giovedì, febbraio 29, 2024

L'IMMENSO DESERTO DEL SAHARA? UNA VOLTA ERA UNA TERRA FERTILE E RIGOGLIOSA! I PERCHÉ DELLA TERRIBILE TRASFORMAZIONE...


Oristano 29 febbraio 2024

Cari amici,

Oggi è l'ultimo giorno di febbraio di quest'anno bisestile, speriamo non proprio troppo...sfortunato, vista la scaramanzia che lo accompagna! Per chiudere questo mese voglio affrontare con Voi un problema che ritengo alquanto serio: la desertificazione di molte zone della terra. Il deserto del SAHARA, per esempio, oggi il deserto caldo più grande del Pianeta (ha un'estensione in lunghezza di oltre 5.000 chilometri e una superficie di 9 milioni di chilometri quadrati), era, un tempo lontano, una terra fertile, ricca di vegetazione e foreste. Tra gli 11 mila e i 5 mila anni fa, dopo la fine dell’ultima era glaciale, quello che oggi è un immenso deserto era diventato, invece, un grande, verde paradiso. Oltre alla vegetazione, che si sviluppava in un clima alquanto favorevole (quello dove oggi vediamo le immense dune sabbiose), crescevano rigogliosi tanti alberi e folta vegetazione. Le precipitazioni erano abbondanti e avevano creato fiumi e laghi. In questo luogo ameno pascolavano animali come ippopotami, antilopi, elefanti e gli uri, i progenitori dei bovini domestici.

Tutto questo avveniva pressappoco tra il 7000 e il 3000 avanti Cristo, periodo in cui si sviluppavano diverse civiltà, come quella mesopotamica, sumerica e quella dell'antico Egitto. Poi, col passare dei secoli, lentamente ma inesorabilmente,  iniziò a manifestarsi la desertificazione che ha portato allo stato attuale. Indubbiamente un cambiamento catastrofico, se pensiamo che il Sahel anche al tempo dei Romani era una florida savana! Da lì provenivano le "fiere" utilizzate nei giochi dei gladiatori, così come gli elefanti che per primo Annibale portò in guerra.

Amici, furono diverse le ragioni climatiche che portarono questi cambiamenti epocali e che distrussero quel territorio, trasformandolo da positivo in negativo. Man mano che le piogge diminuivano, i periodi di siccità aumentavano, e così cominciò la fine del Sahara che, da oasi lussureggiante e verdeggiante, si trasformò in deserto. Pensate, allora, prima dell’arrivo del deserto, il lago Ciad era più grande del mar Caspio! Ancora cinquant'anni fa le acque del Ciad occupavano 26mila chilometri quadrati, oggi ridotti a meno di 5000 e con le sponde affollate da una numerosa popolazione di rifugiati climatici, considerata la più grande al mondo.

Gli studiosi continuano ad interrogarsi per arrivare a scoprire le reali cause di questo immane disastro, ovvero come si sia potuti passare dalla condizione pluviale a quella arida; è questo un interrogativo che crea grande preoccupazione, perché i cambiamenti climatici creano danno immensi agli abitanti del pianeta. Una delle possibili cause, come accennato, è attribuita ad una variazione del movimento orbitale della Terra, cosa che può aver causato l'indebolimento del monsone, e, di conseguenza, si sia al contempo potenziato l'effetto dell'irradiazione solare sulla regione, ma di certo anche altre cause hanno contribuito alla catastrofe.

Il professor David Wright, docente al dipartimento di studi paleo-archeologici dell'Università di Seul, ha affermato che la ragione dell'inaridimento sarebbe stata causata, oltre che dall'inclinazione dell’asse terrestre, anche dall’azione umana. Nel suo studio pubblicato su Frontiers in Earth Science, il professor Wright sostiene che certe variazioni importanti sono dovute anche all’intervento umano, che, insieme ad altri ha contribuito al cambiamento. Fra gli esempi che ha voluto citare c'è quello che ha interessato l'isola di Pasqua - Rapa Nui nella lingua indigena - dove ricerche recenti hanno messo in luce l'impatto avvenuto sull’isola con l’arrivo degli europei o, meglio, dei topi sbarcati dalle loro navi, come fattore distruttivo dell'ecosistema e quindi delle risorse di sostentamento per la biosfera locale.

