martedì, novembre 29, 2011

IL COMPLESSO DI S. MARTINO: LUOGO DELLA FIRMA DEL TRATTATO CHE SANCIVA LA FINE DEL GIUDICATO D’ARBOREA.

Oristano 29 Novembre 2011
Cari amici,
oggi parliamo di uno dei più straordinari gioielli che la nostra Oristano giudicale annovera: il complesso di San Martino. Ecco un piccolo riassunto della sua gloriosa storia.

Il complesso religioso di San Martino (nelle vicinanze dell’odierno ospedale civile), sorgeva nelle campagne acquitrinose extramurarie poste a sud-ovest della città di Oristano, dove in antica epoca vi era stata una necropoli romana. Era posto accanto a quello che fu un convento prima benedettino, in seguito domenicano, e probabilmente anche scuola e poi ospedale con l’ordine degli Ospedalieri. Di impianto gotico, oltre ad essere una delle chiese più antiche di Oristano, è anche una delle più belle e significative dell’architettura giudicale arborense. I suoi ambienti raccontano la storia del Giudicato prima e del Marchesato poi.

I documenti che ne attestano e comprovano l'esistenza, risalgono al 1228 e attribuiscono il possesso ai monaci benedettini ai quali, il 28 gennaio dello stesso anno, il Giudice Pietro II lo donò; infatti lo stemma raffigurante i pali d'Aragona affiancati dall'albero diradicato arborense è tutt'oggi leggibile su un capitello della chiesa. Dal libro di Luigi Spanu (Storia e Statuti dei Gremi di Oristano – S’Alvure 1997) rileviamo, in parte, la sua storia.

La pianta originaria nacque con una sola navata con copertura lignea, sul fondo della quale, si apriva l'abside a pianta quadrangolare e volta a crociera. Nella parte sovrastante l'abside veniva collocata una bifora a sesto acuto, elemento ancora esistente dell'impronta gotica.

L’impianto principale iniziale fu successivamente ampliato con due nuove cappelle nel corso del XVI secolo e l’intera Chiesa ripavimenta in ardesia, dopo la rimozione della precedente pavimentazione in mattoni di terracotta e l’innalzamento del pavimento. Anche il soffitto ligneo fu sostituito con altro a “botte”. Nella seconda metà del ‘500 la Chiesa fu elevata in “Rettoria”, il convento ed i frutti dell’orto furono ceduti al teologo domenicano Giovanni Porcela di Stampace, di Cagliari, perché nel Monastero, - una donazione del XIII secolo che fino alla metà del Cinquecento era occupato dalle monache- , vi fossero istituiti i corsi scolastici di umane lettere, di filosofia e di teologia. Per un certo periodo la Chiesa ospitò anche l’ospedale in cui si svolgeva il servizio sanitario col medico, il chirurgo e il flebotomo. Diverse anche le proprietà del Convento: erano in suo possesso una ventina di case, due terreni ed una vigna, oltre ad altri beni minori avuti in dono dai Giudici d’Arborea.

Il Monastero di San Martino restò in possesso dei Benedettini dal 1415 al 1579, anno in cui termina la loro opera. Questo “tramonto" non si sa esattamente quando avvenne e se motivato dalla diminuzione delle vocazioni e la conseguente diminuzione del numero dei monaci, oppure per l’affermarsi dei Camaldolesi nell’Oristanese; più probabile l’ipotesi della pianificata e progressiva sostituzione degli ordini religiosi italiani con quelli spagnoli. Quest’ultima verosimile ipotesi è avvalorata dal fatto che la lingua correntemente parlata era senza dubbio, almeno dalla seconda metà del ‘500, il catalano, come era avvenuto nel sud dell’Isola, dopo l’affermarsi del dominio catalano-aragonese, e solo successivamente si passò allo spagnolo.

Il passare del tempo e l'opera dell'uomo, hanno in gran parte cancellato non solo gli splendidi arredi della Chiesa ma anche le strutture, in particolare quelle del vecchio monastero. Resta però visibile, anche se non è supportata da fonti documentarie, l'impronta gotica caratterizzata da leggerezza di linee e verticalismo. Oggi l'edificio si presenta con una facciata, rimodernata nel nostro secolo, attraverso stilemi neogotici.

Le pareti di questa chiesa sono state il teatro di uno dei più importanti atti della storia Sarda. Qui nel 1410, in seguito alla tragica sconfitta di Sanluri dell'esercito arborense (30 giugno 1409), la secolare avventura dello stato Arborense fu indecorosamente cancellata, con la firma della cosi detta “Pace di San Martino”. Leonardo Cubello, giudice reggente del Giudicato in nome di Guglielmo III, dopo essersi opposto strenuamente agli aragonesi si arrese alle maggiori forse nemiche guidate da Pietro Torrelles che il 25 marzo del 1410, partendo dal castello di Sanluri e dopo aver conquistato prima Bosa, dava l’assalto ad Oristano annientando l’ultima debole resistenza. La successiva resa incondizionata (nota come Pace di San Martino), firmata da Leonardo Cubello per il Giudicato e da Pietro Torrelles per gli aragonesi, sanciva la fine del Giudicato d’Arborea che diventava “Marchesato di Oristano”, sotto la giurisdizione del re di Spagna. Sarà proprio Leonardo Cubello ad essere nominato primo marchese di Oristano. Nell’anno appena trascorso (2010) cadeva il seicentesimo anniversario della caduta e della malinconica fine del Giudicato d’Arborea.

Nella Chiesa e nel Convento annesso nel corso degli anni vi fu un avvicendamento che vide l'ingresso al convento delle monache benedettine a partire dal 1470 e dei frati domenicani dal 1567. Dal 1832 ai nostri giorni la destinazione d'uso fu tramutata in ospedale. Accanto alla chiesa, nel lato sinistro, era stato edificato l’oratorio dei confratelli del Rosario. Era questa la Confraternita che si prendeva cura dei condannati alla pena capitale, che proprio in una cappella della Chiesa trascorrevano l’ultima notte prima dell’esecuzione. Questa cappella è posta sul lato sinistro della navata centrale (sul lato destro, invece, è allocata la Cappella presbiteriale) ed è detta proprio “Cappella del Rosario”, macabramente nota per la triste funzione svolta a partire dal 1600; in essa veniva permesso il pernottamento a scopo redentivo dei condannati a morte alla vigilia della loro esecuzione.

Come scrive Raimondo Bonu :

" …il condannato usciva dalla porta principale della chiesa e percorreva una sessantina di passi fino al posto del patibolo ( ndr. verosimilmente ubicato nel terrapieno di fronte alla Chiesa, ove oggi sorge il monumento a San Pio da Pietrelcina)…”.

L’esecuzione capitale avveniva in questa piazza e, successivamente, le teste dei giustiziati venivano portate all'interno della chiesa dove ornavano macabramente un’arcata dell’abside. Il cadavere del giustiziato veniva poi seppellito in un tratto rettangolare del terreno lungo la fiancata dell'abside esterna della Chiesa.


Originariamente l’altare di questa bella Chiesa, era ornato da uno splendido retablo, denominato il “Retablo di San Martino”. Questa preziosa opera lignea, di autore ignoto, è stata attribuita con buona probabilità al pittore catalano Mateu Ortoneda,, uno degli artisti spagnoli che tra il 1350 e il 1450, arrivano in Sardegna dalla Catalogna, tra i quali Joan Mates, cui si deve il retablo dell’Annunciazione nella chiesa di S. Francesco di Stampace, in stile gotico cortese. Di questo antico retablo della Chiesa di San Martino, attribuito a Mateu Ortoneda, restano tre belle tavole che, sapientemente restaurate, fanno bella mostra ora presso l’Antiquarium Arborense.

Oggi, a livello religioso, la Chiesa non ha il rango di “Parrocchia” della Città; la Curia Arcivescovile ne ha affidato l’amministrazione alla Parrocchia dei frati Cappuccini ed è custodita dalla Confraternita proprio del Rosario. I recenti restauri, durati a lungo, hanno rimesso in pristino l’antica costruzione che oggi si presenta ben conservata. I lavori hanno consentito di alleggerire l’edificio dalle successive quanto improprie ed inopportune aggiunte: nel corso dei secoli, infatti, la Chiesa ha subito vari interventi e ristrutturazioni, fra i quali l’intonacatura in età moderna, che ne avevano oscurato ed in parte pregiudicato, le caratteristiche peculiari.

