lunedì, maggio 31, 2021

LA SARDEGNA E I SUOI VINI NASCOSTI. SONO CIRCA 200 I VITIGNI AUTOCTONI, RARI E AFFASCINANTI MA DIMENTICATI. ALCUNI, PERÒ, PROVANO A RIPORTARLI IN AUGE.


Oristano 31 maggio 2021

Cari amici,

Voglio chiudere i post di maggio parlando di vitigni e di vini sardi, numerosi e meravigliosi, anche se poco valorizzati. La Sardegna, contrariamente ad altre Regioni, ha un patrimonio grandioso di vitigni autoctoni che potrebbero essere valorizzati, mentre da tempo sono tenuti in ombra. La Sardegna, in particolare per la sua connotazione geografica, ha potuto conservare una ricchissima e rara biodiversità ambientale in molti campi, e in particolare nel campo delle varietà di Vitis vinifera, vantando una tradizione antichissima. Per molto tempo è stato affermato che la coltivazione della vite nell’Isola iniziò con l’arrivo delle popolazioni fenicie, cartaginesi e greche, ma scoperte più recenti hanno dimostrato ben altro.

Sa Osa - Cabras

Durante gli scavi nel sito archeologico di Sa Osa, nei pressi di Cabras, un’equipe di ricercatori del Centro Conservazione Biodiversità dell’Università di Cagliari, ha trovato dei vinaccioli databili all’epoca della civiltà nuragica (1.200 a.C.), a dimostrazione che il vino in Sardegna si conosceva da tempi ben più remoti: quelli della civiltà nuragica!  Si, amici, il patrimonio di vitigni autoctoni sardi è davvero straordinariamente vasto e variegato, tanto che tra varietà di uve bianche e rosse possiamo affermare che esse si avvicinino a 200.

Vivono in Sardegna vitigni noti e famosi: solo per restare nel campo delle uve bianche, oltre al notissimo vermentino troviamo il nuragus, il nasco, il torbato, il semidano, il vernaccia di Oristano, la malvasia di Bosa e Cagliari il moscato di Cagliari e Sorso Sennori; interessanti anche le varietà minori, come l’arvisionadu, il granazza, il retagliado, l’albaranzueli bianco e molti altri; diversi vitigni rari, hanno nomi affascinanti: come Monica Bianca, Lacconargiu, Licronaxiu, Bovali mannu, Niedda manna, Girò, Nieddu polchinu.

Quelli prima ricordati sono solo alcuni dei circa 200 vitigni autoctoni della nostra isola, un ricco patrimonio di biodiversità sarda che ha pochi eguali al mondo, anche se fino ad oggi, purtroppo, davvero poco valorizzato. Eppure, una buona quantità di questi vitigni, grazie ad un fine lavoro di ricerca, potrebbero avere presto un futuro: come arricchenti per vini molto noti, ovvero quelli di grande blasone, oppure anche con il lancio di nuove bottiglie mono-varietali, in odore di DOP. Si, amici, la Sardegna è la seconda patria mondiale del vino, dopo la zona del Caucaso e della Georgia, ma per mille ragioni, a volte sconosciute, poco si è fatto per dare valore a questo inestimabile patrimonio. Tuttavia, finalmente, qualcosa appare muoversi.

Di recente, come ha confermato Mariano Murru, Presidente di Assoenologi Sardegna, in una recente conferenza effettuata in Webinar, per quattro (4) di questi importanti vitigni negletti, grazie alla passione di enologi e produttori, sta per partire la riscoperta. I vitigni primi ripescati sono: Arvisionadu, Barbera sarda, Nasco e Malvasia di Cagliari; vitigni che una volta erano capaci di dare vita a eccellenti vini di antica tradizione ma che, per una ragione o per l’altra, erano finiti nel dimenticatoio, rischiando di scomparire.

Cari amici, il problema della produzione sarda di vino in realtà dimostra, come avviene anche per svariati altri prodotti, una carenza di assonanza di programmi comuni e una mancanza di gioco di squadra. I produttori appaiono restii a creare associazionismo e portare avanti progetti comuni, seppure differenziati nei particolari. Molte aziende sarde, inoltre, mancano di una visione internazionale, dimenticando che viviamo l’epoca della globalizzazione. È tempo di cambiare: non continuiamo con il nostro terribile individualismo, non  ripetiamo l’errore, come avveniva e avviene ancora oggi con il formaggio, che ogni pastore si faccia il suo, e poi lo debba svendere al commerciante astuto per non perderlo.