Sempre secondo il professor Wright, nel Neolitico in Africa si è verificata un'intensa pressione delle popolazioni umane sulle risorse, dovuta sia alla crescita delle economie pastorale ed agricola, oltre che delle costruzioni; come è avvenuto in Nuova Zelanda dove, con l'arrivo degli europei, le foreste sono diventate pascoli per pecore, o negli Stati Uniti dove la prateria che nutriva i bisonti è stata trasformata in foraggio per mandrie d'allevamento, determinando alle latitudini meridionali, come in Texas, l'erosione della savana in steppa semiarida.

Cari amici, indubbiamente l’intervento apportato dall’uomo sull’equilibrio naturale ha causato e può ancora causare danni anche irreparabili, come è avvenuto nel Sahara: al posto delle antiche querce, inizialmente sono sopravvissuti degli arbusti, ma il terreno, ormai privo della protezione delle chiome degli alberi, ha subito la forte irradiazione diretta solare, che ha bruciato gli arbusti, creando così il deserto! Purtroppo, dopo un certo arco di tempo, il deserto prende  il sopravvento sui diversi biotopi prima presenti. Ciò è dimostrato dagli studi recenti, che attribuiscono all’uomo colpe importanti nelle pericolose variazioni climatiche che ci tormentano. Il problema è alquanto serio! Stiamo perciò davvero attenti, perché le attuali temperature potrebbero diventare ben più calde in futuro, con impatti sicuramente devastanti sulla vita del nostro pianeta!

A domani.

Mario

mercoledì, febbraio 28, 2024

SCOPERTO L'INTEGRATORE CHE SALVA IL CERVELLO CHE INVECCHIA: È LA PALMITOILETANOLAMIDE, UN COMPOSTO ORGANICO PIÙ NOTO COME “PEA”.


ORISTANO 28 Febbraio 2024

Cari Amici,

Nell’ambito delle cure per la salute mentale, di recente si è inserito un nuovo composto che risulta essere di grande efficacia. Si tratta di un composto organico, presente in alimenti come uova, piselli, pomodori e soia, che non solo ha confermato la sua utilità come potente antinfiammatorio naturale, ma è stato trovato adatto anche ad un uso ben più importante. Questo composto organico è la Palmitoiletanolamide, sostanza più conosciuta come PEA, che ha dimostrato delle straordinarie proprietà nella cura e nella prevenzione di disturbi neuro cognitivi.

Questo farmaco si candida, dunque, a diventare l'integratore del futuro, ottimo ricostituente per il benessere del nostro cervello, ovviamente da affiancare ai farmaci. La PEA, inoltre, si è rivelata anche essere il primo biomarcatore naturale per la diagnosi precoce delle psicosi. Su questo nuovo composto organico si sono puntati i riflettori degli esperti della Società di Neuropsicofarmacologia (SINPF), riuniti a Milano per il loro XXV Congresso nazionale.

La PEA, amici, era già nota e utilizzata come “integratore”, per i suoi effetti analgesici e antinfiammatori, dimostrandosi «fondamentale per il benessere del sistema nervoso centrale», come hanno spiegato i neuro-psicofarmacologi, grazie alla sua azione sul sistema degli endocannabinoidi, coinvolto in funzioni essenziali come la memoria, il dolore, l'umore, l'appetito e la risposta allo stress. In futuro gli esperti prospettano un impiego dell'integratore «anche per contrastare problemi di memoria e declino cognitivo».

