati".

Per il presidente del Consiglio, Mario Monti "l’Italia vede favorevolmente, quando i tempi saranno maturi, non fra moltissimo, gli eurobond ed ogni cosa che rafforzi la preparazione per investimenti proficui".

La strada, come vedete, è lunga e in salita. Senza consenso comune sarà difficile trovare soluzioni per agevolare la crescita nei vari Paesi d’Europa, a partire dal nostro. Le economie sono ferme, la disoccupazione aumenta e la risultante è una sola: recessione.


Credo che Robert Schuman, che oltre 60 anni fa immaginava una grande Europa federale, sullo stile degli Stati Uniti d’America, si stia ancora rivoltando nella tomba. Il suo grande sogno, a lungo cullato e capace di far competere l’Europa ad armi pari con le maggiori economie del mondo, sembra praticamente abortito. In tutti questi anni i passi avanti previsti non sono stati molti. Il rischio maggiore, però, non è tanto la situazione attuale, ancora controllabile, ma quella successiva. Se la Grecia dovesse uscire dall’Unione Europea si innescherebbe un terrificante meccanismo perverso, capace di far tornare indietro nel tempo tutta l’Europa. La crisi americana del ’29 sembrerebbe un semplice gioco da ragazzi!

Grazie a tutti dell’attenzione.

Mario

martedì, maggio 22, 2012

GLOBALIZZAZIONE E RECESSIONE. PERCHE’ LA LOGICA DEL PROFITTO HA UCCISO QUELLA DEL DONO? RISCOPRIAMO L’”HOMO DONATOR” ACCANTO ALL“HOMO OECONOMICUS” .

Oristano 22 Maggio 2012

Cari amici,

quand’ero ragazzo i tempi non erano certo simili a quelli che stiamo vivendo ora. Sono nato nel 1945, a guerra appena finita, e bisognava rimboccarsi le maniche per rimettere in sesto un’economia distrutta.

Come ho avuto modo di scrivere nel mio recente libro di memorie giovanili (ha per titolo “Marieddu” ed è pubblicato dall’editrice E.P.D.O. di Oristano) in quei tristi tempi di recessione era diffusa tra gli abitanti di qualsiasi villaggio una solidarietà oggi assolutamente sconosciuta. Le famiglie, gran parte delle quali mancavano anche dei beni di prima necessità, poteva contare su una organizzazione semplice ma efficace: il vicinato. Questa struttura, che potremo chiamare con un termine moderno una “famiglia allargata”, era un tutt’uno con il complesso delle famiglie comprese nel gruppo delle strade e piazze che lo componevano.

Il vicinato non aveva capi o strutture gerarchiche; la struttura, perfettamente orizzontale, si muoveva in modo incredibilmente funzionale: tutti sapevano le necessità degli altri membri del gruppo e si comportavano di conseguenza. Una malattia, un decesso, una nascita, un compleanno, una cresima o un matrimonio, tutto era praticamente un evento di “tutti” e tutti contribuivano alla sua migliore realizzazione possibile. La scarsità dei mezzi a disposizione della singola famiglia veniva incrementata temporaneamente dall’intervento delle altre: per la festa venivano messi insieme i servizi migliori, le sedie e i tavoli, i cibi e le bibite, come se ad organizzarla fosse davvero un’unica grande famiglia. Anche i momenti meno festosi erano di interesse comune: i lutti o le disgrazie venivano vissuti con un unico sentimento, come una tragedia da vivere in Comunità.

Personalmente toccai con mano l’importanza e la “grandezza” di questa solidarietà. Mia madre, che quando mi mise al mondo aveva quasi 40 anni, ebbe un parto travagliato e, a causa delle forti emorragie, non poté allattarmi, in quanto priva di latte al seno. Non sarei certamente sopravvissuto perché all’epoca non vi era disponibilità del latte artificiale oggi tanto in uso. Fui, invece, immediatamente “adottato” da due donne del vicinato che pur dovendo accudire i loro figli si presero cura anche di me donandomi, ciascuna, una parte del latte di cui avevo bisogno. Posso, con grande sincerità, dirvi che questo grande gesto d’amore rafforzò immensamente la già forte amicizia prima esistente tra le famiglie e, ancora oggi, i miei due “fratelli di latte”, Rimedia e Lorenzo, sono per me qualcosa di speciale, accomunati da un vincolo che va ben oltre l’amicizia.

