martedì, dicembre 31, 2013

OGGI DIAMO L’ADDIO AD UN ANNO CHE HA SEGNATO IN MODO INDELEBILE IL PERCORSO DEL TERZO MILLENNIO. UN ANNO CHE NEL SACCO CHE CONSEGNA AL 2014 CONTIENE UNA MIRIADE DI PROBLEMI IRRISOLTI, UNO PIU’ GRAVE DELL’ALTRO.



Oristano 31 Dicembre 2013
Stanotte alle 24 salutiamo la fine di un anno non particolarmente fausto. In Italia, e ovviamente nel resto del mondo, i problemi non sono mancati. Nonostante notoriamente il “13” sia portatore di fortuna, quest’anno credo proprio che possa essere segnato come un’eccezione, forse per “confermare la regola”. Oggi non faccio come di consueto la mia riflessione, ma scrivo queste due righe solo per salutare tutti Voi e augurarvi un nuovo anno 2014 meno denso di incognite di quello che sta terminando. Con questi auguri spero che in tutti si rafforzi la speranza, per un anno più sereno, e che possa almeno tracciare ai giovani la strada per un futuro migliore.
Voglio salutarvi con una poesia di Pablo Neruda dedicata al giorno di Capodanno. Parla di speranza, quella che ci deve accompagnare sempre.


Poesia per Capodanno "Il primo giorno dell'anno" - Pablo Neruda


Il giorno di Capodanno
Il primo giorno dell'anno

lo distinguiamo dagli altri
come se fosse un cavallino
diverso da tutti i cavalli.
Gli adorniamo
la fronte con un nastro,
gli posiamo sul collo sonagli colorati,
e a mezzanotte lo andiamo a ricevere
come se fosse un esploratore
che scende da una stella.
Come il pane, assomiglia al pane di ieri.
Come un anello a tutti gli anelli.
La terra accoglierà questo giorno

dorato, grigio, celeste,
lo dispiegherà in colline,
lo bagnerà con frecce di trasparente pioggia

e poi, lo avvolgerà nell'ombra.
Eppure,
piccola porta della speranza,
nuovo giorno dell'anno,
sebbene tu sia uguale agli altri
come i pani a ogni altro pane,
ci prepariamo a viverti in altro modo,
ci prepariamo a mangiare, a fiorire, a sperare.

Grazie a tutti!
Mario


lunedì, dicembre 30, 2013

LA RELIGIOSITA’ DELLE ANTICHE CIVILTA’. IL POPOLO DEI NURAGHI E L’USO RITUALE DELLE “CAPANNE SUDATORIE”.