La Chiesa è oggi fruibile al pubblico in quanto settimanalmente aperta. Nell’antica chiesa è possibile anche assistere alle funzioni cristiane di rito orientale, in quanto il sacro edificio è stato concesso in uso ai fedeli di rito cristiano-ortodosso, presenti in Oristano. Anche le celebrazioni pasquali del quartiere dei Cappuccini si svolgono con l’utilizzo di questa Chiesa. La “Domenica delle Palme” i rami di palma e ulivo vengono benedetti dal sacerdote ai piedi dell’antico altare e dalla Chiesa il corteo dei fedeli si diparte per raggiungere, in processione, la Parrocchia dei Cappuccini, dedicata alla B.V. Maria Immacolata.

L’antica Chiesa di San Martino, teatro degli avvenimenti più significativi della vita del Giudicato, continuerà a rappresentare per gli oristanesi una pezzo importante e significativo della sua storia.

Mario Virdis


lunedì, novembre 28, 2011

LA NOSTRA MAGICA E SCARAMANTICA CULTURA MILLENARIA: LE PIETRE E GLI ANTICHI RITI CONTRO IL MALOCCHIO.





Oristano 28 Novembre 2011

Carissimi e fedeli lettori,

oggi, da sardo convinto, vorrei ripercorrere con Voi un sentiero antico...ma tuttora in uso: quello della magia.

Ho pensato a questo mentre carezzavo con le mani un mucchietto di occhi di Santa Lucia, preziosi e colorati opercoli che ci riportano indietro nel tempo, anche per il significato magico attribuito. Ecco ora, per Voi, la storia ed il significato di questa tradizione.

PEDRAS CONTRA S’OCRU MALU. Pietre contro il malocchio.

La Sardegna non si può dire che non sia ricca di pietre! Il culto della pietra affonda le sue radici nella notte dei tempi e certamente tutta la cultura a noi nota, a partire da quella nuragica, ne è permeata. Il culto del betile era diffusissimo in Sardegna: nel santuario nuragico di Serri un vasto ambiente circolare era dedicato al culto del cosiddetto doppio betile, un blocco di pietra dove sono raffigurati in rilievo la dea madre ed il suo corrispondente maschile. Caratteristico anche il betile ritrovato nella curia di Barumini, la cui forma richiama il nuraghe, a simboleggiare lo spirito della guerra. I betili, come i menhir, erano sedi di liturgie religiose; attorno ad essi si raccoglievano i ministri del culto ed il popolo per invocare gli spiriti della pietra. Un sottile filo continuo lega la tradizione prenuragica a quella nuragica, punica, romana e, infine, cristiana. Cambia la divinità ma rimane costante il sentimento religioso del popolo ed il valore che viene riconosciuto al luogo in cui il culto si esprime nelle sue forme esteriori.

D'altra parte millenni di storia e di preistoria non possono certo essere facilmente dimenticati, soprattutto da parte di un popolo come quello sardo, da sempre costretto, per l'isolamento geografico, alla costante rielaborazione della propria cultura, solo intaccata, qua e la, dalle influenze esterne delle varie dominazioni.Tutto questo ha comportato una metabolizzazione dei riti degli antenati e dei loro valori magico-religiosi attribuiti alle antiche pietre. Nell'isola non vi è roccia particolare per forma o dimensione, cui non sia legata una qualche leggenda. Attraverso queste storie, antichi significati si sono potuti conservare anche successivamente all’avvento della cultura cristiana. Basti pensare alle varie pratiche per scongiurare il malocchio o alle misteriose preghiere per tornare in possesso di oggetti smarriti o rubati; o, ancora, ai riti compiuti in occasione di numerose feste religiose.

Dalle antiche e possenti pietre nuragiche alle piccole e comunque “potenti” pietre, più o meno preziose e capaci di scongiurare la “mala sorte”, il passo è stato breve. “Sa Perda de s' Ogu”, usata contro il malocchio, diviene S'ogu de Santa Luxia (l'occhio di Santa Lucia) e la pratica scaramantica viene ripetuta utilizzando l'acqua attinta direttamente da sa picca (l'acquasantiera) e compiendo segni di croce sull'orlo del recipiente. Anche oggi a distanza di molti secoli i riti scaramantici di lontanissima origine sono vivi e vegeti nella cultura sarda. Tra i più noti ed usati ‘oggetti’ scaramantici proprio l’occhio di Santa Lucia, una piccola conchiglia bella e colorata è diventata un potente e ricercato talismano. Questo “occhio benefico”, è stato ritenuto capace di sconfiggere “l’occhio del male” e le forze negative in esso contenute. Sa ‘perda ‘e ocru’, secondo la tradizione, scongiurava il malocchio e l’invidia ed è ancora oggi destinata ad essere indispensabile talismano da portare sempre addosso, soprattutto dei piccoli, sia delle bambine che dei bambini appena nati. E’ una consolidata tradizione della Barbagia fare dono ai neonati, da parte della madrina o del padrino, di un gioiello contenente un occhio di S. Lucia. Si, l'occhio abbinato al gioiello, perché l’arte orafa, da secoli, ha valorizzato ed impreziosito la conchiglia portafortuna.

Prendas contra s’ocru malu, è la denominazione, in dialetto gavoese, data agli amuleti della tradizione sarda, in Barbagia particolarmente forte e sentita. Il Comune di Gavoi ha di recente acquisito la collezione dell’orafo gavoese Giovanni Rocca, che discende da una antica famiglia di argentieri che operavano a Gavoi già dal 1798, disponendo la collezione, a disposizione del pubblico, presso “Casa Lai” nel suggestivo centro storico di Gavoi. Nanni Rocca che oggi ha bottega e laboratorio ad Oristano, riproduce, rielabora e reinventa i motivi della nostra tradizione sarda. Egli insieme al figlio porta avanti una magica tradizione familiare di argentieri iniziata alla fine del ‘700.


Fatta questa breve passeggiata “sulle pietre” vorrei, ora approfondire con Voi la conoscenza della famosa conchiglia nota come “Occhio di Santa Lucia”. Partiamo dalle origini.

L’"occhio di Santa Lucia" è la piccola porta di casa (opercolo) di un mollusco: l’ "Astrea rugosa". L'Astrea rugosa è chiamata anche trottola rugosa per la sua conchiglia grande a forma di trottola. Negli esemplari giovani la conchiglia presenta delle spine pronunciate. Ha una colorazione beige e il margine dell'asse è rosso-arancione. L'opercolo calcareo di questa specie è chiamato ‘occhio di Santa Lucia’ ed è sempre stato ritenuto un portafortuna. Vive su fondali rocciosi, dove si nutre di alghe. L'animale secerne, oltre alla conchiglia che è la sua abitazione e la sua protezione, un opercolo calcareo ricoperto di uno strato corneo che utilizza come "porta di casa" quando si ritira completamente all'interno della conchiglia. E' proprio l'opercolo che ha reso famoso e quindi molto ricercato il nostro soggetto. L'occhio ha una colorazione intensa e molto bella che può variare dall'arancio, al rossiccio, al bruno; la forma è tondeggiante-ellittica, spiralata piatta e bianca nel lato unito all'animale, convessa e colorata quella esterna. Da sempre l'occhio di Santa Lucia ha trovato impiego in gioielleria e bigiotteria nella realizzazione di deliziosi "gioielli marini" come ciondoli, orecchini, anelli, spille, gemelli ecc. Fino a qualche decennio fa veniva pescato casualmente dai pescatori nelle cui reti rimaneva impigliato. Oggi, in molte zone ove il mollusco era comune, è divenuto assai raro e di piccole dimensioni. Non è ancora a rischio estinzione ma sarebbe necessario rallentarne la cattura. Per fare questo, anziché pescarlo, potremo attendere che la selezione naturale ci faccia avere, attraverso le onde che portano a riva, gli stupendi opercoli colorati. Capita, infatti, frequentemente di trovarlo passeggiando lungo le nostre spiagge, soprattutto al mattino, quando le mareggiate della notte hanno portato a rive oltre che ghiaia colorata queste piccole conchiglie con il classico “ricciolo” nella parte bianca: proprio gli stupendi occhi di Santa Lucia!