Si dice comunemente che le forme di solidarietà esistono (o sono esistite) solo tra poveri. Tradotto in termini semplici questo significherebbe che l’abbondanza, il benessere e la ricchezza, hanno ucciso la solidarietà? Oggi il “Saggio sul dono” di Marcel Mauss (1991) può avere ancora valore, in un contesto “globalizzato” come quello attuale, accanto agli aridi teoremi commerciali che hanno ormai pervaso e contaminato l’intero pianeta? Forse.

Nella realizzazione della mia prima tesi universitaria ebbi modo di studiare con attenzione il tema dell’associazionismo, analizzando sociologicamente un’associazione a cui appartengo: il Rotary International. Nata a Chicago, in America, nei primi anni del ‘900 questa forma associativa cercava di ricostruire soprattutto le “relazioni amichevoli tra individui”, ormai sempre più scarse e aride, in un mondo che vedeva crescere, sotto la grande spinta dell’industrializzazione, un consumismo ed un individualismo, in grado di distruggere in modo brutale ed invasivo la consolidata e solidale precedente vita comunitaria. Scrissi in questa mia tesi che il passare del tempo e il continuo miglioramento delle condizioni di vita spostavano, però, l’ago della bilancia dalla solidarietà verso l’egoismo e l’individualismo. Ecco un passo di queste riflessioni:

“L’interazione, lo scambio, la relazione economica e sociale con gli altri individui esiste fin dagli albori dell’umanità. Nel tempo tanti gli strumenti e le regole applicate e successivamente modificate per armonizzare la vita sociale e tenerla al passo coi tempi . Regole, però, con un fine ultimo preciso: far convivere l’innato egoismo dell’uomo con l’altruismo; conciliare l’interesse personale con l’interesse collettivo, il profitto con il dono. Creare quelle regole di convivenza civile dove ciascuno soddisfi i propri bisogni senza prevaricare quelli degli altri…”.

Il Rotary era nato proprio per cercare di conciliare “l’interesse personale con quello collettivo”, chiedendo ai suoi membri l’applicazione di comportamenti etici che, scavalcando l’interesse personale, venissero incanalati verso l’interesse collettivo. La sua rapida crescita dimostrò che la via imboccata era quella giusta.

Franco Arzano, ingegnere, dirigente industriale di livello europeo, consulente ed esperto di telecomunicazioni, governatore del distretto 2080 del Rotary nell’anno 2007.08, ebbe occasione di scrivere in un suo articolo (2004) intitolato Etica e affari:

“… Amartya Sen, l’economista-filosofo di origine indiana, professore ad Harward e premio Nobel sostiene che, dopo un lungo periodo in cui gli economisti hanno trascurato la dimensione etica, appare oggi chiaro che il successo economico non può essere disgiunto da una base etica. E del resto, continua Sen, la tendenza della teoria economica a ignorare gli aspetti etici non era condivisa neppure da Adam Smith, il quale riteneva che il perseguimento del profitto non fosse possibile se non all’interno di un ampio spettro di motivazioni morali che investono sia lo scambio commerciale (dove la fiducia reciproca degli operatori gioca un ruolo importantissimo) sia la redistribuzione della ricchezza (con il principio secondo il quale il modo in cui si divide la torta sociale influisce sugli incentivi al business e dunque sulla dimensione della torta stessa), come ha recentemente ribadito lo stesso Segretario Generale dell’ONU…”.