Oristano 30 Dicembre 2013
Cari amici,
che io sia un appassionato della storia della nostra Sardegna credo sia noto a gran parte di Voi che leggete queste righe. Ho avuto modo di visitare molti nuraghi, tombe di giganti, domus de janas, pozzi sacri e quant’altro, per cercare, man mano che mi era possibile, di mettere insieme tutte quelle notizie che mi consentissero di avere chiaro nella mia mente un “percorso di conoscenza”, capace di illuminarmi, di togliermi tanti dubbi, tanti lati oscuri del nostro antico passato. Fra le opere più significative del nostro tardo periodo nuragico che recentemente ho potuto visionare, dopo il lungo restauro, sono stati i Giganti di Mont’e Prama, statue di grande bellezza ed espressione di forza, il cui mistero sia sulla loro funzione originaria che la causa della successiva distruzione, non sarà facile scoprire in tempi brevi.
In questo mio personale percorso di conoscenza, non pochi dubbi mi sono sorti sulla reale funzione di alcuni manufatti, di forma circolare, presenti in molti luoghi nuragici; la loro collocazione centrale faceva presumere fosse un luogo di riunione, anche se limitato ad un gruppo di persone. Una specie, insomma, di sala riunioni dei capi della Comunità, oppure qualcos’altro? Una ipotesi di utilizzo è stata formulata da Pier Luigi Montalbano, che scrive nel suo blog, in un “pezzo” dedicato alle terme/capanne, (http://pierluigimontalbano.blogspot.it/2013/08/civilta-nuragica-terme-capanne-lustrali.html ), che quasi certamente anche nella civiltà nuragica esistevano e avevano una funzione sacro/religiosa le cosi dette “capanne sudatorie”, anche se, ovviamente, resta solo un’ipotesi. La Capanna Sudatoria, come scrive Riccardo Fioravanti nel suo blog (http://ecatemethod.blogspot.it/2012/11/cose-la-capanna-sudatoria.html ), fa parte di un antico rituale praticato da diverse Culture Native del pianeta,  presenti ed operative in varie parti del mondo. I bagni di vapore per scopi di purificazione e rigenerazione hanno quindi rappresentato un’esigenza diffusa, non limitata ad un’unica cultura. Nella gran parte dei casi tali pratiche erano in funzione con un doppio significato: fisico e spirituale; pratiche necessarie per un rinnovato benessere del corpo e anche dello spirito. Usanza questa che si è perpetuata nel tempo, arrivando anche fino ai nostri giorni, pur trasformata in funzione della ricerca del benessere psicofisico, come ad esempio la sauna finlandese, che trae origine proprio da antiche pratiche sciamaniche, praticate nell’antichità nel Nord Europa, o i bagni di sudore termali, praticati prima dagli antichi Etruschi e poi dai Romani, ed ancora oggi in auge.
La probabile esistenza anche nella civiltà nuragica di queste “capanne sudatorie” rituali, sembra confermata dall’attento esame di qualcuno di questi manufatti circolari prima citati, che sembra proprio avvalorare questa ipotesi. L’analisi di questi fabbricati circolari ha accertato che all’interno della capanna vi era lo spazio per fuoco  per  dell’acqua. Intorno alla vasca centrale essi erano dotati di un sedile circolare che poteva ospitare fino a una decina di persone. Spazio modesto, che gli archeologi ipotizzano servisse ad un ristretto numero di persone, ma senza accertarne gli scopi: le diverse ipotesi formulate non hanno dato una risposta univoca. Gli studiosi hanno sciorinato le ipotesi più suggestive: fornaci, terme, capanne per riti (ma non si sa quali) e altre ancor più fantasiose. Un’ipotesi interessante è quella formulata da Pier Luigi Montalbano, che io condivido, circa l’attribuzione a questi manufatti della funzione di “capanne sudatorie”, il cui uso, come detto, è stato già accertato in diverse civiltà della stessa epoca, in altre parti del mondo, come, ad esempio, tra gli indiani d'America. Per rimanere all’interno della nostra civiltà, chi visita con attenzione il villaggio nuragico di Barumini, potrà osservare una capanna circolare con tutte quelle caratteristiche, che indurrebbero a sposare questa teoria. Le similitudini, infatti, con le capanne sudatorie degli indiani d’America, sono tali da confortare i sostenitori di questa teoria.