A cosa deve il suo nome questa bella conchiglia? L'occhio di Santa Lucia è certamente cosi denominato per la sua forma, vagamente somigliante ad un occhio. Occhio positivo, ritenuto capace di opporsi all’altro, quello negativo e malefico, e per questo divenuto uno degli amuleti più popolari che la tradizione sarda ha utilizzato ed ancora utilizza contro il malocchio.

Questa credenza, che attribuisce ad alcuni la capacità di trasmettere malefici attraverso gli occhi, è di lontana origine. Diverse le modalità di trasmissione del flusso negativo, che, come lascia intendere la parola, passa dallo sguardo: infatti si dice che gli occhi abbiano la capacità di trasmettere all’esterno le forze nascoste nel corpo.

Si parla di Malocchio anche nella mitologia dei antichi popoli. Lo sguardo rabbioso delle donne dell'Illiria poteva uccidere, il gigante Balor delle leggende celtiche poteva addirittura trasformare il suo unico occhio in un'arma letale e Medusa aveva la capacità di tramutare in pietra chiunque incontrasse il suo sguardo. Questo magnetico potere posseduto dagli occhi viene attribuito soprattutto agli esseri umani sospettati di stregoneria, in particolar modo alle donne. Nel tempo si è sempre cercato un antidoto a questo terribile male che scatenava, nei soggetti colpiti, malesseri e malattie. Era necessario, quindi, contrapporre il potere di un “occhio buono”, capace di bloccare ogni altro occhio malevolo. Per trovare il giusto rimedio sono stati studiati riti particolari, consolidatisi nel tempo, capaci di preparare l’antidoto contro i malefici. Il rito magico-terapeutico più conosciuto contro l'aggressione dell'occhio è quello detto della "medicina dell'occhio".
Gli strumenti e le formule per il suo utilizzo vengono acquisiti ed appresi normalmente in famiglia, anche se è possibile riceverli da parte di estranei. È opinione diffusa che tutti potenzialmente sono nella condizione di scatenare l'aggressione dell'occhio, il cui verificarsi o meno dipende dalla concomitanza di fattori diversi. Molti sostengono che il prendere occhio è un fenomeno dovuto al sangue, per cui vi sono persone che appartengono ad un ceppo familiare che per tradizione esercita questo influsso in maniera forte e continua. Sono portatori di aggressione anche i guerci e coloro che hanno gli occhi verdi. Nella provincia di Cagliari, di quelli che suscitano questo particolare stato di crisi, si dice che hanno la capra nell'occhio, oppure che hanno l'occhio di capra, cioè l'occhio del diavolo. In tutti i casi, ciò che determina lo scatenarsi della crisi è un atto istantaneo, immediato, difficile da controllare, quale l'incontro degli sguardi, precisamente l'incontro delle pupille.

Per far fronte all'aggressione dell'occhio sono previsti numerosi interventi di prevenzione e un numero ancora più elevato di riti terapeutici. Per quanto riguarda la terapia per il superamento della crisi provocata dall'aggressione dell'occhio, sono stati registrati ben ventiquattro modi diversi di esecuzione del rito terapeutico, modi nei quali si riscontra la presenza, diversamente combinata, dei seguenti elementi: i "brebus", preghiere quali il Padre Nostro, l'Ave Maria, la recitazione del Credo, spesso assieme all'uso di grano, acqua, sale, olio, orzo, riso, pietra, corno (di muflone, di cervo, di bue), occhio di Santa Lucia, carbone, carta. Per conseguire la guarigione il rito va ripetuto da un minimo di tre ad un massimo di nove volte. Per la risoluzione dei casi più gravi in genere è previsto l'intervento di tre diversi operatori.

Nei paesi sardi la donna ha la prerogativa di essere sia soggetto che oggetto del malocchio: è colei che è più esposta al rischio del malocchio ma è anche colei che getta il malocchio più potente. È sempre in linea femminile che vengono ereditati gli oggetti magici, gli amuleti, che preservano dal malocchio ed è sempre la donna che gestisce la vita e la morte attraverso la pratica della “medicina dell’occhio”.

Pur in tempi moderni, all’interno di un mondo ormai totalmente globalizzato, la superstizione non ha abbandonato l’uomo. La Chiesa, nell’intento di sconfiggere le abitudini idolatriche, ha cercato di “assorbirle”, rivestendole di significato cristiano. Gesti e riti arcaici si sono incorporati nelle preghiere della nuova religione, ma la magia non ha abbandonato e, credo, non abbandonerà mai l’uomo. Il detto “non ci credo ma…non si sa mai!” continua ad avere la sua validità e la sua applicazione.

Ecco perché anche l’estate scorsa non pochi turisti, passeggiando in riva al mare, anziché guardare l’orizzonte e bearsi di uno splendido tramonto, continuavano con lo sguardo a frugare tra i granelli di sabbia nella segreta speranza di trovare i bellissimi “Occhi di Santa Lucia” !

Grazie della Vostra sempre graditissima attenzione.

Mario


giovedì, novembre 24, 2011

ORISTANO: LA LENTA AGONIA DELLA CAPITALE DELLA CERAMICA.


Oristano 24 Novembre 2011

Cari amici,

parlare oggi di “Figoli”, di artigianato della ceramica, ad Oristano, è come parlare di corda in casa dell’impiccato!

Certamente per una città che per secoli ha recitato in questo settore un ruolo di primissimo piano nel panorama dell’Isola, vedere la situazione attuale è certamente sconfortante. Perché oggi Oristano conta cosi poco in un settore che, invece, potrebbe dare ancora grandi soddisfazioni ed un sicuro avvenire ai tanti giovani che reclamano occupazione e lavoro? Chissà! Eppure in passato la tradizione ceramica è stata incredibilmente importante per la Sardegna e per Oristano in particolare.

La lavorazione della ceramica in Sardegna ha radici lontane. I più importanti musei archeologici dell’Isola conservano reperti di oltre cinquemila anni fa che ricordano questa tradizione che parte dal periodo nuragico. La produzione ceramica di utensili d'uso quotidiano ha infatti avuto inizio coi primi insediamenti umani nell’Isola e si è successivamente evoluta col passare del tempo nella tipologia e, soprattutto, nella decorazione, attraverso la capacità di mani esperte di abili artigiani prima nuragici, poi punici, romani e quindi medievali.

La prima testimonianza scritta sull’arte ceramica in Sardegna si trova proprio ad Oristano: in un documento del 1692, e precisamente nello statuto del “Gremio dei Figuli di Oristano”. Questo documento, che attesta l'esistenza di una corporazione dedita alla realizzazione di stoviglie destinate al consumo popolare e ne detta le regole, curiosamente, imponeva, agli esponenti che ne facevano parte, l'obbligo di non apportare variazioni ai modelli dei manufatti già in uso, impedendo quindi l’evoluzione della produzione. I rigidi dettami di quello statuto impedirono per secoli alla produzione sarda di competere ad armi pari con quella nazionale. Era, infatti, questa, più raffinata ed elegante, mentre la nostra produzione, riproducendo tassativamente modelli di utensili semplici e poco sofisticati, in modo cosi vincolato, restò, fino agli inizi del Novecento, imbrigliata ed incapace di competere ad armi pari fuori dall’Isola.

Il primo a dare inizio alla creazione di forme nuove fu, nella prima metà dell'Ottocento, il generale Alberto La Marmora, che concesse ad un figulo oristanese il permesso di realizzare pezzi diversi da quelli usuali. Fu questo l’inizio di una evoluzione rapida e significativa che in tempi brevi allineò la ceramica sarda a quella nazionale.

In questo panorama “nuovo” e stimolante abili e preparati artigiani, aperti all’ innovazione, diedero vita ad un’eccellente lavorazione di ceramiche, sia quelle di uso corrente, quotidiano, che quelle destinate, invece, ad arredo e abbellimento della casa; più pregiate, queste, riservate alle classi elevate, nobili o più agiate. Oristano in poco tempo riuscì a recuperare il terreno perduto ed a rivestire, da subito, un ruolo assolutamente primario, superiore a quelli degli altri centri isolani del settore. Oristano si era ritagliato, a tutti gli effetti, il ruolo di “Capitale della ceramica” nell’Isola.