Oggi, in piena Globalizzazione, il valore etico e morale negli scambi commerciali tra individui e comunità sembra praticamente scomparso. La logica del profitto ha spazzato via quella della solidarietà, della pacifica ed amichevole convivenza, dove l’aiuto reciproco non ha più ne patria ne valore.

Anche senza applicare alla lettera quanto contenuto nell’invito evangelico di Luca (“Da’ a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo. Ciò che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. Se amate coloro che vi amano che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate di ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi.” (Vangelo di Luca 6, 30-35) ) è certamente possibile pensare seriamente di far rivivere, accanto all’homo oeconomicus l’homo donator, incredibilmente scomparso dalla scena. E’ l’insicurezza e la mancanza di fiducia negli altri che, forse, ha contagiato la gran parte dei comportamenti aridi ed egoistici.

Z. Bauman individua proprio nell’insicurezza che attanaglia l’uomo di oggi la causa della diffidenza verso gli estranei, in particolare gli stranieri, coloro che sono “diversi”. E’ un modo per cercare di trovare rimedio all’incertezza, nella ricerca di quella sicurezza, capace di garantire sia la nostra integrità fisica che tutte le sue estensioni: la nostra casa, i nostri beni, il quartiere in cui viviamo. Con il risultato di far crescere la diffidenza nei confronti di quanti ci circondano, e in particolare degli estranei. La città, lo tocchiamo tutti i giorni con mano, risulta cosi composta quasi esclusivamente da “estranei”. E’ diventato un “perfetto sconosciuto” anche il nostro vicino di pianerottolo che evitiamo di salutare anche stando a fianco a lui in ascensore, immersi nella nostra solitaria e arida indifferenza/diffidenza; E’ una grande “folla solitaria”, quella delle nostre città, come la definisce Riesman.



Al rapporto amichevole e di fiducia preferiamo quello asettico e arido, solo “commerciale”. Quando compriamo qualsiasi cosa, dal fornaio ai grandi magazzini, la transazione non ha risvolti: nello scambio non vi è sottesa nessuna relazione amichevole: danaro contro merce senza vincoli di sentimento. Per questo motivo spesso rifuggiamo dalla logica del “dono” perché rappresenta un pericolo. Il dono presuppone un rapporto più complesso, crea legami e vincoli, impone la costruzione o il miglioramento di legami con gli altri. Può dunque spaventare per la sua caratteristica di “coinvolgimento”. Per questo spesso siamo anche disponibili a dare soldi per opere caritatevoli, purché non si crei il circuito, la spirale del “donare, ricevere e ricambiare”. Agire in una logica del dono significa riconoscere che tutti abbiamo qualcosa da dare ad un altro e abbiamo, nello stesso tempo, bisogno di ricevere noi qualcosa dall’altro. In questo contesto è allocato l’homo donator, molto diverso da quello asetticamente “economico”, meno arido e più umano, meno egoista e più sociale più solidale.

Ebbene, cari amici, è tempo che ci riappropriamo dell’homo donator, ne va della nostra stessa esistenza, oggi ridotta a semplice e meccanica sopravvivenza.


I primi spiragli già si intravvedono. Il “microcredito” comincia a prendere piede e dimostra che non sempre il profitto paga. Un nuovo modello economico si affaccia alle porte del nostro millennio: “IL SOCIAL BUSINESS”. Muhammad Yunus, padre del microcredito, non ha mai rinnegato le dottrine economiche. Ha studiato con attenzione gli economisti, in particolare Adam Smith, noto in tutto il mondo per la sua teoria della “mano invisibile”. Egli anzi è un grande ammiratore di Adam Smith, universalmente noto come uno dei padri dell’economia. Forte di queste conoscenze e di questi studi nel 2006 ha fondato il “Centro Yunus”, dove con determinazione cerca di applicare economicamente gli inviolabili principi di moralità ed etica. E’ proprio coniugando economia, morale, etica e principi umanitari che il Suo “Social Business” avanza e si afferma. E’ un modo “nuovo” per superare il modello capitalistico di business oggi in auge, basato sull’egoismo e sull’individualismo, riscoprendo i modelli solidali delle antiche Comunità, costituiti da altruismo e condivisione.