La capanna sudatoria, o Inipi, come era chiamata dagli Indiani nativi d’America, era per loro un autentico luogo di preghiera. La parola “Inipi” nella loro lingua significa “nascere di nuovo”, rinascere a nuova vita, per essere sempre in totale sintonia con lo spirito dell’universo: un omaggio, un canto dell’uomo alla grande madre terra, che purifica e guarisce l’uomo ferito. La capanna sudatoria, quindi, come luogo di culto, dove ritrovare se stessi, esternando il ringraziamento alla terra, Madre creatrice. Questi antichi rituali consentivano ai componenti quella comunità di riconnettersi, purificandosi, con la natura, con la Madre Terra, e con tutto l’universo. I rituali praticati nella capanna ricreavano nel gruppo quella “rinascita” cercata, che oniricamente riportava l’uomo nel grembo materno; il corpo, perdendo con la copiosa sudorazione le scorie accumulate, si rigenerava e, ritornato purificato, pulito come un neonato,  poteva riprendere con vigore la sua attività, apprezzando nuovamente le meraviglie del creato e la bellezza delle cose che lo circondavano. Il rito che si svolgeva nella capanna sudatoria era una delle cerimonie più importanti di purificazione dei nativi americani. 
Anche altri popoli avevano in uso cerimonie simili: sono state accertate ad esempio in Messico con il Temascal, o in Perù con il “Bagno degli Incas”; anche nelle culture europee, soprattutto nel nord Europa, si sono trovate tracce di una antica pratica della capanna del sudore, come in Finlandia o nella tradizione celtica.
Il rito della capanna, quindi, con il suo doppio risultato,  fisico, con la purificazione del corpo con il vapore, e  spirituale, attraverso un “viaggio interiore”, nel buio della propria coscienza, che, con l’aiuto degli spiriti, consentiva all’individuo di liberarsi delle sue ansie e delle sue angosce,  consentendogli quella voluta profonda trasmutazione che lo avrebbe guarito dai propri mali. L’atto fisico di purificazione che il corpo mostra, nel lasciar uscire il sudore, testimonia anche l’apertura dell’anima verso quegli infiniti spazi interiori che, con l’accompagnamento e l’aiuto di preghiere, canti e la presenza degli spiriti benevoli, davano al soggetto una rinnovata possibilità di guarigione sia dai mali fisici che spirituali.
In Sardegna, Il complesso di Sedda 'e sos carros di Oliena, recentemente analizzato da studiosi di fama internazionale come Mauro Atzei, mette in luce diversi aspetti ancora sconosciuti e molto importanti, relativi alla spiritualità  del passato del nostro popolo dei Nuraghi. Proprio Mauro Atzei, scrivendo all’amico Marcello Cabriolu (notizia rinvenuta si internet http://ilpopoloshardana.blogspot.it), così si esprime sull’analisi del sito di  Sedda 'e sos carros:
Caro Marcello, leggevo proprio oggi il tuo interessante resoconto sul sito sacro di sedda e sos carros. Mi pare che siano passati non molto più di due mesi da quando ho avuto l'occasione di seguire, proprio relativamente a questo bellissimo complesso rituale situato in territorio di Oliena, la conferenza dell'archeologa nugorese Gianfranca Salis che ne parlò con profusione di particolari. A parte il grande dispiacere nell'apprendere dei danneggiamenti subiti dalle nove protomi d'ariete, giustamente prelevate dalla sovrintendenza per meglio tutelarle e sostituire con delle coppie fedeli, l'impressione che quel tipo di vasca dotata di fornelli esterni per il riscaldamento dell'acqua (simile nella tipologia come tu hai giustamente riportato a quelle di Serra Orrios a Dorgali e di Su Romanzesu a Bitti), oltre che per le forme circolari del complesso, fanno pensare ad un impianto tipo temazcal per la creazione di un ambiente sacro del sudore. Io penso che l'impianto, chiuso a tholos, come gli studiosi suppongono, fosse in origine una sofisticatissima capanna sudatoria in stile nuragico, probabilmente antesignana delle capanne sudatorie da li a venire. Il sospetto è che già in diverse tombe dei giganti i nuragici svolgessero queste tipologie rituali. Tuttavia, alla fine del bronzo, certamente, il sincretismo avvenuto con l'esorcizzazione di miriadi di nuove divinità, cioè con l'esercizio dell'animismo sempre più spinto, messo in mostra con la produzione della bronzistica sacra, ha segnato anche un balzo in avanti nella realizzazione di capanne sudatorie certamente architettonicamente molto elaborate e sofisticate. Il rituale che le sacerdotesse svolgevano in questi piccoli edifici cultuali erano simili senz'altro a quelli che si svolgono ora tra i nativi americani. Chi ha fatto esperienza dell'effetto mistico indotto da questo genere di pratiche (io lo feci sotto la saggia guida di una anziana sciamana maya), sa che lo scopo principale, oltre al rituale della purificazione spirituale e fisica tout court, è quello di avere con facilità, la trance estatica che porti con se la "visione mistica". (Mauro Atzei).