Quando Oristano era capitale del Giudicato d'Arborea, fulcro quindi di tutte le attività economiche del territorio, i suoi numerosi figoli, come dimostrano i ritrovamenti scoperti all’interno del Monastero di S. Chiara, erano in possesso di grandi capacità tecniche di lavorazione, e realizzavano manufatti di grandissima qualità e pregio.

Come le altre città dell’epoca (XII e XIII secolo) Oristano aveva il cosi detto ‘impianto medievale’: città murata, con il centro ripartito in quattro zone, che potremo definire quartieri (Porta Mari, Porta Ponti, Santa Crara e Santu Sadurru), tutti allocati all’interno della cinta muraria, e che costituivano “ Su Pottu”, il luogo “fortificato”, destinato ai nobili ed agli abbienti.

A questo luogo protetto dalle mura si contrapponeva "Su Brugu", o il borgo, costruito all’esterno, a ridosso delle possenti mura, e che confinava con le campagne; Su brugu era la dislocazione abitativa del popolino, formato da una serie di lavoratori di ben diversa estrazione sociale: contadini, fabbri, falegnami, figoli ed altri piccoli artigiani. Due mondi ben diversi: il primo “Su pottu”, chiuso, elegante, riparato e ben difeso, sede dei poteri religioso, civile ed economico-mercantile, il secondo, aperto, povero e poco lussuoso, sede dei popolani, in gran parte al servizio dei nobili e dei potenti.

“ Su Brugu”, il borgo popolare della città, nei documenti che risalgono anche a date antecedenti al 1400, risultava diviso in cinque unità, distribuite nella fascia che circondava la cinta muraria: Brugu de su Scarahioni, o de Pontixeddu, [Via Tharros-Via Tirso], Brugu de is Congiolargius [Via Mazzini, Vico Mazzini, Via Figoli ], Brugu de sa Madalena, o de su Putzu de su Castellanu, [Via Ricovero e strade adiacenti], Brugu “suburbiolum Noni” ,il borgo per eccellenza, [da via Vittorio Veneto a Sant' Efisio a via Solferino] e Brugu de Santu Lazaru, [Via Arborea, Via Aristana, Via Palmas verso l'antica Chiesa e Lazzaretto di San Lazzaro, ubicata presso l'attuale mercato del Sacro Cuore].

Ho voluto riportare questa antica divisione per evidenziare che Oristano aveva un popoloso quartiere, abitato dai figoli, e per questo chiamato” Brugu de is congiolargius”. Questo fatto dimostra quanto fiorente fosse allora l’attività degli artigiani che lavoravano la ceramica, chiamati più propriamente “ Is congiolargius”, in quanto produttori di congios (vasi).

Nel periodo medioevale gli artigiani che esercitavano professioni importanti si riunivano in associazioni che erano chiamate “Corporazioni delle arti e dei mestieri”, denominate anche “Gremi”. Le più importanti e note erano non solo ambite (per entrare a farne parte bisognava superare non pochi ostacoli) ma forti, ricche e potenti. Ad Oristano fino alla prima metà del XIX secolo, operavano ben sette Gremi: Muratori, Scarpari, Ferrari, Falegnami, Figoli, Sarti e Contadini. Qualcuno di questi Gremi è sopravvissuto ed è arrivato fino a noi: la Società dei Muratori di Santa Lucia, che ha sede nella Chiesa omonima in Via Lamarmora, la Società dei Falegnami di San Giuseppe e la Società dei Contadini di San Giovanni Battista. Queste ultime due, le più note, sono quelle che proseguono da secoli, per tradizione, ad organizzare la giostra equestre, ormai nota in tutto il mondo e che noi ben conosciamo: “ Sa Sartiglia”.

Le Corporazioni, queste associazioni che allora riunivano gli esponenti delle più note professioni, esercitavano un ruolo per quei tempi eccezionale: regolare con appositi Statuti, rigidi e vincolanti, l’attività degli appartenenti, oltre che garantire, come una vera e propria assicurazione collettiva, il mutuo soccorso tra i soci. Questa “Associazione”, che si autofinanziava con le quote degli appartenenti, interveniva con prestiti in denaro, assistenza medica e anticipo di spese per eventi eccezionali, oltre che per l’acquisto delle attrezzature. Oristano, ancora oggi, ha in vita la “ Società Operaia di Mutuo Soccorso”, erede e prosecuzione di quell’antica Corporazione. Queste importanti strutture di affiliazione e di solidarietà ed assistenza, non dimentichiamolo, furono il “seme” che fece maturare, poi, in età moderna, le attuali strutture sindacali ed assistenziali.

Oristano medioevale, quindi, vera capitale sarda della ceramica, con un quartiere ed un Gremio importante, che riuniva i lavoratori artigiani del settore, “Is congiolargius”, che aveva le botteghe principali in una via tutta sua, vicinissima alla porta "maggiore" della città, ancora oggi chiamata col nome dei sui antichi abitanti: “Via Figoli”; luogo in cui essi producevano, cuocevano e vendevano le loro brocche, i loro vasi, i loro piatti e stoviglie.

L’analisi degli antichi reperti prima citati, e relativi ai secoli che vanno dal XII al XIV, oltre che mettere in evidenza la capacità degli artigiani dell’epoca, mette in luce nuove tecniche di lavorazione: i reperti rinvenuti risultano "invetriati" e finemente decorati con la tecnica dello “stangiu”, una coperta di ingobbio e vetrina. E’ questa una caratteristica particolare della ceramica di Oristano, tramandata fino ai nostri giorni: essa consiste nel rivestire la ceramica con una vernice colorante, in verde o giallo, talvolta supportata da ingobbio. L'effetto ottico, oltre che funzionale di questo processo, è raccontata così dal viaggiatore-disegnatore francese Gaston Vuillier nel 1891: “…Oristano fornisce tutta la Sardegna delle sue anfore […]. Ve n’è talvolta di un colore straordinario, con una vernice speciale che dà una patina singolare. Mi è capitato, tanto questa vernice trae in inganno, di crederle di bronzo o di rame brunito…”.

Il periodo che va dal secolo XIII al XIV, evidenza una ricca produzione di stoviglie per la mensa come scodelle, coppe, piatti, coppe, fiasche ecc.; nel XV secolo si introducono nuove forme (piattelli e forme chiuse) ed un perfezionamento della tecnica decorativa prima accennata: quella della copertura vetrosa chiazzata di verde e giallo sull’ingobbio bianco; il pezzo più prestigioso e noto, realizzato con questa nuova tecnica, è la “brocca della sposa”, un’anfora con quattro anse, arricchita da applique floreali, geometriche e figurine umane o animali riprese dalla storia, dalla tradizione e dalla religione. E’ questo l’oggetto principe che identifica in tutto il mondo la particolare abilità e maestria dei ceramisti di Oristano.

Tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, l’attività ceramica ad Oristano conosce un ulteriore grande sviluppo. All'invetriatura in verde e giallo si aggiunge una ulteriore lavorazione, detta dello “slip-ware”; è questa una decorazione ottenuta tracciando con l’argilla bianca motivi decorativi sul pezzo ceramico. La migliorata produzione allarga ulteriormente i confini di vendita. Tra il 1600 e il 1634, sono attivi a Oristano almeno 85 ‘congiolargi’; tra i reperti che risalgono a questo periodo ci sono sia forme spagnoleggianti sia forme italianeggianti. Lo "Statuto" del “Gremio dei Figuli di Oristano”, prima citato ed approvato il 25 aprile 1692, oltre che stabilire l’obbligo di non variare le forme originali dei prodotti fabbricati, istituiva per l'accesso alla corporazione un preventivo esame per gli apprendisti che intendevano aprire una bottega. I secoli successivi, dal XVIII fino al XIX, vedono una costante crescita dell'attività, con le maggiori botteghe concentrate nella Via Figoli, che ancora oggi porta questo nome identificativo. Gli anni più recenti, quelli del XX secolo, invece, evidenziano una lenta ma inesorabile decadenza, per la massiccia invasione dei prodotti industriali fabbricati in grande serie.