Muhammad Yunus ha aperto una via importante che non è certo l’unica. Ciascuno di noi può fare molto senza aspettare che gli altri facciano. Voglio tornare all’esempio portato in apertura di queste riflessioni: la solidarietà del “Vicinato”. Credo che anche oggi sia nelle grandi città che nei villaggi possa rinascere una solidarietà di “Quartiere”, nuovo termine che ha sostituito il termine “Vicinato”. Se provassimo a ricostruire quelle relazioni interrotte o mai nate, se provassimo a sorridere e tendere la mano al vicino, partendo proprio da quello del nostro pianerottolo, forse saremo già sulla buona strada. Se provassimo a vivere insieme, come in passato, le gioie e i dolori familiari vivendoli nuovamente “insieme”, come parte di una vera “famiglia allargata”, avremo già raggiunto il nostro scopo. Ci sentiremo meno soli, sentiremo meno anche il peso della recessione che, pur in diversa misura, tocca tutti noi.

Credo, cari amici, che la rinascita dell’homo donator sia una via possibile e praticabile. Homo donator che non dovrà in nessun caso sostituire l’homo oeconomicus ma solo affiancarlo, prenderlo per mano. Insieme potranno fare ancora molta strada, ricreando quella gioia e quella solidarietà, che ha accompagnato l’uomo per lunghi anni e che per molti altri ancora potrà accompagnarlo.

Grazie dell’attenzione.

Mario


giovedì, maggio 17, 2012

“LE TORRI E LE MURA DI ORISTANO MEDIOEVALE”: APERTA L’INTERESSANTE MOSTRA DI AUGUSTO SCHIRRU.

Oristano 17 Maggio 2012

Cari amici,

certamente nel passato Oristano ha recitato un ruolo ben più importante e attivo rispetto a quello attuale. La storia del nostro territorio, ampiamente dimostrata dai numerosi scritti, meriterebbe ben altra considerazione, memoria e rispetto.

Il Giudicato d’Arborea è stato un vero e proprio punto di riferimento per la civiltà del periodo medioevale e, anche a livello giuridico la sua cultura era ai massimi livelli, come anche la lettura odierna della “Carta de Logu” può ben dimostrare.

In passato, purtroppo, con grande faciloneria molte delle costruzioni dell’epoca sono state distrutte, a partire dalla cinta muraria e dalle possenti torri che proteggevano la città, anziché essere conservate a gloriosa e futura memoria. Oggi le tracce di questo passato non sono molte e, soprattutto, poco evidenti e mal conservate.

Solo gli studiosi e gli appassionati sono in grado di far rivivere alle nuove generazioni quanto per incuria è andato perduto. Uno di questi è proprio Augusto Schirru, la cui mostra, allestita nell’antica Chiesa di S. Mauro e inaugurata dall’Arcivescovo Mons. Ignazio Sanna sabato 12 Maggio, è stata un vero successo di pubblico e di critica. La mostra rimarrà aperta fino al 20 Maggio.


Augusto Schirru, maestro d’arte in architettura, pur non oristanese di nascita lo è di adozione. Nato a Ulassai nel 1936 ha però insegnato ad Oristano per oltre 35 anni “Educazione artistica” presso le Scuole Medie della Città. Diplomatosi all’Istituto d’Arte di Sassari, quel grande crogiuolo formativo utilizzato anche da valenti uomini come Vico Mossa, Stanis Dessì, Eugenio Tavolara, Filippo Figari ed altri, Schirru iniziò la sua carriera artistica con diverse mostre di pittura, ottenendo subito risultati brillanti.