Un esempio eclatante ce lo ha dato la Sicilia: dove la “moda” dell’Etna è esplosa, dimostrando che si possono fare vini di altissima fascia, e ha trainato tutto il comparto del vino della Sicilia. Se fossimo di mente aperta all'innovazione, potremmo essere anche noi capaci di esempi trainanti: zone come la Gallura, e l’Oristanese, che vantano vini di grande eccellenza come il Vermentino di Gallura o il particolarissimo vino Vernaccia dell’Oristanese, potrebbero "tirare la cordata" anche alle altre zone della Sardegna.

Amici, c’è un grande tesoro enologico in Sardegna: sta solo a noi sardi scoprirlo e poi valorizzarlo!

A domani.

Mario
Vigne di Sardegna

domenica, maggio 30, 2021

IL BASILICO, PIANTA MEDICINALE DIGESTIVA E DETOSSINANTE. USATA FIN DALL’ANTICHITÀ, ERA CONSIDERATA NOBILE E SACRA.


Oristano 30 maggio 2021

Cari amici,

Il Basilico ha una storia lunga e avvincente, che vale la pena di essere raccontata. Questa pianta, il cui nome scientifico è Ocimum basilicum, appartiene alla famiglia delle Lamiaceae, come la menta piperita. In natura ne esistono 60 specie e il termine basilico deriva dal greco basilikon, che letteralmente significa pianta maestosa; gli antichi consideravano il basilico una pianta nobile e sacra. In India, per esempio, era anche emblema di referenza e simbolo di ospitalità, gli Egizi e i Greci lo utilizzavano per le imbalsamazioni dei propri defunti, quale buon auspicio per l’aldilà, mentre i cinesi e gli arabi ricorrevano al basilico anche a scopo medicinale. Senza dimenticare che, durante le crociate, le navi venivano cosparse di tale pianta per tenere lontano insetti, acari e cattivi odori.

Gli antichi romani consideravano il basilico una pianta magica, sacra alla dea Venere, così sacra che per raccogliere le sue foglie era assolutamente vietato l’uso di strumenti di ferro, in quanto il metallo le avrebbe ‘inquinate’, annullandone le proprietà. In realtà tagliare le foglie di basilico con un coltello, a causa dell’ossidazione, queste diventano immediatamente nere, quindi è consigliabile tagliarle solo a mano. Una pianta, dunque, considerata davvero magica, se pensiamo che il grande Plinio era convinto che i semi del basilico fossero addirittura dei potenti afrodisiaci!

Nel Medioevo il basilico è stato utilizzato anche per fare gli  esorcismi e quindi per scacciare  i demoni dal posseduto; si credeva anche che esso potesse compiere  miracoli in caso di peste e che potesse curare  la debolezza fisica dell’uomo. Nel Rinascimento le proprietà culinarie e terapeutiche del basilico sono state definitivamente riconosciute, tanto che Cosimo de’ Medici lo incluse  tra i profumi del ‘Giardino dei Semplici' (1545).  Amici, dopo aver ripercorso la sua storia parliamo ora del basilico come insostituibile componente culinario, utile anche come digestivo e detossinante.

Se partiamo dall’uso del basilico in cucina, possiamo dire che esso trova ampio spazio nella preparazione dei cibi. Dal momento che ne esistono molte varietà, ognuna di esse ha caratteristiche ed utilizzi differenti. Il basilico genovese, ad esempio, è indicato in particolare per la preparazione del pesto, quello thailandese, invece, ha un aroma più intenso; il basilico sacro indiano è delicato, quello rosso è leggermente piccante, la variante messicana ha un aroma simile alla cannella. Nella cucina mediterranea il basilico è il simbolo dell’estate; fragrante e delicato, con il suo verde profumo riesce a stuzzicare i palati più esigenti. Pensate che la salsa più diffusa al mondo è proprio il  pesto genovese, vanto assoluto del popolo ligure!