Nel 1925 lo scultore Francesco Ciusa, nell'intento di dare nuovo impulso a quest'arte, apre la Scuola d’Arte Applicata, che vanta una sezione ceramica. La Regione sarda nel 1957 fa nascere l'I.S.O.L.A., l’Istituto Sardo Organizzazione Lavoro Artigiano, finalizzato a promuovere lo sviluppo economico, tecnico e culturale degli artigiani in Sardegna. Ad Oristano, invece, nel 1961 viene istituito l’Istituto Statale d’Arte, con lo scopo di creare nuovi artigiani-artisti, capaci di conservare e far rivivere l’antica arte dei figoli oristanesi.
Tutto questo per cercare di rivitalizzare la grande varietà delle professioni artigiane che, con l'avvento dell'industria avevano ricevuto un colpo mortale.
Cosa ne è stato, da allora, del settore ceramico in Sardegna ed, in particolare, ad Oristano?
Se esaminiamo, spassionatamente, lo stato attuale della produzione ceramica di Oristano, se ci domandiamo qual'è - al momento - lo “Stato dell’Arte”? Credo che non avremo difficoltà a rispondere, mestamente, scuotendo il capo. C'è certamente ben poco da consolarsi a vedere un settore con un avvenire di grande incertezza.

Domandiamoci, allora: come può Oristano, oggi, riprendersi il suo prestigioso passato di “Città della Ceramica”? Come può, considerato il suo indiscusso passato, recitare nuovamente il ruolo di leader indiscusso del settore?

Ebbene, Oristano è una città che, volendo, può e deve tornare protagonista. Oristano non ha dimenticato il suo luminoso passato. Oggi, pur soffrendo, vive intimamente ed intensamente la sua storia, senza voler abdicare, rimpiangendo sì il passato certamente più fulgido, ma pensando al domani, con la speranza di ricostruire “l’anello mancante”, quello che potrebbe dare, finalmente, uno sbocco ai giovani.

Le recenti iniziative per cercare di rivitalizzare il settore della ceramica, un settore da considerare ormai alla stregua di un “cavaliere perduto”, pur con le migliori intenzioni, non hanno ottenuto i risultati auspicati.

“Il tornio di via Figoli” , titolo dato ad una Mostra-Manifestazione che nel 2004, che per tre settimane, ha animato il centro storico di Oristano, non ha suscitato grandi entusiasmi. Per rivitalizzare un settore come questo bisogna partire dalla scuola. Incentivare i giovani, con leggi appropriate sull’apprendistato, e sostenere, con agevolazioni e sgravi fiscali, i pochi artigiani in grado di insegnare loro la difficile arte. Altrimenti altre “Mostre”, come quella summenzionata, falliranno senza portare frutti, come è già successo per tante altre iniziative artigiane. Non dobbiamo demordere però. Cerchiamo le soluzioni, anche se difficili, senza disperare, perché non possiamo non dare un futuro ai nostri giovani. Lottiamo, perché altrimenti le nostre speranze moriranno sul nascere, abortiranno, e finiranno nel vortice di quell’immenso “buco nero”, frutto della globalizzazione selvaggia, che continua ad inghiottire le piccole attività artigianali, anche le più qualificate, soppiantate dalla ripetitiva produzione dozzinale industriale di lontana provenienza.

Da qualche anno Oristano (2002) è entrata a far parte dell'Associazione Italiana Città della Ceramica, che riunisce le città italiane di affermata tradizione ceramica in base alla Legge 188/1990. A questa Associazione aderiscono i 33 comuni italiani che nel settore possono vantare un'antica e affermata tradizione. La Legge 188/1990 tutela la denominazione di origine della produzione di ceramica artistica e tradizionale mediante l'apposizione di un apposito marchio.

Anche questo può aiutare la rinascita, ma il resto lo dobbiamo fare noi. A noi spetta il compito di rivitalizzare una prestigiosa tradizione per evitare che muoia del tutto. I pochi e volenterosi ceramisti locali rimasti cercano di resistere, aspettando con ansia tempi migliori. Cerchiamo tutti di contribuire a trovare la giusta soluzione.

Oristano, cari amici, non ha ancora dimenticato via Figoli, s’arruga de is congiolargius, ed il grande attivismo economico del passato. La speranza è che oggi tanti altri giovani, artigiani ed artisti, possano nuovamente riempire e rivitalizzare le antiche botteghe che in passato furono dei lori padri. Se ce la mettiamo tutta credo che il miracolo possa, davvero, avverarsi!

Grazie a tutti Voi dell’attenzione.

Mario

sabato, novembre 19, 2011

IL PROFONDO ROSSO DELLA ”BORSA-VALORI" DELL'UOMO.



Oristano 19 Novembre 2011

Cari amici,

è con grande amarezza, di uomo e di cristiano, che oggi faccio con Voi una riflessione su un argomento tanto delicato quanto fragile: quello sui “ Valori” , quei pilastri fondamentali che danno senso e che governano la vita di ogni essere umano.

In una Società come la nostra, quella attuale, dove tutto è così mutevole, è ancora possibile dare il giusto valore ai principi fondamentali che regolano la vita di ogni essere umano? Oggi parlare di "valori" e "disvalori" ha ancora senso? Il dubbio è forte perché la "Borsa-valori" dei sentimenti, dei principi, è in caduta libera e segna un rosso sempre più profondo.

Se riflettiamo un istante quei valori che solo una ventina d’anni fa regolavano la vita dei nostri genitori ed a loro apparivano fondamentali per la crescita morale e spirituale dei propri figli, al giorno d'oggi risultano praticamente tramontati, "out", obsoleti, da calpestare, perché ritenuti superati, non confacenti alla realtà in cui viviamo. Possibile che in un baleno le nostre esigenze si siano cosi modificate?

Eppure la storia dell’uomo ci ha insegnato che i valori alla base del vivere civile non solo hanno iniziato ad esistere da tempo immemorabile ma nel tempo sono stati ampiamente coltivati e seppur lentamente si sono “radicati” nei popoli e nelle generazioni che si sono avvicendate, costituendo un patrimonio assolutamente irrinunciabile. Valori forti, valori che consentivano il dignitoso vivere civile, fatto di amicizia, tolleranza e rispetto per gli altri.

La società odierna, però, sembra aver abbandonato la saggezza dei padri imboccando una strada che sembra riportarci indietro di secoli: a quel lontano periodo, a quello “Stato di natura” che Hobbes definiva dell’“homo homini lupus”, quando la vita dell’uomo primitivo era regolata dell’egoismo e dall’individualismo esasperato. Al giorno d’oggi sono tanti i valori che, strada facendo, si sono persi o si stanno perdendo: il valore della famiglia, il senso dello Stato, la fede religiosa, e quant’altro; si è perso soprattutto il “rispetto”, parola ormai obsoleta, antica, non più degna di considerazione, di valore. Una volta il rispetto era un bene prezioso, che albergava in tutti, grandi e piccoli: rispetto per i genitori da parte dei figli, degli alunni per gli insegnanti a scuola, dei lavoratori verso i superiori nei posti di lavoro, dei cittadini nella Società in genere, rivolto a quanti svolgevano pubbliche funzioni, fossero autorità civili, militari o religiose. Il rispetto, ovunque, era sacro. Oggi, purtroppo, con grande mestizia è praticamente scomparso. Perché ho deciso di affrontare questo delicato argomento?

Lo spunto per questa amara riflessione mi è stato dato dai recenti fatti e dalle derivanti polemiche innescate e conseguenti alla nuova “campagna pubblicitaria” messa in atto dalla Benetton e denominata “UnHate” (‘non odio’, come traduzione letterale, anche se, come parola, risulta inesistente).

Questa azienda che per pubblicizzare il suo marchio ha, da molti anni ormai, messo in atto campagne tanto trasgressive quanto scorrette credo che questa volta abbia superato ogni limite non solo di correttezza ma di decenza, violando anche gli aspetti più intimi e personali delle persone. Lo strumento pubblicitario per nella logica dell’ironia, della provocazione, creata per attirare l’attenzione del consumatore, credo debba avere un codice etico e morale con dei limiti assolutamente invalicabili.