La PEA, di norma è una sostanza prodotta dal nostro organismo, ma diminuisce, però, con l’avanzare dell’età; essa risulta essenziale, in quanto protegge i neuroni, per cui, avere la giusta quantità, consente di migliorare la memoria, il linguaggio e la funzionalità cognitiva nelle attività della vita quotidiana. Claudio Mencacci, co-presidente SINPF e direttore emerito di Neuroscienze all'ospedale Fatebenefratelli Sacco di Milano, ha detto: «Le ricerche hanno dimostrato che la PEA ha le potenzialità per proteggere i neuroni: può migliorare funzioni come la memoria e l'apprendimento riducendo lo stress ossidativo e l'espressione di marcatori pro-infiammatori, e riequilibrando la trasmissione eccitatoria cerebrale».

Amici, con l’invecchiamento dovuto al passare degli anni, purtroppo nel nostro cervello i livelli di PEA endogena diminuiscono, aprendo così la strada all’utilizzo dell’integratore di PEA, che ha già dimostrato di ridurre i sintomi psicotici e maniacali senza creare gravi effetti collaterali. Gli specialisti prevedono anche un suo impiego futuro per contrastare problemi di memoria e declino cognitivo, poiché la Pea, che riesce a proteggere i neuroni, è certamente in gradi di migliorare in modo eccellente il nostro cervello, in particolare la memoria, il linguaggio e le funzioni cognitive.

Cari amici, i dati più recenti, provenienti da studi clinici, indicano che la PEA può sicuramente diventare un valido alleato contro i disturbi prima evidenziati, potenziando i delicati processi di riparazione della nostra memoria. Nonostante la ricerca debba ancora confermare definitivamente queste ipotesi, la PEA rappresenta già una prospettiva promettente per il futuro delle cure neuro-cognitive. Indubbiamente, credetemi, c’è da ben sperare!

A domani cari lettori.

Mario

martedì, febbraio 27, 2024

LA RISCOPERTA DI UN'ANTICA RICETTA: “PASTA E FAGIOLI”, UN PIATTO POVERO, CHE IN PASSATO, PER I CETI MODESTI, SOSTITUIVA LA CARNE.


Oristano 27 febbraio 2024

Cari amici,

I FAGIOLI non sono legumi originari dell’Europa ma vi arrivarono, provenienti dal Nuovo Mondo, dopo la scoperta delle Americhe fatta da Cristoforo Colobo. In Messico venivano coltivati già 7000 anni fa, e al rientro in Europa, gli spagnoli e i portoghesi li introdussero poi nel nostro Continente, dove diventarono un cibo alquanto utilizzato dal ceto povero, quello dei lavoratori e dei contadini. Per il loro alto valore energetico, e per l’apporto proteico, i fagioli furono coltivati in molte zone d’Italia fin dall’epoca medioevale, ed i contadini stessi iniziarono a cibarsene quotidianamente come sostituto della troppo costosa carne, ottenendone quasi gli stessi benefici nutritivi.

Attorno al 1530, non molto tempo dopo l’arrivo di questa pianta dall’America, coltivare fagioli divenne una pratica abbastanza diffusa in quasi tutta l’Europa, e, grazie alle proprietà nutritive e proteiche, i fagioli entrarono nell’alimentazione corrente, diventando presto uno dei protagonisti principali dei pranzi non solo del ceto povero ma anche dei ceti nobili; Caterina dè Medici, tanto per citare un nome autorevole tra i tanti, se ne innamorò a tal punto da viaggiare sempre con la sua scorta personale di fagioli in valigia.

In Italia, amici, Nazione considerata la patria della pasta, i fagioli trovarono con questa un felice abbinamento, che col tempo diventò un concreto simbolo della cucina italiana nel mondo. Nell’immaginario collettivo, la PASTA E FAGIOLI, questo piatto semplice, ma ricco di sapore e tradizione, divenne parte integrante ed essenziale della cucina italiana: rappresentava l’amore per gli ingredienti di qualità, la passione per la cucina fatta in casa e l’importanza della condivisione a tavola.