Tutto questo, a mio avviso, non fa che confermare che anche presso il popolo dei nuraghi  fossero attive, come del resto presso altre civiltà dello stesso periodo storico, delle apposite “capanne sudatorie”, che riuscivano a legare l’umano con il diviso, in un connubio di purificazione ed ascesa spirituale. Tutto lo fa supporre, anche il simbolismo esteriore: dalla forma del manufatto, agli appositi spazi interni, creati per essere un vero e proprio “luogo di culto”. La capanna simboleggia la Terra, l’altare la Luna e la buca del fuoco il Sole. Lo studio delle capanne sudatorie del popolo americano dei pellerossa, ben più avanzato, ha messo in luce anche i rituali di partecipazione, molto significativi. Le persone che prendono parte al rito entrano nella capanna a gattoni, come i bambini, a rappresentare l’umiltà verso il Grande Spirito e il rispetto verso la divinità. Successivamente vengono portate all’interno della capanna le pietre roventi, una alla volta, e viene chiusa la porta in modo da oscurare totalmente l’ambiente. E’ un modo di ricreare l’origine della vita, un “rientrare” nell’utero di Madre Terra, con lo scopo di purificarsi e “rinascere” a vita nuova. All’interno della capanna si canta, si prega, si condivide il rito, in comunione spirituale. Si versa, poi, l’acqua sulle pietre roventi che incominciano a cantare, cioè a rilasciare il vapore. In questo modo la temperatura nella capanna sale, dando inizio così alla sudorazione, alla purificazione dei partecipanti: sia nel corpo che nella mente; mentre il sudore esce dal corpo le emozioni di ciascuno subiscono uno shock difficilmente raccontabile. Sicuramente l’unico modo per conoscere le reali emozioni che si provano in quei momenti nella Capanna Sudatoria è praticare il rito!