Storicamente il basilico è arrivato in Liguria tra la  seconda metà dell’XI e l’inizio del XII secolo, approdando in particolare a Genova. Fu il comandante navale genovese Guglielmo Embriaco (che aveva appreso delle proprietà terapeutiche del basilico quando era in Palestina durante le crociate) a portare i semi delle piante di basilico con sé a Genova al suo  ritorno; Embriaco, esperto lupo di mare, lo coltivava addirittura in  una delle sue galee, e presto il basilico si diffuse talmente il Liguria da arrivare a confezionare il pesto, diventato poi “Pesto alla genovese”. Una bella storia quella del basilico, che, tra realtà e leggenda, continua ancora oggi. Quanto al pesto, la sua invenzione si sviluppa partendo dall’utilizzo delle foglie di basilico come medicina, ma poi lavorandole con il pestello per ottenere unguenti, venne aggiunto dell’olio d’oliva, creando così delle creme per curare le irritazioni della pelle; pare che, accidentalmente, un po' di questa crema  sia caduta sul pane e così, al primo assaggio gradito, scaturì la voglia di mangiare quella crema, che diventò così il famosissimo pesto!

Passando dalla cucina all’uso fitoterapico, c’è da dire che le foglie di quest’erba sono ricche di vitamina K e manganese, magnesio, rame, vitamina A, C, calcio, Omega 3 e acido folico. Tutte proprietà che sono considerate antibatteriche, antinfiammatorie e antiossidanti; aiutano perciò a prevenire l’insorgenza dell’artrite reumatoide, così come l’infiammazione intestinale. La vitamina A, il beta-carotene e il magnesio sono un vero toccasana per i disturbi cardiovascolari. In fitoterapia il basilico viene utilizzato soprattutto per il suo olio essenziale, ricco di estragolo che esercita la sua azione antielmintica e tonificante.

Nell’uso fitoterapico possono essere utilizzate le parti aeree, sia fresche che essiccate, che possono essere assunte sotto forma di tisane o infusi per le loro proprietà digestive, ma anche per combattere i radicali liberi e ritardare l’invecchiamento cellulare. Le foglie di basilico sono anche un vero e proprio tonico per la pelle: bastano 20 gocce di olio essenziale nell’acqua della vasca da bagno per rinvigorire il corpo. Una lozione da massaggiare sul cuoio capelluto dopo lo shampoo, si può preparare macerando 150 gr di foglie fresche di basilico in 1 litro d’acqua, aiutando così a combattere la caduta dei capelli e l’alopecia. Che dire poi del basilico utilizzato come Infuso antistress o per preparare un elisir per l’eterna giovinezza? Fate riposare 1 cucchiaio di foglie di basilico fresche in 250 ml di acqua per 10 minuti e consumate una tazza subito dopo i pasti per 3 volte al giorno.

Cari amici, come per tutti i rimedi naturali, ogni vegetale può avere qualche controindicazione.  Il basilico tuttavia ha poche controindicazioni, ma dato il suo potere stimolante e antidepressivo, sarebbe meglio non utilizzarlo se si soffre di epilessia, accertandosi anche di non essere allergici ai suoi principi attivi. È bene quindi, come ho sempre detto, rivolgersi sempre al proprio medico. Comunque, il basilico è davvero un eccellente, profumato dono della natura, che rende i nostri piatti più sapidi e gradevoli e oltretutto ci fa pure tanto bene!

A domani.

Mario

sabato, maggio 29, 2021

“ANDARE IN BRODO DI GIUGGIOLE”. L'ANTICA ESPRESSIONE CHE INDICA IL CONSEGUIMENTO DI UN “VERO PIACERE”! LE GIUGGIOLE, UN ANTICO FRUTTO PRELIBATO MA POI DIMENTICATO. UNA BELLA STORIA.


Oristano 29 maggio 2021

Cari amici,

Oramai non sono in molti a conoscere e gustare le “Giuggiole”, quel frutto antico, prodotto dal Giuggiolo, un millenario albero il cui nome scientifico è Ziziphus jujuba, appartenente alla famiglia delle Rhamnaceae e originario della Siria. Introdotto poi in Cina e in India, la sua coltivazione perdura da più di 4.000 anni, considerata la bontà dei suoi piccoli frutti, tanto che contribuì, successivamente, a far coltivare questa pianta anche in Italia, portata dai Romani, che ne garantirono la sua diffusione in tutto il bacino del Mediterraneo.