Si amici, in tempi di carestia, in particolare nel periodo delle guerre, per il ceto povero la pasta mischiata con fagioli, rappresentò non solo il necessario nutrimento ma la giusta ricompensa per il lavoro e la fatica svolta; un pasto proteico di mangiare tutti insieme a tavola, con il sorriso e la voglia di continuare a combattere le difficoltà della vita. Un piatto che, col passare del tempo, non è mai tramontato, ma è rimasto sempre sulla cresta dell’onda per il suo diffuso gradimento. Una tradizione, dunque, che continua il suo percorso senza timore, tanto che anche oggi un “Piatto di pasta e fagioli”, consumato ben caldo durante i mesi invernali, quasi sempre accompagnato da un bel bicchiere di vino rosso come accessorio indispensabile e complementare, continua a deliziare chi lo porta a tavola, confermando il forte gradimento per la conservazione di questo piatto, parte della lunga e consolidatala tradizione italiana.

Oggi, amici, troviamo al supermercato numerosi tipi di fagioli: borlotti, cannellini, bianchi di Spagna, Lima, fagioli verdi, e molti altri con caratteristiche e colorazioni leggermente diverse una dall’altra, ma sempre ottimi per realizzare i piatti che più ci gratificano. Lasciando ad ognuno la libertà di interpretare come meglio crede questo piatto nella sua preparazione, scopriamo insieme quali sono gli ingredienti basilari che servono, a prescindere dal modo di cucinarli.

Per preparare un piatto di pasta e fagioli per 4/5 persone, servono: 250 gr. di fagioli (per esempio borlotti secchi), 350 grammi di pasta corta di grano duro, 250 grammi di polpa di pomodoro, una carota tagliata a pezzettini piccoli, aglio, alloro, olio extravergine di oliva, guanciale di maiale, un pezzetto di cipolla ed un piccolo gambo di sedano, oltre ovviamente ai soliti sale e pepe quanto basta ed alla giusta buona predisposizione d’animo per cucinare questo piatto. Ovviamente sono davvero possibili molte variazioni sul tema!

Cari amici, personalmente apprezzo la pasta e fagioli preparata in modo alquanto semplice, e sostituisco volentieri la carne con questo piatto. Credo che la pasta e fagioli sia un piatto da consumare e da conservare, nel senso di trasmettere la ricetta alle nuove generazioni, che mai debbono dimenticare certi prodotti che hanno avuto in passato una grande importanza, costruendo, in senso alimentare, intere generazioni.

A domani.

Mario

lunedì, febbraio 26, 2024

L'ISOLA DI TRISTAN DE CUNHA, IL POSTO PIÙ REMOTO DEL PIANETA! I POCHI ABITANTI VIVONO UNA FORMA DI DEMOCRAZIA DELL’UTOPIA, OVVERO DELL'UGUAGLIANZA PER TUTTI.


Oristano 26 febbraio 2024

Cari amici,

Viviamo un mondo davvero caotico, in particolare per chi abita nelle grandi città (senza parlare, poi, delle megalopoli), dove muoversi, viaggiare, parcheggiare, lavorare e mangiare è così stressante da creare sindromi pericolose che colpiscono sempre di più. Immaginiamoci, invece, cosa può significare vivere in un’isoletta di pochi chilometri quadrati, posta in mezzo all’Oceano, distante oltre 2 mila chilometri dal centro abitato più vicino (il viaggio in nave dura oltre 7 giorni), abitata da poche centinaia di persone! Quest’isola esiste davvero, ha una lunga storia ed i suoi pochi abitanti non cambierebbero a nessun prezzo la loro vita, svolta su questo piccolo lembo di terra sperduta nell’Oceano!

Quest’isola si chiama TRISTAN DA CUNHA Territorio britannico d'Oltremare), è di forma circolare, piccola (ha una superficie di appena 78 km quadrati) ed è sperduta nell’oceano. Quest’isolotto ha una storia alquanto interessante, iniziata nel 1506, quando la flotta del navigatore portoghese Tristão da Cunha, che operava agli ordini di Alfonso de Albuquerque, primo Viceré delle Indie Portoghesi, durante il viaggio verso Oriente, fu colpita da una violenta tempesta presso il Capo di Buona Speranza. La nave di Tristao trovò approdo su questo lembo di terra sperduto nell’oceano, lontano da ogni altra Comunità umana. Isola davvero sperduta, se pensiamo che le uniche isole vicine si chiamano Inaccessible Island e Nightingale Island (da sempre disabitate), mentre l’isola abitata più vicina (che dista oltre millecinquecento chilometri) è quella di Sant’Elena, ben nota in quanto vi fu mandato in esilio Napoleone.