In particolare la recente campagna pubblicitaria messa in cantiere da questa azienda, che ormai tutti chiamano “del bacio del Papa”, anche se i fotomontaggi non riguardano solo il Papa e l’Imam musulmano ma importanti capi di Stato e di Governo, risulta essere di pessimo gusto anche nella sua scontata trasgressione.

Cari amici, trasgredire ormai è quel terribile verbo che ha soppiantato quello di radice più antica e diventato obsoleto: quello del rispettare. L’imperativo attuale, quello imposto dalla globalizzazione selvaggia che ormai permea il mondo, è trasgredite, trasgredite, trasgredite, cosi attirerete l’attenzione ed avrete successo! Questo è il credo imperante della società dei consumi, società dell’apparire non dell’essere, società del virtuale non del reale, società dell’egoismo non dell’altruismo, società che violenta gli animi, costruendo un continuo “bellum omnium contra omnes”, ovvero ‘una guerra ‘del tutti contro tutti. La “Comunicazione” credo non sia nata con questo scopo, anzi! Soprattutto quella commerciale.

In tanti ci chiediamo: perché la “Comunicazione”, soprattutto quella pubblicitaria, ha abbandonato i codici di rispetto passando alla trasgressione? Per stanchezza o per mancanza di “capacità comunicativa”? La nuova comunicazione pubblicitaria trasgressiva sembra nascere con uno scopo preciso: colpire il consumatore con la violenza delle immagini, provocandolo e scioccandolo, con la certezza di risultare efficace! Ma, pensandoci bene, una comunicazione pubblicitaria trasgressiva, violenta e dissacrante, cosa può portare di positivo al consumatore dopo lo shock iniziale? Il superamento dei limiti, quando l’azione diventa rozza e volgare, finisce per ottenere lo scopo contrario, per ritorcersi su se stessa e diventare essa stessa vittima della sua trasgressione.

Questa nuova campagna della Benetton dal titolo “UnHate” (‘non odio’, letteralmente tradotto), vorrebbe proporre al consumatore un presunto valore – come l’odio dell’odio – mediante la denigrazione di persone-simbolo, andando a scivolare però nel qualunquismo puro. Oltre il bacio tra il Papa e l’Imam gli altri “baci famosi” prestati a “UnHate” sono quelli tra la cancelliera Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy; tra il presidente americano Barack Obama e il suo omologo cinese Hu Jintao o il venezuelano Hugo Chavez; tra il presidente palestinese Mahmoud Abbas e il premier Benyamin Netanyahu e tra il leader supremo della Corea del nord Kim Jong-il e quello della Corea del sud Lee Myung-Bak.

Credo che il fine teorico che la campagna si era proposto sia stato però mal concepito. A ben pensare disprezzando le persone simbolo si disprezzano le identità e il reciproco riconoscimento. Si manifesta non un”odio dell’odio”, ma un”odio dell’altro” e del reciproco riconoscimento tra altri.

Nei baci Benetton tutte le identità sono dissolte e il bacio trasgressivo diventa un’unica identità comune, generica, negativa e trasgressiva. Baci che non esprimono più nulla, se non l’offesa. Le reazioni di tutti i personaggi rappresentati sono state fortemente negative. La reazione del Vaticano, in particolare, è stata di indignazione verso un “uso del tutto inaccettabile dell’immagine del Papa”. La Benetton si difende, rispondendo che le intenzioni erano buone e il senso della campagna era solo quello di combattere la cultura dell’odio in tutte le sue forme. Credo che queste siano solo parole di circostanza. La verità, invece, resta per me quella che l’intenzione fosse quella di ‘stupire’ con la trasgressione e che, a prescindere da tutto, la trasgressione-spettacolo “paga”, non importa se a caro prezzo.

Il gruppo Benetton, del resto, già nel passato, con Oliviero Toscani, aveva avviato campagne pubblicitarie con immagini di vera provocazione. Nel 1991 aveva utilizzato il “bacio-provocazione”, con un manifesto dove le labbra incollate di un prete e una suora, fecero, non poco, gridare allo scandalo. Oggi, vista la attuale durissima reazione messa in atto dal Vaticano, il gruppo Benetton ha annunciato il ritiro immediato della pubblicità: «Siamo dispiaciuti che l' utilizzo dell' immagine del Pontefice e dell' Imam abbia cosi urtato la sensibilità dei fedeli. A conferma del nostro sentimento abbiamo deciso con effetto immediato di ritirare questa immagine da ogni pubblicazione».

Anche questo sa di trovata pubblicitaria aggiuntiva: ritirare il “prodotto scandalo” non importa quale esso sia, è secondario, perché ormai l' effetto voluto, quello dello stupore trasgressivo, è stato raggiunto. Benetton, ce lo ricordiamo, dovette ritirare anche la foto del prete e della suora di Toscani del 1991, in quanto dopo polemiche e lamentele, l' Istituto di autodisciplina pubblicitaria la fece ritirare in tutta Italia. La volpe, però, come possiamo constatare anche oggi, perde il pelo ma non il vizio. Nel 1992 fu di nuovo polemica: con la campagna che mostrava due genitori al capezzale di un malato morente di Aids.

Scrive Stefano Fontana su Oggi in un articolo del 17 Novembre 2011: “…In un mondo in cui la Bibbia è la strada e i manifesti pubblicitari sono i capitoli di un libro per immagini, le istantanee su pannelli di 23 metri per 6 sfidano la coscienza e aprono nuovi ambiti di obiezione di coscienza. La pubblicità morirà quando non se ne parlerà più e non se ne parlerà più quando essa ci avrà abituato a non reagire più in coscienza. Di dissacrazione in dissacrazione la pubblicità inibisce le coscienze e si suicida. Salviamola dai baci di Benetton, salveremo anche la nostra coscienza…”.

Credo che siano parole che dovrebbero far meditare tutti. Noi in primo luogo, che la pubblicità la subiamo, per affrancarcene, ma anche quelli che, invece, considerandoci dei cloni, la realizzano, senza pudore e senza ritegno, miscelando, come gli antichi stregoni in un calderone maleodorante, i più terribili vizi dell’uomo, a partire dall’egoismo e dalla sete di ricchezza e potere.

Grazie della Vostra attenzione.

Mario

mercoledì, novembre 16, 2011

I SARDI E LA LORO “ SINDROME D’IMPOTENZA”.


Oristano 16 Novembre 2011

Cari amici,

oggi volevo ‘riflettere’ analizzando con Voi uno dei mali più pericolosi della nostra amata Sardegna: la atavica e ormai cronica “sindrome d’impotenza”.

Il Dizionario della Lingua Italiana Hoepli definisce il termine medico “Sindrome”, quel “complesso di sintomi che concorrono a caratterizzare un quadro clinico, indipendentemente dalle cause che li producono”. La parola sindrome, quindi, è usata in medicina per designare un determinato “complesso di sintomi” che concorrono a designare un quadro patologico, senza con questo far riferimento alla loro causa e alla natura dell`affezione scatenante lo stato morboso.

Passando dal campo medico a quello sociologico come potremo intervenire proficuamente, porre rimedio, a quella pericolosa “Sindrome d’impotenza” che continua, da tempo immemorabile, ad attanagliare i Sardi? Essa è sicuramente costituita da una lunga serie cause e concause che si sono sedimentate nel tempo e che, lentamente ma inesorabilmente, hanno fatto cronicizzare questo stato morboso.

Questa mia riflessione è scaturita, ieri, dalla lettura delle pagine dell’Unione sarda, dove un articolo a firma di Miranda Spada di Assemini, e titolato “La Sarda Sindrome”, ha risvegliato in me antiche amarezze.

Vorrei che lo leggeste anche Voi, prima di terminare la mia riflessione. Eccolo.

Mi ha colpito molto il grido di dolore di Miranda che, pur nata in terra straniera, in Olanda, ha voluto fortemente mantenere dentro di se, come un inestinguibile cordone ombelicale, la “sua” Sardegna.

Miranda, come spesso succede a chi per ragioni economiche lascia la Sardegna, può fare meglio di noi raffronti con altre realtà, fare diagnosi più precise, ancorché impietose, della nostra vera malattia: l’incapacità di reagire e combattere l’apatia che da secoli permea la gran parte dei sardi.