L’arrivo da docente ad Oristano lo introdusse in un mondo per lui particolarmente interessante: quello dell’architettura medioevale che tanto lo appassionava. Nei lunghi anni trascorsi in città di giorno in giorno approfondiva la conoscenza del passato cercando e scoprendo quanto ancora era visibile delle costruzioni del passato. Il suo interesse maggiore lo dedicò a quanto restava della cinta muraria e delle sue torri. Indagò e studiò per anni quanto era riuscito a recuperare in scritti, disegni e resti costruttivi, arrivando a ricostruire fedelmente, con la massima precisione possibile, quanto era stato distrutto e ormai irrimediabilmente perduto.

Con pazienza certosina Schirru ha prima ricostruito graficamente le torri ormai perdute e le mura cancellate dall’incuria degli uomini, realizzando pregevoli disegni che non solo hanno messo in evidenza i tanti tasselli mancanti ma gli hanno anche consentito di ricostruire poi i plastici delle torri e delle fortificazioni che proteggevano la città.

Indovinata, in quanto perfettamente consona, anche la scelta del luogo della mostra: la Chiesa di S. Mauro, annessa all’antico Hospitalis Sancti Antoni di Oristano. Luogo ideale per ospitare i tanti disegni, esposti in bella mostra ai lati delle pareti dell’antica Chiesa, con al centro i numerosi plastici delle torri in gran parte ormai scomparse. In tanti hanno osservato con grande attenzione le perfette ricostruzioni: Porta a mari, Portixedda, Porta S.Mauro, Porta Manna ed sui rinforzi a protezione del più importante ingresso alla città. Presenti all’inaugurazione, oltre l’Arcivescovo Mons Sanna, il prefetto di Oristano Dr. Russo, il Commissario del Comune Dr. Ghiani, il Prof. Mele dell’Istar e molti altri studiosi. L’apprezzamento è stato generale, compresi i tanti giovani che con grande meraviglia hanno potuto ammirare le perfette ricostruzioni di quello che nella realtà loro non potranno mai più ammirare e toccare.

Un grande plauso all'artista che con grande determinazione e pazienza ha voluto ricostruire una parte di quel passato buttato via con grande disinvoltura. Di questa interessante mostra, però, qualcosa rimarrà anche dopo la sua chiusura. L’artista ha chiesto al fotografo d’arte Santino Virdis di fare un nutrito corredo fotografico di quanto esposto: sia dei disegni che dei plastici. Sarà realizzato un DVD contenente tutte le opere che, a richiesta, potranno essere anche stampate. Sarà uno strumento in più per i giovani che vogliono conoscere il passato della loro terra.

Certo questo non basta. Oristano deve imparare a valorizzare meglio il suo passato e la sua storia. Ecco mentre scrivo queste cose mi viene in mente un’idea. A breve la città rientrerà in possesso di uno dei suoi più importanti gioielli: la Reggia dei Giudici d’Arborea, oggi carcere mandamentale, in Piazza Manno, l’antica “Praza de Sa Majoria”.


E’ probabile che la sua antica struttura, pur ricoperta dai tanti strati successivamente aggiunti, sia ancora integra. Il mio invito, allora, è che si faccia di tutto per recuperarla e restituirla alla fruizione del pubblico. Per Oristano sarebbe un regalo di valore inestimabile. Dirò di più. Proprio in questo antico luogo ritrovato, pur privato della sua torre di “Porta a mari”, inopinatamente demolita ai primi del ‘900, potrebbe trovare collocazione un grande museo che potrebbe chiamarsi “Museo del Giudicato d'Arborea”, dove raccogliere e collocare tutto quello che ricorda il nobile passato di Oristano, gloriosa Capitale Giudicale.

Di questo museo i plastici ed i disegni di Augusto Schirru sarebbero certamente una parte importante e determinante, sicuramente indispensabile.

Grazie a tutti dell’attenzione.

Mario


mercoledì, maggio 02, 2012

ORISTANO CAMBIA PELLE: "NOTTE BRAVA, LA CITTA' CHE RIVIVE". COME TRASFORMARE UN SOGNO...IN REALTA'!