Il capitano portoghese, appena terminato il fortunale, fuggì via da quell’isola disabitata dove pioveva sempre, era battuta da forti venti ed era spesso avvolta dalla nebbia (vi dimoravano in solitudine foche, leoni marini, albatros e pinguini Rockhopper); prima di partire segnò sulla carta nautica col suo nome l’isolotto, e proseguì il suo viaggio. L’isola, però, col passare del tempo non rimase disabitata. Nei secoli successivi fu inizialmente utilizzata dai marinai come scalo e fonte di acqua durante le traversate Atlantiche, poi, nel diciannovesimo secolo vi si insediarono i primi abitanti stabili: i primi furono tre naufraghi, arrivati mezzo morti, portati li dalla corrente. Il più vivo dei tre, tale Jonathan Lambert, vi si stabilì, e il 27 dicembre del 1810 si autoproclamò proprietario dell’isola.

Ebbene, ambientatisi rapidamente, i tre iniziarono ad amare quel luogo fuori dal mondo! Seppure nell’Ottocento gli affollamenti delle grandi città non fossero quelli odierni, per una strana ragione a loro quel posto esercitava un insano fascino, tanto che, qualche tempo dopo, una baleniera di passaggio, sbarcata sull’isola per fare acqua, li invitò ad imbarcarsi per riportarli nel mondo civile, ma nessuno dei tre volle essere “salvato”! Tutti e tre preferirono restare lì, cambiando ufficialmente il loro status da “naufraghi” a “primi abitanti dell’isola”. Era l’inizio della colonizzazione di quell’isola, ed ai primi abitanti ne seguirono degli altri, e arrivarono anche alcune donne provenienti dall’isola di  Sant’Elena.

Quando nel 1892 il brigantino Italia fece naufragio da quelle parti, gli unici superstiti (gli Italiani Gaetano Lavarello e Andrea Repetto) trovarono ad accoglierli una Comunità di una cinquantina di abitanti in pianta stabile, ai quali si unirono con entusiasmo. Scoppiata la Seconda guerra mondiale, l’Alto Comando Britannico diede all’isola un importante valore strategico, e vi inviò dei soldati a presidiarla. A questo punto gli abitanti dell’isola erano diventati circa duecento, ricevevano rifornimenti dalla terraferma circa una volta ogni due mesi, e commerciavano tra loro utilizzando il baratto.

Iniziava così, a TRISTAN DA CUNHA,  lo svolgersi di una certa “autonoma vita sociale”, sia informativa che commerciale; addirittura, un certo Alan Crowford, utilizzando un ciclostile, stampò per la Comunità un mini-giornale, il cui costo fu fissato in tre sigarette, o in alternativa quattro grandi patate (frutto della coltivazione agricola dell’isola)! Al termine della guerra i soldati andarono via, lasciando però in eredità agli abitanti i rudimenti base del sistema monetario ed un ospedale da campo che rappresentava la prima struttura sanitaria stabile dell’isola. La Comunità era ormai stabile: gli abitanti aumentavano e nel 1963 i residenti erano diventati 248.

Il 1963 fu per l’isola un anno particolare: il vulcano presente manifesto con forza la sua attività e il governo di Sua Maestà, che ha sempre avuto a cuore la sicurezza dei suoi sudditi, si premurò di evacuare gli abitanti, portandoli in salvo a Londra, allora vero cuore pulsante della civiltà europea. Esaurita l’attività vulcanica nell’isola, il governo inglese chiese agli abitanti dell’isola che erano stati evacuati di esprimersi circa il ritorno a TRISTAN DA CUNHA, oppure restare in Inghilterra.