Cari amici, scoprire tutto questo e poi raccontarlo a Voi, accende la mia mente, fervida e fantasiosa, in modo particolarmente intenso. Essa immagina, in una chiara visione onirica,  questo gruppo di nostri antenati nuragici riuniti e “connessi”, tutti insieme, in una grande capanna sudatoria, che rivolge una preghiera corale alla dea madre terra; un “collettivo” forte e coeso, che affronta un processo di purificazione, attraverso il quale scaricare il corpo dalle impurità e spiritualmente cercare di recuperare i valori del vivere in comunità.
Un efficace metodo, non individuale ma collettivo, di fare una profonda analisi interiore di se stessi, quasi un confessarsi collettivo di fronte allo spirito, dichiarando di essere fragili peccatori di fronte alla divinità, rappresentata dagli elementi della natura. Un modo, attraverso la purificazione, di chiedere il perdono e la guarigione, del corpo e dell’anima. Un omaggio ed una sottomissione alle divinità primordiali, rappresentate in tutta la loro forza dal fuoco posto al centro, dall’acqua che porta la vita, dagli spiriti del vapore e dell’aria, che portano in alto le preghiere rivolte all’entità superiore, la madre terra, pronta a perdonare e a riaccogliere sempre i suoi figli nel suo grembo.
Cari amici, l’uomo ha sempre cercato Dio, questa Entità Superiore che stava sopra di Lui. La religiosità del passato, pur in uno stadio embrionale, sostanzialmente non è molto differente da quella di oggi! Grazie amici della Vostra gradita attenzione e ancora...a tutti Voi i miei migliori auguri di…
                              BUON ANNO!
Mario

domenica, dicembre 29, 2013

IL RISO: DALLE PENDICI DELL’HIMALAYA, ALLE FERTILI PIANURE SARDE DEL CAMPIDANO DI ORISTANO. UNA LUNGA STORIA.



Oristano 29 Dicembre 2013
Cari amici,
in Sardegna proprio noi, abitanti della pianura di Oristano, abbiamo assistito, agli inizi del secolo scorso, all’introduzione del riso in Sardegna. La coltivazione nella nostra isola del riso risale, infatti, al 1927, quando, nel corso della bonifica dalla quale è nata Arborea  (allora Mussolinia), fu avviata - in via sperimentale – una cultura di questa graminacea nei terreni acquitrinosi del Sassu, cultura capace di accelerare il necessario processo di lisciviazione delle acque. 
Quell’esperimento, che impiantò per la prima volta il riso in Sardegna, fu il felice inizio di una bella iniziativa, in quanto le pianure del nostro Campidano si rivelarono un territorio ideale per la produzione del riso. Vediamo ora, insieme, questa storia interessante, partendo dalla conoscenza di questa pianta.