Come però avviene per molti fruttiferi, un tempo molto usati e diffusi, sia la scoperta di nuove specie che il cambiamento dei gusti, fecero sì che, a poco a poco, gli alberi di Giuggiolo furono sostituiti da specie più facili da coltivare e portanti frutti più pratici da consumare; le giuggiole dunque, lentamente ma inesorabilmente, finirono nel dimenticatoio. Non dappertutto, però. Nei Colli Euganei e in alcune zone del vicentino e nel Basso Garda, sono rimaste in essere delle coltivazioni modeste, a livello familiare. La giuggiola dei Colli Euganei, per esempio, è addirittura inserita nell'elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali.

Ad Arquà Petrarca, borgo medievale sito in provincia di Padova, sono presenti diversi di questi magnifici alberi; la ragione è semplice: pur essendo in grado di adattarsi a terreni di varia natura, il giuggiolo predilige climi piuttosto temperati, con inverni abbastanza miti ed estati lunghe e calde. La sua coltivazione richiede, in particolare, le condizioni atmosferiche che si creano in prossimità di laghi o colline, con buona esposizione al sole. Arquà, dunque un luogo perfetto per la crescita al meglio di questi antichi, straordinari, magnifici alberi, il cui frutto è ricchissimo di sostanze dai numerosi effetti benefici.

Il frutto del giuggiolo, la giuggiola, è una piccola drupa simile a un'oliva, con una buccia sottile e lucida, che a maturazione passa dal colore verde al colore marrone, assumendo un aspetto molto simile a quello dei datteri; per questo spesso è conosciuto anche come “dattero cinese”. La giuggiola si può cogliere ancora verde, quando il suo sapore ricorda quello di una mela, oppure a maturazione tra settembre ed ottobre, con la buccia raggrinzita e la polpa bianca, dolce e farinosa, come quella di un dattero. Una volta colta, la si può conservare a temperatura ambiente e consumare entro una settimana circa.

Le proprietà delle giuggiole sono molteplici, riconosciute da tempo nei Paesi Asiatici, dove per la prima volta sono state utilizzate a scopo terapeutico. Nella medicina tradizionale cinese venivano utilizzate a scopo digestivo, mentre il loro impiego più moderno è rivolto a casi di ansia, insonnia, stipsi e pressione alta, grazie al loro elevato contenuto in fosforo, potassio, manganese, rame e zinco. Elevato anche il contenuto di vitamina C per 100 g di alimento, talmente alto da rendere le giuggiole simili agli agrumi nel sostegno del sistema immunitario contro i radicali liberi e nella prevenzione delle patologie invernali. Acido linoleico, acido stearico, tannini, flavonoidi e polifenoli rendono le giuggiole un frutto unico, con proprietà lenitive, antinfiammatorie e, secondo studi recenti, anche antiproliferative e antitumorali.

In Cina i frutti vengono fatti bollire insieme a riso e miele per preparare sciroppi espettoranti e tossifughi, oppure fatti essiccare per la preparazione successiva di decotti per ridurre l'infiammazione delle vie respiratorie. La loro azione emolliente è riconosciuta anche nella cosmesi per la preparazione di lozioni da applicare in casi di ragadi mammarie, a seguito dell'allattamento al seno. In cucina le giuggiole possono essere consumate al naturale, sia fresche che seccate, e possono essere impiegate per la preparazione di marmellate, in abbinamento a mele ed uvetta passa. L'elevato contenuto di zuccheri del frutto non richiederà l'aggiunta di dolcificanti.

Le giuggiole possono arricchire anche dolci casalinghi e biscotti con le loro proprietà nutrizionali, fino ad essere protagoniste del famoso “Brodo di giuggiole”, un liquore tanto dolce e buono da dare vita al modo di dire “essere in un brodo di giuggiole”, per il suo gusto appagante. Ma come è nato questo detto antico, che ancora oggi sta ad indicare il raggiungimento di un piacere grande, quasi impossibile di norma da raggiungere? Ecco la sua bella storia.

Mantegna, la Corte dei Gonzaga

Nel periodo del “Rinascimento” risulta che le giuggiole fossero apprezzate nelle ricche corti dell’Italia del Nord, in particolare alla Corte dei Gonzaga di Mantova; questi squisiti padroni di casa amavano deliziare i loro ospiti con un liquore ricavato proprio dalle giuggiole, che pare fosse così buono da far conseguire in chi lo beveva  un piacere molto grande, mai provato prima! Da questo insolito piacere, nacque il detto “Andare in brodo di giuggiole”, a significare il raggiungimento di un sommo piacere. Insomma, ecco perché il liquore dei Gonzaga, che doveva essere davvero molto buono, ha fatto coniare il detto “andare in brodo di giuggiole“, riportato dall’Accademia della Crusca fin dal 1612, con il significato di “godere di molto di chicchessia”.