In realtà tutti si aspettavano che il gruppo, oramai entrato nel sistema civile, chiedesse di restare a Londra, nel mondo consumistico organizzato, ma non fu così. Incapaci di resistere alle lusinghe del sistema capitalistico i "profughi dell'isola", nonostante fosse stato addirittura organizzato, a scopi propagandistici, un referendum, decisero di tornare sull'isola! Dei 153 votanti, infatti, ben 148 si espressero per l’immediato rientro TRISTAN DA CUNHA! Era la “loro isola, che, seppure battuta dai venti e dalla pioggia, era diventata il loro mondo, dove essi vivevano con gioia l’essere “tutti uguali”, usando l’antico sistema commerciale del baratto, trascorrendo la loro vita comunitaria in pace, operando come coltivatori, allevatori e pescatori. Nessuno se lo sarebbe aspettato, ma loro chiesero di ritornare a casa!

Amici, oggi l’isola conta 294 abitanti, prevalentemente divisi in 9 gruppi familiari, due dei quali portano i cognomi Repetto e Lavarello, diretti discendenti dei due naufraghi di Camogli. L’isola è ora collegata con il mondo con 12 navi all’anno (circa una al mese), sull’isola a tutt’oggi non esiste la proprietà privata, sono in funzione l’ospedale, la scuola e un Pub, “l’Albatros”. Coltivano, allevano e pescano buonissime aragoste. Loro sono così felici di una vita “fuori dal tempo e dalla civiltà”, tanto che sono gelosissimi del loro isolamento: ottenere un visto turistico è piuttosto complicato, farsi rilasciare un permesso per un trasferimento definitivo è addirittura difficilissimo!

Cari amici, in realtà una vita come quella degli abitanti di TRISTAN DA CUNHA fa di certo riflettere non poco tutti noi, ormai schiavi della civiltà commerciale! Chi è tormentato dallo stress in una grande città indubbiamente sogna di vivere in un posto così: senza giornali, Tv, aeroporti, porti, macchine, tribunali, stadi, alberghi, campi di calcio, Padel e mille altre diavolerie. Un posto come questo, in realtà viene visto in due modi diversi: per alcuni un totale isolamento è visto come un inferno, per altri, invece come un Paradiso che fa sognare! 

A domani.

Mario

domenica, febbraio 25, 2024

PER DIMAGRIRE BISOGNA METTERSI A DIETA. TRA I TANTI MODI PER FARLO, ECCONE UNO: IL DIGIUNO INTERMITTENTE.


Oristano 25 febbraio 2024

Cari amici,

Che l’obesità, in particolare nei Paesi industrializzati sia in costante aumento è un dato incontestabile. Nel maggio 2022 l'Ufficio regionale europeo dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha presentato e pubblicato il Rapporto 2022 sull'obesità. Dal documento è emerso che il 59% degli adulti europei e quasi 1 bambino su 3 (29% dei maschi e 27% delle femmine) è in sovrappeso o è affetto dall'obesità, ormai considerata una vera e propria malattia.

Si, una vera e propria malattia, certamente derivata anche da tutta una serie di cibi elaborati, complessi, con grassi idrogenati, somministrati ai bambini fin dalla più tenera età, ma non solo. L’obesità, come viene anche evidenziato nel rapporto, è una malattia complessa, derivante anche da altre cause come le disfunzioni ormonali, ma certamente, nella gran parte dei casi, derivata da errata alimentazione, per cui una delle possibili soluzioni è certamente quella di mettersi a dieta, ovvero alimentarsi in modo corretto.

Sul tema delle “diete dimagranti” sono stati scritte tante di quelle ricette da poter costituire una immensa enciclopedia, dove si consiglia di tutto e di più. Ebbene, su questo campo si affaccia una proposta che appare interessante: dividere la giornata in spicchi, in alcune ore si mangia in altre no. In sintesi il consiglio è: “Bisogna sapere come mangiare ma anche come digiunare”! Il consiglio non è così difficile da capire, nel senso che in un certo numero di ore non si deve mangiare!