Oristano, 2 Maggio 2012

Cari amici,

credo che per raggiungere i traguardi, soprattutto quelli importanti, sia necessario essere tenaci e costanti, senza mai arrendersi ai prevedibili insuccessi ed alle difficoltà.

Il progetto che questi giorni si è realizzato, credo con grande soddisfazione di tutti, ci da la dimensione di quanto la mia precedente affermazione possa essere considerata valida.

“NOTTE BRAVA LA CITTA’ CHE RIVIVE” questo il titolo che è stato dato al progetto oristanese, studiato per dare una prima “risposta” a tutti i cittadini, consapevoli del forte bisogno di pulizia che c’è anche nella nostra città.

Il Progetto “Notte brava”, che fa parte di un Bando della RAS, Assessorato della difesa dell’ambiente, è stato concepito e finanziato per concretizzare quelle “azioni di educazione all’ambiente e alla sostenibilità”, attraverso le Onlus che operano nel campo della sostenibilità ambientale e sociale.

L’iniziativa sviluppata nella nostra Città ha inteso valorizzarla , abbellendola attraverso diverse azioni , concentrandosi su una particolare porzione del centro storico di Oristano, comprendente il monastero di S. Chiara. Gli interventi, destinati alla pulizia ed all’abbellimento floreale della zona interessata, sono stati assegnati agli studenti delle classi 3^ A, 3^ B e 2^ F del corso serale dell’Istituto d’Arte di Oristano.

Il progetto regionale, gestito dalla Cooperativa Digitabile Onlus, in stretta collaborazione con il SIL- Patto territoriale Oristano, annovera non pochi “Partner”, che hanno chiesto ed ottenuto di far parte dell’operazione: Eccoli.


Presentando il progetto il Commissario del Comune di Oristano, Dr. Antonello Ghiani, nella Conferenza stampa , tenuta unitamente al Presidente della Cooperativa Digitabile Giorgio Oggiano, al Presidente del PTO-SIL Celeste Salaris, al Curatore dell’Antiquarium arborense Raimondo Zucca e alla responsabile del progetto Stefania Carletti, ha sostenuto che: “…si parte dalla formazione all’interno della scuola e si arriva al ripristino, restauro, pulizia e abbellimento dell'area intorno al Monastero di S. Chiara e delle mura di alcuni edifici circostanti”.

Scelta felice, quella fatta, perché il Monastero di Santa Chiara e la zona intorno al complesso religioso, costituiscono una delle aree più belle del centro storico cittadino. Gli oristanesi vivono con grande affetto questo nobile ed antico luogo, e vederlo ripulito e riportato al decoro ed alla dignità che merita potrà, oltre che essere un “piacere grande”, essere un monito ed un forte invito ai giovani ed alle nuove generazioni, per inculcare Loro il rispetto nei confronti del grande patrimonio culturale della città.

Il CLUB ROTARY di Oristano a cui appartengo ha raccolto con gioia l’invito a far parte del progetto. Del resto l’obiettivo numero uno del Club per questo anno rotariano è proprio quello del “decoro” della nostra Città!

Oltre che partecipare ai lavori di pulizia previsti, il nostro club si è accollato anche l’onere di portare avanti il concorso “Case Fiorite”, che potrà completare, in modo degno, la brillante iniziativa. In poco tempo il progetto è stato portato avanti e realizzato.

Dopo una razionale preparazione ed a conclusione di un percorso prima teorico e poi pratico che ha coinvolto non solo i ragazzi prima citati dell’Istituto d’Arte ma anche i loro insegnanti, Venerdì sera la squadra dei ragazzi ha iniziato il lavoro di ripulitura degli antichi muri del Monastero; sono state abrase non solo le scritte insulse e volgari, ma si è cercato anche di ridare uniformità alle zone ripristinate. Alcuni ragazzi della squadra provvedevano, nel frattempo, a ripulire le strade dalle erbacce, dai rifiuti e dalla spazzatura. Negli spazi liberati sono state poi messe a dimora piante e fiori, recuperando in parte le vecchie fioriere sgangherate diventate cestini porta rifiuti, e sistemandone di nuove, realizzate con materiali riciclati o costruite da loro stessi o dai loro compagni nei laboratori di ceramica della loro scuola.