Amici, la storia ci dice che questo particolare liquore pare fosse servito a fine pasto, per accompagnare torte e biscotti oppure come digestivo. Ebbene, assaggiare quest’antico liquore è possibile anche oggi: facendo un bel viaggio, una bella gita nella zona dei colli Euganei, in particolare nel bel borgo di Arquà Petrarca; in questa zona è possibile gustare una versione moderna del “Brodo di giuggiole”, un liquore dal colore rosso ambrato e dall’intenso gusto fruttato. Ovviamente il liquore è anche commercializzato on line, e sicuramente ordinabile anche con recapito a domicilio.

Che dite, cari amici, volete curiosamente anche Voi, gustare questo liquore per provare ad “andare in brodo di giuggiole”?

A domani.

Mario
Giuggiole

venerdì, maggio 28, 2021

INSETTI COMMESTIBILI, SARANNO IL CIBO DEL FUTURO? LA RECENTE PRESA DI POSIZIONE DELL’UNIONE EUROPEA LI PREVEDE ECCOME!


Oristano 28 maggio 2021

Cari amici,

Sono trascorsi circa 40 anni (era il 1982) da quando, andando al cinema, potevamo ammirare una splendida Julie Andrews che nel film «Victor Victoria» di Blake Edwards, interpretava una squattrinata che metteva uno scarafaggio nel piatto per non pagare il conto. I tempi, come ben sappiamo, cambiano, e ora, anziché cercare di mangiare a sbafo per un eventuale, furtivo insetto nel piatto, pagheremo invece per averlo nel menu! Sì, tra non molto andando al ristorante troveremo nel menù ricette con blatte, grilli o magari cavallette, che ci verranno servite come leccornie nel piatto.

Un futuro, quello che si prospetta,  direi poco affascinante, dopo l’arrivo, da parte dell’Unione Europea, (quattro mesi dopo quella dell’ Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare) dell'autorizzazione per la commercializzazione in Europa “come alimento” delle larve essiccate del coleottero Tenebrione mugnaio, note anche come tarme della farina. Per i più coraggiosi le larve potranno essere mangiate intere, come snack (e chissà se la pubblicità sarà una tira l’altra) o come farina per preparare deliziose torte rustiche o panature. E non è questa la sola novità.

Un menù che potrebbe diventare di normale quotidianità potrebbe essere questo: a colazione un bicchiere di “latte” di piselli, a pranzo un “hamburger” vegetale accompagnato da un piatto di tarme di farina, e per mandare giù il boccone un bel bicchiere di vino senza alcol. A noi italiani solo a sentire parlare di certe cose (schifezze) ci viene il voltastomaco, ma in realtà queste sono solo alcune delle idee attualmente in discussione presso l’Unione Europea che ha iniziato a discutere di strategia per la programmazione delle sue future politiche agroalimentari.

Scelte che davvero rischiano di stravolgere l'attuale dieta consolidata europea (in particolare quella italiana), assestando un duro colpo all’economia del settore alimentare e alle imprese che contribuiscono, con la loro produzione, alla reputazione del Made in Italy. Sul mio blog, nel post del 21 maggio scorso, ho parlato già dell’argomento, focalizzando la mia attenzione sul vino e sul possibile suo “annacquamento”, decisione questa che ha scatenato forti critiche da parte dei produttori. Chi fosse interessato può, cliccando sul seguente link, andare a leggere quanto ho scritto: http://amicomario.blogspot.com/2021/05/lunione-europea-vuole-cancellare-la.html.

Amici, la questione dei nuovi cibi, indispensabili secondo gli studiosi per le future necessità alimentari umane, cioè per cercare di “sfamare il mondo”, è ritornata al centro delle discussioni dopo il via libera da parte di Bruxelles alla commercializzazione, come alimento, delle larve essiccate del coleottero Tenebrione mugnaio; questo coleottero è il primo insetto a ricevere l’autorizzazione da parte dell’Unione Europea. La decisione in corso di adozione rientra nel piano d’azione UE 2020-30 per i sistemi alimentari sostenibili. Una strategia, nota come Farm to Fork, che identifica gli insetti come una fonte di proteine a basso impatto ambientale che possono sostenere la transizione ‘verde’ della produzione. Al momento sono undici le domande per insetti come nuove basi alimentari all’esame dell’Efsa. E la legislazione nazionale, che per ora non autorizza gli insetti come alimenti, ma solo come mangimi, si adeguerà.