In realtà, come tutti ben sappiamo, cari amici, riuscire davvero a non mangiare per molte ore non è proprio facile! Eppure pare proprio che questo metodo, che prende il nome di “DIGIUNO INTERMITTENTE”, risulti utile praticarlo, in quanto in grado di apportare seri benefici all’organismo, e allo stesso tempo facendoci perdere il peso che si ha in eccesso. In sostanza viene definito un metodo che aiuta a: perdere peso e guadagnare in salute. Vediamo meglio il funzionamento di questo metodo.

Questa dieta parte dal presupposto, come accennato prima, che la giornata va divisa in periodi: in alcune ore si può mangiare mentre in altre si deve digiunare. Esistono diversi metodi per impostare una dieta a digiuno intermittente. È un modello alimentare durante il quale non si assumono alimenti per un certo periodo di tempo che solitamente varia dalle 12 alle 40 ore. Questo approccio alimentare non fornisce indicazioni su quali cibi mangiare e in che quantità, ma unicamente quando assumerli. Durante il digiuno sono ammessi acqua, caffè e tè non zuccherati, ma non sono ammessi cibi solidi o bevande contenenti calorie, come succhi di frutta o bevande zuccherine.

Come può rilevarsi dallo schema, si digiuna per due cicli (dalle 20,00 alle 6,00 e dalle 6,00 alle 12,00 ore) e si “mangia in 3 cicli (12,00 – 16,00 e 20,00) per complessive 8 ore. Si digiuna dunque per 16 ore e si mangia per 8 ore.  Il digiuno intermittente è un modello alimentare durante il quale non si assumono alimenti per un certo periodo di tempo. Questo approccio alimentare, come detto prima, non fornisce indicazioni su quali cibi mangiare e in che quantità, ma unicamente "quando assumerli". Durante il digiuno, dunque, niente assunzione di calorie, in particolare cibi solidi o bevande caloriche.

Amici, di digiuni intermittenti ne esistono tante varietà, ma quello che ho riportato credo che sia quello più usato e, comunque, i benefici di questo modello dietetico sono considerati di buon livello. C’è da dire che questo metodo risulta molto popolare anche tra le star, come ad esempio Gwyneth Paltrow e Jennifer Aniston, anche se tuttavia c'è da dire che non esiste unanimità di vedute sulla sua reale efficacia da parte degli esperti.

Cari amici, credo che, come in tutte le cure, è il soggetto che, una volta che prova, ne ricava la sua convinzione: se funziona o no. Mettersi comunque a dieta è necessario, e la cosa più importante e non lasciarsi tentare “Dal fai da te”, perché la salute va sempre gestita da un medico specialista. Una dieta equilibrata, seguita dal professionista è indubbiamente non solo utile ma necessaria! Star bene in forma e in salute in realtà ci fa vivere meglio e più a lungo!

A domani.

Mario

sabato, febbraio 24, 2024

LA SARDEGNA CON I SUOI VITIGNI AUTOCTONI ENTRA NEL MERCATO DEGLI SPUMANTI. IL PROGETTO “AKINAS SPIN OV”, LANCIATO DA AGRIS SARDEGNA.


Oristano 24 febbraio 2024

Cari amici,

È in corso un innovativo progetto riguardante il vino prodotto dai “vitigni autoctoni” della Sardegna. Portato avanti da AGRIS-SARDEGNA, il progetto intende non solo rivitalizzare le uve andate nel dimenticatoio, ma addirittura utilizzarle per produrre nuovi vini spumanti. Al progetto è stato dato il nome di “AKINAS SPIN OV”, acronimo di spumanti innovativi ottenuti da vitigni autoctoni. Portato avanti da AGRIS, unitamente a SARDEGNA RICERCHE, l’operazione ha coinvolto oltre 20 imprese, tra cantine e aziende agricole.