A guardare oggi, alla luce del sole, questo angolo pieno di storia si resta in parte stupiti e piacevolmente soddisfatti. Spostandosi, poi, dalla piazzetta della Chiesa verso il portico di S. Chiara si prova un senso di pace e di raccoglimento, agevolati dal modificato spazio circostante, reso pulito e profumato dei fiori di fresca messa a dimora.

Percorrendo lentamente il portico (l’antico denominazione era “Su brocciu de Santa Crara”), ripulito e ridipinto di un tenue colore giallo, si prova un piacere da tempo sconosciuto. I delicati fiori dipinti sulle pareti rinnovate strappano un sorriso anche al passante frettoloso. Ci si ferma incuriositi a leggere il contenuto dei pensieri che i ragazzi hanno voluto riportare per sensibilizzare tutti: vecchi e giovani. La città è un bene prezioso, patrimonio di tutti, e tutti siamo tenuti a rispettarla e farla rispettare.

Ecco uno scorcio che evidenzia la positività dei ragazzi:


Sono parole semplici, ma di grande efficacia. Credo che loro ne siano ben coscienti e sono convinto che il “loro futuro pulito” lo sapranno costruire con forza e determinazione.

Operazione, questa di “Notte Brava”, che potremo considerare quasi una provocazione, nei confronti dei non pochi vandali e delle "bande" di ragazzi e ragazzini che la notte frequentano quegli angoli bui della città. E’ una scommessa che Oristano si augura di vincere. Per il momento, a distanza di una settimana dalla “pulizia” il portico è ancora intatto, anche se qualcuno ha scommesso che non passeranno molti giorni prima che si debbano “raccogliere i cocci”. Sarebbe davvero un peccato che un lavoro particolarmente impegnativo, come quello fatto nel portico di S. Chiara, che collega via Santa Chiara a piazza Tre Palme, venisse riportato allo scempio precedente. Basterebbe un attimo di riflessione per notare quale abissale differenza passa tra il precedente strato di "graffiti" che lordava le pareti, prodotto da diverse generazioni di presunti o sedicenti "writers", e lo stato attuale, che vede, ora, le rinnovate e linde pareti piacevolmente decorate con tanti coloratissimi fiori.

La "Notte brava" dei ragazzi dell'Artistico è terminata Venerdì a sera inoltrata, intorno alle 21, ma già due ore prima, con una cerimonia formale essi avevano provveduto a restituire al Commissario straordinario, Dr. Antonello Ghiani, il pezzo di città che avevano ricevuto in consegna dalle sue mani qualche mese prima, con l’impegno (mantenuto) di rimetterlo a nuovo.

Evento dimostrativo, quello realizzato, che certamente non può certo bastare a restituire all’intero centro storico un aspetto di decoro. Per restituire decoro alla Città non basteranno le iniziative estemporanee, che possono essere considerate solo come esempio e stimolo. In futuro serviranno scelte urbanistiche di lungo periodo, che favoriscano il recupero del cuore antico della città che ha un passato che merita e che reclama dignità e decoro. Tutto questo, però, non basterà. Servirà, soprattutto, costruire in tutti i cittadini, partendo proprio dai giovani, una diversa cultura della cosa pubblica, del rispetto dell’ambiente e dell’educazione civica. Con la forza, necessaria in una prima fase, non si arriva lontano, come l’inasprimento delle pene per i reati ha dimostrato. Prevenire educando è meglio che reprimere, dopo, punendo.

Per ora, cari amici, apprezziamo il positivo segnale dato a grandi e piccoli dal successo di questa “Notte Brava”, che ha trasformato, in un piccolo spazio della nostra città, un “sogno in una bella realtà”!

Grazie a tutti dell’attenzione.

Mario