Luigi Scordamaglia
Cari amici, ma gli insetti non sono l’unica trovata che sta facendo clamore; una delle ultime riguarda il “latte di piselli”, promosso di recente dal Vicepresidente di Nestlé Bart Vandewaetere. Si tratta in pratica di una bevanda lattescente ma a base di piselli e che con il latte non ha nulla a che vedere. “Se un italiano vuole del latte, comprerà del latte. Se vuole dei piselli, comprerà dei piselli. Questa invece è una sostanza che ha le sembianze del latte pur non essendolo, a base di piselli trasformati e con aggiunte di sostanze che lo rendono simile al latte”, spiega all’HuffPost Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia, la fondazione che riunisce il meglio del Made in Italy agroalimentare.

Le polemiche intorno alla nuova strategia Farm to Fork, al centro delle trattative europee, non accenna proprio a placarsi, e vede i produttori italiani sul piede di guerra nei confronti di Bruxelles e del Nord Europa. Ma la battaglia di tutte le battaglie passa dal Nutriscore, un sistema di etichettatura dei cibi “a semaforo” proposto dalla Francia e supportata da Bruxelles ma fortemente osteggiato da alcuni Paesi, Italia in testa. Il Nutriscore assegna un bollino, dal verde al rosso, in base alla presenza di zuccheri, grassi o sale nei cibi, ed è già in uso in diversi Paesi europei.

L’Italia, anche col precedente Governo e col supporto dalle associazioni come Confagri, Coldiretti, Filiera Italia, da tempo si batte contro un’etichettatura penalizzante per i prodotti d’eccellenza del Made in Italy. Facciamo qualche esempio: l’etichetta “nutri-score” assegna al parmigiano reggiano il bollino arancione (D): un giudizio critico, senza appello, che punta il dito sulla quantità assoluta di sale presente nell’alimento. Per non parlare poi della mozzarella di bufala, o dell’olio extravergine di oliva, classificato anch’esso con il bollino arancione (D). Quello dell’olio è un esempio esaustivo delle distorsioni che può causare l’etichettatura a “semaforo”: il “nutri-score” assegna all’olio di oliva (non extravergine) lo stesso giudizio dell’olio di colza (bollino giallo, C). Ironia della sorte, come lo stesso vicepresidente Nestlé ha tenuto a mettere in risalto, anche il latte a base di piselli è classificato con la lettera A del Nutriscore, promosso a pieni voti secondo il sistema di etichette che probabilmente sarà adottato in UE.

Le colonne della dieta mediterranea

Cari amici, come ho accennato già, credo che la “Dieta Mediterranea”, stia per arrivare al capolinea! Ma non era la dieta più salutare al mondo, capace di creare un bel numero di centenari? Se l’Europa è questa…meglio che non aggiunga altro!

A domani.

Mario

La dieta sarda della longevità!

giovedì, maggio 27, 2021

AGRICOLTURA E CRISI CLIMATICHE. NEL SUD ITALIA, IN PARTICOLARE SARDEGNA, PUGLIA E SICILIA, DOVREMO DIRE ADDIO ALLE COLTIVAZIONI DI CEREALI.


Oristano 27 maggio 2021

Cari amici,

Che le variazioni climatiche siano diventate capaci di sconvolgere equilibri millenari lo sappiamo già da un pezzo, così come sappiamo che già da tempo avremmo dovuto adottare tutta una serie di azioni capaci di ridurre le emissioni in atmosfera e quindi evitare il costante aumento della temperatura terrestre, che desertificherà altre ampie zone del pianeta. Entro la fine del secolo, dicono gli esperti,  non si potranno più coltivare cereali in Sicilia, Sardegna e Puglia, proprio a causa della crisi climatica.

Si, amici, tra qualche decennio saremo costretti a dire addio a tutta una serie di coltivazioni anche nel nostro Paese, in particolare nelle aree del Sud come la Sardegna, la Puglia e la Sicilia. Queste previsioni non sono fantasiose, ma fatte dagli studiosi finlandesi dell’Università di Aalto. Nello studio appena pubblicato sulla prestigiosa rivista One Earth i ricercatori hanno fornito delle nuove indicazioni sulle aree del Pianeta più interessate dagli stravolgimenti derivanti dalla crisi climatica in atto, e che, entro la fine del secolo, farà danni difficili da rimediare.