L’iniziativa tendente a valorizzare le uve sarde prodotte esclusivamente da vitigni autoctoni è apparsa subito di grande interesse, e la partecipazione inziale è ritenuta alquanto gradita e interessante. Ovviamente bisogna prendere atto che un nuovo prodotto non si crea da oggi a domani, ma è necessario un investimento pluriennale, con lo scopo finale di ottenere nuove, gradite tipologie di prodotto, nella filiera vitivinicola sarda, operazione che risulta finanziata con il PorFesr 2014/20.

I ricercatori si sono già messi all’opera, avendo già individuato e selezionato diversi vitigni autoctoni dagli aromi inconfondibili, ritenuti ideali per la spumantizzazione; con il coinvolgimento di  esperti, tecnici ed imprenditori, i primi risultati sono apparsi di ottimo livello, tanto che è stata già predisposta una pubblicazione dal titolo "AKINAS SPIN OV - SPUMANTI INNOVATIVI DA VITIGNI AUTOCTONI", in corso di presentazione e diffusione.

Amici, la Sardegna annovera nel suo vasto territorio vitigni di notevole biodiversità, che costituiscono un importante patrimonio capace di produrre eccellenti vini spumanti. Nella prima fase del progetto sono state passate al setaccio le vecchie vigne dell'isola, anche quelle semi abbandonate, in modo da poter mettere a fuoco le diverse "carte d'identità" delle varietà trovate. Successivamente è iniziata la sperimentazione della spumantizzazione, sia col metodo classico che con lo charmat, operazione che ha dato risultati più che promettenti per oltre 25 vitigni, tra cui Granatza, Licronaxu, Pansale, Sinnidanu, Alvarega e Cranaccia Arussa.

Obiettivo del progetto, come accennato prima, quello di produrre uno spumante fortemente identitario, capace di differenziarsi positivamente dagli altri presenti sul mercato, riuscendo quindi a competere non solo in quantità ma soprattutto in qualità e personalità. Dai primi esperimenti ciò appare alquanto possibile, in quanto i vitigni sardi appaiono “con le carte in regola” per conquistare i consumatori con straordinarie bollicine dai toni fruttati, floreali e sapidi. La ricerca ha individuato inoltre una serie di antichi vitigni a maturazione tardiva (come il Bovale), varietà che rende i ceppi particolarmente resistenti al cambiamento climatico.

Amici, la Sardegna vanta una biodiversità viticola senza eguali, con varietà autoctone uniche al mondo e il progetto AKINAS SPIN OV rappresenta un punto di svolta nel mondo vitivinicolo sardo, segnando un importante cambio di passo rispetto al passato. Le bollicine sarde, in quest’ottica, non saranno solo una buona bevanda rinfrescante, ma rappresenteranno anche un’esplosione di biodiversità unica al mondo. Bisogna cogliere il trend in atto, che vede sempre più consumatori interessati ai prodotti legati alla tradizione e al territorio di provenienza, con particolare riferimento alla nostra isola, ricca di bontà senza eguali.

Il progetto AKINAS SPIN OV credo che potrà dare una grande opportunità al settore vitivinicolo della nostra isola, un’opportunità unica per le aziende vinicole sarde, che potranno capitalizzare sulla ricchezza presente nei vitigni autoctoni come Vermentino, Torbato, Nuragus, Semidano, Cagnulari, Cannonau ed altri. L’identità dei vini spumanti sardi saprà conquistare buone fette di mercato, aprendo interessanti scenari per le produzioni future, ottenendo un vantaggio competitivo nel contesto enologico internazionale.

Cari amici, come ha sottolineato anche di recente Gianni Lovicu, responsabile del settore vitivinicolo di AGRIS e padre dell’innovativo progetto: "AKINAS SPIN OV, “il nostro patrimonio vitivinicolo sardo, sotto certi aspetti unico al mondo, è sicuramente capace di   ottenere eccellenti vini moderni ed identitari dalle nostre uve antiche. I risultati già ottenuti indicano che con i nostri secolari vitigni, è davvero possibile produrre anche eccellenti vini spumanti".

A domani cari amici lettori.

Mario