Voglio ripeterle, sottolineandole in grassetto, le sue bellissime parole che definiscono la nostra terra:

“…La Sardegna è un’isola che ha molto da dare, un paradiso caraibico in Europa. Da nessuna parte si vede un mare dai colori così intensi; spiagge stupende; panorami inebrianti; silenzi e cibo genuino. Realtà incontaminate dove l’amore per la natura prevale sul cemento. La Sardegna è una sinfonia di suoni e di colori naturali. Il blu, il giallo e il rosa spiccano lasciando estasiati. Rocce maestose di ogni forma; isole nell’Isola esaltate dal turchese di un’acqua cristallina. Tradizioni, identità e lingua sono il simbolo di una storia antichissima. Misteri e realtà che si intrecciano, esaltandone fascino e ricchezza. Qui non manca niente, tranne la consapevolezza dei sardi di essere il popolo più fortunato del mondo. Un fatto che impedisce di produrre benessere autonomo e diffuso. Un contrasto incomprensibile…”.

Quelle di Miranda, però, non sono solo parole d’amore. Le sue ultime affermazioni mettono il dito sulla piaga, quando sostengono che manca “ la consapevolezza dei sardi” di essere il popolo più fortunato del mondo.

Consapevolezza! Ecco la parola giusta che mancava. I Sardi che nel tempo hanno cronicizzato il loro stato servile, adattandosi quasi adagiandosi nella loro incapacità di reazione, hanno perso la consapevolezza che per uscire da una realtà che li vede perdenti debbono innanzitutto maturare la “consapevolezza” che, invece, potrebbero essere “vincenti”, mettendo a frutto quella “ricchezza” che possiedono e che continuano ad ignorare. Consapevolezza, cari amici, che “Gli altri”, quelli che la Sardegna la calpestano da secoli e che la “usano” non hanno interesse a far crescere, anzi!

Noi e “solo” noi possiamo maturarla e metterla in pratica questa consapevolezza della nostra forza e del nostro valore. Solo abbandonando l’individualismo esasperato che continua ad attanagliarci e che ci danneggia tutti, possiamo, davvero, dare ai nostri figli un futuro migliore, un futuro di speranza.

Nel meeting internazionale dei giovani discendenti di emigrati sardi svoltosi a Chia dal 23 al 26 giugno scorso per iniziativa della Regione, si sono messe in luce non poche criticità: si è sottolineato, soprattutto, assieme alla forte identità che questi ragazzi hanno mantenuto nei confronti della Loro terra d’origine, le auspicate prospettive e i desiderata per il loro futuro, possibilmente non in “terra straniera”.

L’orgoglio dei nostri figli nati fuori dalla Sardegna era evidente, palpabile. “La Sardegna ha qualcosa di speciale che le permette di ricordare le antiche memorie”, dice uno. Poi continua: “…La passione ostinata con cui ripetiamo all’infinito la nostra arte, la nostra musica, le nostre danze, i costumi ancestrali, la lingua… sono garanzia che la nostra identità sarda non è morta e non finirà”. «Posso dirlo senza vergognarmi? Avevo nostalgia della mia terra, della Sardegna. Qualcosa di struggente, di profondo: non ho mai pianto ma ci sono andata molto vicino”, dice la dott.ssa Barbara Melis, rientrata in Sardegna con in tasca una laurea in chirurgia di prestigio mondiale. Rientrata in Sardegna per nostalgia!

Facciamo si, come scrive Miranda Spada, che il nostro individualismo esasperato non danneggi anche queste “nuove generazioni”. Aiutiamoli a guarire dalla sindrome d’impotenza, facendo maturare dentro di loro la consapevolezza della loro forza e della bontà e qualità della loro terra d’origine, la Sardegna. Loro potranno conquistare quella libertà economica e culturale che i nostri predecessori, noi compresi, non sono riusciti a raggiungere. Come dice saggiamente M. Spada “ La Sardegna è una miniera, ma i diamanti vanno estratti con impegno e motivazione”.

Crediamoci! I nostri diamanti sono i più preziosi del mondo!

Grazie dell’attenzione.

Mario


lunedì, novembre 14, 2011

LE PROPRIETA’ BENEFICHE DELLA FEIJOA: UNA PIANTA ESOTICA CON UN FRUTTO DOLCE, DALL’INTENSO PROFUMO, E CHE FA UN GRAN BENE ALLA SALUTE!


Oristano 14 Novembre 2011

Cari amici e fedeli lettori,

quando alcuni anni fa comprai ad Oristano la casa dove abito, nel giardino circostante, in mezzo alla vegetazione vi era, tra le altre piante, un alberello sempreverde che non conoscevo. Ristrutturata la casa e sistemato il giardino, anche questa pianta fu oggetto di una delicata potatura. Ai primi di maggio una mattina, con meraviglia, scoprii che la pianta aveva aperto i primi bellissimi fiori che assomigliavano a delle orchidee: piccoli boccioli bianchi e rosa a bocca di leone. Fu questa per me l’occasione per cercare di ‘saperne di più’ di questa bella pianta che aveva trovato piacevole dimora in casa mia. Lessi sui libri da dove proveniva, e tante altre notizie di cui, ora vorrei fare partecipi anche Voi: sono sicuro che molti di Voi non la conoscono, anche se è una pianta molto utile, che può fare un gran bene alla salute!

Ecco un “concentrato” della sua storia e delle sue virtù.

La Feijoa, nome scientifico Acca sellowiana (sinonimo Feijoa sellowiana), è una pianta sempreverde perenne appartenente alla famiglia delle Mirtaceae. E’ originaria della zona sub-tropicale dell'America del Sud, in particolare proveniente dagli altipiani del Brasile meridionale, parte della Colombia, Uruguay e il nord dell'Argentina, dove è diffusa prevalentemente nella aree montane. Si è successivamente diffusa in California, Florida e nell’Europa mediterranea; in particolare in Italia nella Riviera ligure, il Meridione e le Isole. E' una specie arbustiva e cespugliosa, ma facilmente convertibile in albero, a crescita lenta; di altezza variabile da 1 a 7 metri, nella zona d'origine può raggiungere gli 8 metri di altezza. La vita di una pianta può superare i 70 anni. L'habitat ideale è quello di coltivazione dell'olivo, per cui trova in Sardegna un luogo ideale di sviluppo. Non sopporta, però, le basse temperature: letali da 7 °C sotto zero. Di modeste esigenze si adatta bene sia ai terreni compatti, senza ristagni idrici, sia a quelli sciolti.

Le foglie sono ovali-oblunghe (ellittiche), opposte, di colore verde scuro, lucide sulla parte superiore, mentre la parte inferiore è feltrosa; se stropicciate, emanano un gradevole odore simile a quello del mirto. Il fiore è bianco all'esterno e rosso all'interno, La pianta fiorisce tra maggio e giugno e fruttifica dai primi di ottobre fino ai primi di dicembre.

I fiori ermafroditi sono molto vistosi ed eduli. Di grandezza medio-piccola, spesso raccolti a gruppi, sono numerosi, di colore bianco rosaceo e con numerosi stami rosso violetto. I petali dei fiori possono essere utilizzati per insalate, dato che sono robusti, croccanti e dolci o fatti sciogliere sulla lingua. L'impollinazione è incrociata (vi è necessità di altre piante nelle vicinanze), anche se esistono varietà autofertili. Nelle zone d'origine i fiori vengono impollinati dagli uccelli-mosca del genere Thamnophilus e da alcuni afidi, mentre Italia l'impollinazione può essere sia entomofila (ditteri) o anche anemofila. La vegetazione dell'anno inizia verso marzo; dopo circa 2 mesi compaiono i primi fiori e la fioritura può durare da uno a due mesi.