Uno dei ricercatori dell’Università di Aalto, Matti Kummu,  specializzato nella gestione delle risorse idriche, ha dichiarato: “La nostra ricerca mostra che la crescita rapida e fuori controllo delle emissioni di gas a effetto serra potrebbe portare, entro la fine del secolo, più di un terzo dell’attuale produzione alimentare globale fuori da uno spazio climatico sicuro”. Per “spazio climatico sicuro” gli studiosi intendono quelle aree in cui avviene attualmente il 95% della produzione agricola, grazie a una combinazione di tre fattori climatici, ovvero: pioggia, temperatura e aridità. “La buona notizia è che soltanto una frazione della produzione alimentare affronterebbe condizioni ancora a noi sconosciute, se però riducessimo collettivamente le emissioni, limitando il riscaldamento globale a 1,5-2 gradi Celsius”, ha sottolineato Kummu.

Per condurre l’interessante studio sono stati utilizzati due scenari futuri legati agli effetti dei cambiamenti climatici: uno che prevede una drastica riduzione delle emissioni di anidride carbonica (1,5-2 gradi Celsius) e un altro nel quale le emissioni continuano ad aumentare. I ricercatori hanno valutato come il cambiamento climatico avrebbe influenzato 27 delle colture alimentari più importanti e sette diversi tipi di bestiame, tenendo conto delle diverse capacità dei diversi popoli di adattarsi ai cambiamenti.

L’analisi dei risultati ha evidenziato che la concretizzazione delle minacce colpirebbero Paesi e Continenti in modo differente: in 52 dei 177 Paesi analizzati, l’intera produzione alimentare rimarrebbe nello spazio climatico sicuro in futuro. Questi includono la Finlandia e altri Stati del Nord Europa. L’Italia, invece, rientra tra le aree in cui l’agricoltura, in particolare la produzione cerealicola, risentirebbe degli effetti devastanti della crisi climatica. Le regioni più colpite dal pericoloso fenomeno sono quelle prima evidenziate: Sicilia, Puglia e Sardegna.

Il problema in realtà è più serio di quanto molti ipotizzano. Le aree del Pianeta in cui la produzione agricola rischia di crollare sono diverse e riguardano il pianeta nella sua interezza. La crisi climatica minaccia in particolare la produzione alimentare nelle aree dell’Asia meridionale e sud-orientale, nonché la regione africana del Sahel in Africa. Si tratta, infatti, di zone che non riuscirebbero ad adattarsi alle nuove condizioni. Il ricercatore Matias Heino, uno degli autori principali dello studio, ha dichiarato: “La produzione alimentare come la conosciamo oggi si è sviluppata in un clima abbastanza stabile, durante un periodo di lento riscaldamento che è seguito all’ultima era glaciale; la continua crescita delle emissioni di gas serra può, purtroppo, creare nuove condizioni e le colture alimentari e il bestiame non avranno il tempo di adattarsi al cambiamento”.

Nel mondo a pagare il prezzo più alto sarebbero i Paesi già vulnerabili come la Cambogia, il Ghana, il Niger e il Suriname, dove il 95% cento dell’attuale produzione alimentare sarebbe a rischio. Ad alto rischio anche il Nord America, la Russia e l’Europa. Come hanno evidenziato i ricercatori finlandesi, queste nazioni hanno anche una capacità significativamente inferiore di adattarsi ai cambiamenti causati dalle variazioni climatiche. “Se lasciamo crescere le emissioni, l’aumento delle aree desertiche sarà particolarmente preoccupante perché in queste condizioni quasi nulla può crescere senza irrigazione. Entro la fine di questo secolo, potremmo vedere più di 4 milioni di chilometri quadrati di nuovo deserto in tutto il mondo”, ha chiarito il ricercatore Matti Kummu.

Cari amici, senza rapidi interventi risolutori, il mondo è destinato a trasformarsi in un deserto. Eppure, a partire dalle nazioni maggiormente sviluppate, sarà proprio l’egoismo dei Paesi ricchi che non vogliono sostenere sacrifici, a bruciare il futuro alle nuove generazioni. Riusciremo a rendercene conto in tempo? Chissà!

A domani.

Mario