Il frutto di “Feijoa sellowiana”, è costituito da una bacca rotonda od ovale lunga 5-6 cm., di colore verde; ha polpa bianca, dolce e aromatica, traslucida o giallastra, gelatinosa e di consistenza morbida, con numerosi piccoli semi commestibili; I frutti sono intensamente profumati e di un dolce ‘particolare’; il sapore della polpa è stato giudicato a metà tra l'ananas e la fragola. La maturazione del frutto avviene (in funzione alla stagione meteorologica) nei mesi di settembre e ottobre. Quando raggiungono la maturazione i frutti si staccano spontaneamente dall'albero e cadono: questo è la maniera comune per procedere alla raccolta, dato che la buccia è robusta; si sbucciano con un coltello, o si estrae la polpa con un cucchiaino dal frutto aperto a metà, e si consumano freschi. I frutti raccolti hanno una breve durata, come per le banane di 5 /6 giorni se conservati in luogo fresco. La raccolta al suolo è indicata soprattutto per la preparazione a breve termine di una confettura, adoperando come addensante la polpa di alcune mele, possibilmente acerbe.

La raccolta all'albero permette di avere frutta di durata leggermente maggiore, ma occorre raccogliere frutti maturi, cioè che si stacchino agevolmente dal rami; per il resto solo un leggero rammollimento della polpa ed un leggerissimo schiarimento di colore della buccia, sono i non facili segnali della avvenuta maturazione.

Dalla ‘originaria’ Feijoa sellowiana sono state ricavate varie cultivar, ad esempio le varietà Triumph, Colidge, Mammoth, Apollo, Gemini, Moore. Queste cultivar hanno diversa grandezza, forma e tempo di maturazione dei frutti. Alcune variano anche per modalità di impollinazione.

Tondi o oblunghi, rugosi o lisci i frutti di Feijoa sono, comunque, un vero e proprio “scrigno” di salute. Questo frutto profumatissimo, infatti, è ricco di vitamine C (che ha un potere antiossidante e potenzia le difese immunitarie) e B6, di sali minerali ed in particolare di iodio: 3 mg per 100 grammi di prodotto fresco, che aiuta a far lavorare il nostro organismo e accelera il consumo soprattutto delle sostanze grasse. Inoltre favorisce la crescita e lo sviluppo, agendo in maniera benefica anche sui processi mentali. Possiede, inoltre, proprietà digestive e lassative ed è anche un frutto poco calorico: 100 g. di prodotto forniscono soltanto 35 kilocalorie. motivo per cui questi frutti sono indicati per un regime alimentare dietetico.

La feijoa è gustosa da mangiare al naturale, tagliata a metà e spolpata con un cucchiaino, oppure spellata e fatta a macedonia. Il frutto, fresco, mangiato privato della buccia, ha le meravigliose seguenti proprietà: migliora la permeabilità capillare, apportando più sangue e nutrienti ai vari tessuti; è un ottimo “antiage”, grazie alla presenza di vitamina C e beta-carotene; ha un’elevata attività antibatterica, sia nei confronti dei germi Gram positivi che dei Gram negativi e, infine, è in fase di studio come possibile antitumorale, grazie alla presenza di quercitina e canferolo nella polpa. Questo frutto miracoloso può essere sfruttato anche per via esterna, per trattamenti cosmetici idratanti: per esempio, la polpa frullata può essere applicata sul viso per 15 minuti una volta la settimana. Oltre al frutto, possono tornare utili anche le foglie e i fiori freschi. Questi ultimi hanno virtù antiossidanti e sono commestibili: potete tranquillamente aggiungerli alle vostre insalate, aggiungendo sapore e profumo. Con le foglie essiccate si prepara, invece, un infuso dolce e profumato, da bere alla sera e dotato di proprietà antibiotiche e immunostimolanti: è sufficiente un cucchiaino da tenere in infusione per una decina di minuti in una tazza d’acqua bollente

La feijoa, oltre che come frutto fresco, può essere trasformato ed utilizzato sia sotto forma di succo che di marmellata, o addirittura distillato, ricavandone una speciale e profumata grappa.

In Sicilia, in particolare, sono rinomate le marmellate di feijoa.

Ecco alcune delle ricette.

Marmellata di feijoa.

Ingredienti:

400 g circa di feijoa

1 piccola mela

300 g di zucchero

Sbucciare i fruttini e farli a pezzetti, coprirli di zucchero e lasciare riposare un paio d’ore quindi cuocerli con la mela per un’oretta buona. Togliere dal fuoco e passare a setaccio, far stringere ancora una mezz’ora quindi invasare e sterilizzare. Non si conserva tutto il profumo ma una buona parte sì.

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Feijoa allo zucchero.

Ingredienti:

200 gr di zucchero

100 ml di acqua

10 frutti di feijoa

Sciogliete lo zucchero nell’acqua in un tegame a temperatura ambiente. Sbucciate le feijoa e tagliatele a fettine. Immergetele nello sciroppo e lasciatele cuocere per qualche minuto, in modo che il frutto si ammorbidisca. Mettete le fettine su un foglio di carta forno e infornate per qualche tempo fino a che lo sciroppo non si sarà asciugato.

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Mousse di fondente, crema di feijoa e zabaione al moscato.

Ingredienti x 2 persone

Mousse di fondente

50 g cioccolato fondente al 70 % (ric. orig. g 200)

50 ml latte (ric. orig. 300 ml)

75 g panna fresca (ric. orig. g 300)

Crema di feijoa

100 g feijoa (ric. orig. g 150 zucca)

30 g zucchero (ric. orig. g 60)

Zabaione al moscato

1 tuorlo codice 0 (ric. orig. 4 tuorli)

30 g zucchero (ric. orig. g 100)

2 cucchiai vino moscato (ric. orig. 2 bicchierini barolo chinato)

Meringa

1 albume codice 0 (ric. orig. 2 albumi)

g 30 zucchero (ric. orig. g 100)

Rosmarino (meglio fiori di gelsomino)

Preparazione.

Crema di feijoa. Ricavare la polpa delle feijoa e farle andare a fiamma bassa con 25 g zucchero, per circa 10’. Far freddare, frullare ed incorporarvi un nonnulla di panna montata (q.b. per dar “corpo” alla crema).

Mousse di fondente. Sciogliere a bagnomaria il cioccolato insieme con il latte. Allontanare dal calore e lasciare raffreddare prima di incorporare la panna montata. Trasferire la mousse in una sac à poche e distribuirla nei bicchieri.

Zabaione. Montare a spuma, a bagnomaria il tuorlo con 30 g di zucchero, poi versare a filo il moscato e, senza smettere di mescolare, cuocere fino a che il composto non vela il cucchiaio.

Meringa. A bagnomaria montare a neve ferma l’albume con 30 g di zucchero, allontanare dal calore e aggiungere il rosmarino tritato.

Infine versare sulla mousse uno strato di crema di feijoa, lo zabaione ancora caldo, finire con scaglie di cioccolato (ottenute frantumando il cioccolato con un coltello a lama liscia) ed accompagnare con l’albume dolce al rosmarino servito a parte.

[Attenzione!]

I vari “elementi” che compongono il dessert, possono essere preparati in anticipo (tranne la crema di feijoa) e poi “assemblati” prima di servire!

Cari amici, la feijoa non ha ancora finito di stupirci! Pensate che dai suoi frutti nasce un profumatissimo liquore, dal sapore e dal gusto davvero speciali: l’infuso idro-alcolico di feijoa.

Ecco la ricetta, per chi, curioso, desidera provare nuove emozioni.

Liquore di Feijoa.

La preparazione di questo liquore è abbastanza semplice e consente di trasferire nel liquore, per intero, l'aroma intenso e particolarmente avvolgente di questo frutto buonissimo.

Ingredienti:

10 frutti di Feijoa maturi

100 ml di alcool

appena una grattata di noce moscata

Lo sciroppo:

100 g di zucchero di canna

250 ml di acqua

Lasciare in infusione nell'alcool per 45 giorni i frutti di Feijoia puliti e tagliati in 4 parti mantenendo la buccia, non è necessario scuotere o rimestare, mantenere il contenitore chiuso ermeticamente. Trascorsi i 45 giorni filtrare con panno di lino bianco e unire allo sciroppo realizzato precedentemente, lasciare riposare altri 60 giorni prima servirlo, anche se già da subito si avverte la fragranza gradevole.

E’ un simpaticissimo digestivo che potrà dare un tocco di esotico ai Vostri incontri conviviali!

Che ne dite di questo straordinario frutto che, ormai, fa già parte del nostro habitat? Non è meraviglioso?

Ciao a tutti Voi e grazie dell’attenzione.

Mario