Il “Riso”, (Oryza sativa L.), dal greco antico òryzha, όρυζα, è una pianta erbacea annuale della famiglia delle Graminacee, di origine asiatica. Insieme alla Oryza glaberrima, dal pericarpo pigmentato rosso coltivata in Africa, è una delle due specie di piante da cui si produce il riso. L' Oryza sativa è la specie maggiormente coltivata, in quanto utilizzata su circa il 95% della superficie mondiale coltivata a riso. In quale parte della terra il riso abbia avuto origine non è dato sapere con certezza: si ritiene, però, che le varietà più antiche siano comparse oltre quindicimila anni fa lungo le pendici dell'Himalaya. L’unica certezza, sulle origini di questo alimento, è che era presente in Asia, precisamente in Cina, verso il VI millennio a.C.. Fin da allora il riso costituiva il cibo principale per quelle popolazioni, e oggi, teniamo conto che circa la metà della popolazione mondiale si nutre di riso, ormai coltivato in quasi tutti i paesi del mondo.
Il riso, partendo dall’oriente, raggiunse il bacino del Mediterraneo in epoca classica, probabilmente a seguito della conquista dell’Asia da parte di Alessandro Magno (356-323 a.C.). Fu Teofrasto (371-287 a.C.) a scrivere per primo su questa graminacea. In epoca romana il riso era un prodotto raro e costoso e veniva utilizzato solo per scopi medicinali. In Italia (così come in Spagna) il riso venne verosimilmente introdotto durante la dominazione araba, e coltivato inizialmente in Sicilia. Durante quasi tutto il Medioevo questo cereale, pur circolando, era considerato una delle tante spezie che giungevano dall’Oriente con le navi arabe, genovesi e veneziane, non un prodotto alimentare vero e proprio. La cucina europea iniziò ad utilizzare il riso come ingrediente solo nella seconda metà del XV secolo. Fu verso la fine XV secolo che, grazie alle prime risaie impiantate da Ludovico il Moro e Galeazzo Sforza, in Lombardia e in Piemonte, che il riso iniziò la sua storia alimentare in Italia. Gli inizi non furono facili: come altri prodotti d’importazione, nel corso del tempo il riso ebbe momenti di successo e di involuzione. Nel XVII secolo venne accusato dai medici di essere portatore della malaria, ma nel secolo XVIII, essendo state riconosciute le sue preziose qualità alimentari, il riso, tornò in auge.
Oggi l’Italia è il primo paese produttore di riso nell’Unione europea, in quanto con i suoi 235.000 ettari coltivati (rif. 2012), rappresenta il 52% dell’intera superficie coltivata a riso nell’Unione stessa, pari a oltre 450.000 ettari. Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna sono le regioni a più alta vocazione risicola, che oggi forniscono oltre il 90% della produzione italiana. La pianura padana ed in particolare il delta del Po, costituiscono la “zona ideale” per la produzione del riso di alta qualità e per questo motivo il riso del Delta del Po ha ricevuto dalla Comunità Europea il  primo Igp di Indicazione Geografica Protetta,  già reso operativo.
In Sardegna, dopo l’esperimento effettuato nel 1927 nel Sassu (da agricoltori veneti), nei decenni successivi la coltivazione si estese, interessando buona parte dei terreni prima occupati dalle acque dello Stagno del Sassu. Ultimate le opere di bonifica e modificati gli ordinamenti colturali, la coltivazione del riso si spostò e si diffuse nel circondario: fu la piana di Oristano a fare da cavia, mettendo il riso a dimora nei terreni di Oristano, Palmas Arborea, Cabras, Simaxis, e altri. Accertata la buona capacità di questi terreni a recepire la nuova coltivazione, gli ettari coltivati aumentarono, fino a raggiungere e superare i 3.000 ettari (nell’annata agraria 2003-2004), Nella fase iniziale dell’introduzione della coltura, la trasformazione del prodotto per uso alimentare avveniva a livello familiare con l’impiego di sbramini artigianali; solo alla fine degli anni ’50, ad Oristano, si realizzò una riseria che consentì la standardizzazione dei processi di trasformazione.
L’Oristanese, dunque, si è rivelato il centro sardo della risicoltura. Tra alti e bassi, come spesso accade nelle produzioni agricole, a dispetto della crisi che più volte ha investito il settore risicolo, malgrado i costi di produzione che negli ultimi anni sono saliti alle stelle, tanto da diventare, ad esempio nel caso dell’acqua, proibitivi soprattutto per i piccoli agricoltori, le coltivazioni di riso nelle nostre pianure non hanno ceduto alla crisi e non hanno gettato la spugna. Semmai, in controtendenza, le coltivazioni sono aumentate, acquisendo un trend positivo ininterrotto, a partire dal 2006, anno della grande crisi, quando dai 4.310 ettari coltivati nel 1997, si era scesi ad appena 2.388. Già nell’anno successivo, nel 2007, gli ettari a risaia in provincia erano saliti a 2.676, per crescere ancora nel 2008 a quota 2.912. Una risalita che nel 2009 ha portato ad estendere la coltivazione a 3.280 ettari, quota ormai stabilizzata. Nel 2011 gli ettari coltivati sono stati 3.524, con una produzione di 253.640 quintali.
La Sardegna è stata sempre capace di sperimentare nuove produzioni: lo è stato anche per riso. Nuovi esperimenti di questa cultura sono in corso nel cagliaritano. Considerati i grandi costi di produzione, soprattutto dell’acqua, elemento base ed indispensabile nella produzione di questa graminacea, si stanno sperimentando culture con basso apporto di acqua. Nel Campidano di Cagliari, in particolare nei terreni di Samassi e Sanluri, da anni dediti alla monocultura del carciofo, è da poco iniziato l’esperimento della semina del riso con nuove metodologie. La nuova coltura, avviata su circa duecento ettari a Samassi e Sanluri, sembra abbia dato risultati già positivi. "La produzione del riso costa di più ma genera ricavi significativamente più alti" dicono gli esperti. A fare da guida nella coltivazione del riso in questi terreni, prima dediti al carciofo, sarà uno dei massimi esperti di risicoltura nell'Isola, il prof. Pietro Spano (del Dipartimento di Scienze agronomiche della facoltà di Agraria di Sassari), che istruisce gli agricoltori ammonendoli che "Dalla preparazione del terreno, che deve essere accurata, alla scelta varietale e alla semina, dall'irrigazione all'uso degli anticrittogamici: è necessario dimenticare i metodi usati sulle colture precedenti, perché il riso è un'altra cosa". Invito, quello rivolto, teso a stimolare gli agricoltori alla determinazione ma anche alla prudenza; il prof. Spano, senza nascondere ai prossimi risicoltori di Samassi e Sanluri le difficoltà di una coltivazione “diversa” da quella del carciofo, ha voluto precisare che la nuova cultura ha in se "un grande potenziale. Se darà risultati favorevoli il nuovo metodo di irrigazione (anziché allagare il terreno (metodo a sommersione), usando il metodo ad aspersione, per mezzo di micro irrigatori, con evidente risparmio d’acqua), i risultati non mancheranno.
A Samassi il riso sarà coltivato con quest'ultimo metodo, cosiddetto in asciutto, con minori spese: utilizzi d’acqua da 28 mila a 78 mila metri cubi per ettaro, con rese che vanno dagli 85 ai 110 quintali ad ettaro a seconda della varietà, e prezzi che sfiorano i 50 euro al quintale. Dati questi che sembrano incoraggiare molto i coltivatori. "Ho in programma di coltivare due ettari e mezzo", dice Ferruccio Cauli, samassese, che si augura "che il riso possa rappresentare una valida alternativa alla monocultura del carciofo". Il riso, insomma, mantiene nei sardi una buona vocazione agricola, nonostante la crisi.
Il direttore della sede di Oristano dell’Ente nazionale risi, Sandro Stara, recentemente intervistato sostiene che “i risicoltori, nonostante le difficoltà comunque esistenti, puntano ancora su questa produzione”. Anche l’industria che si occupa di commercializzare il riso locale, conferma: «Per fortuna nell’Oristanese la risicoltura non sembra affatto in via di dismissione, la produzione qui è pari al 95% del totale - dice Cesello Putzu di “Riso della Sardegna” - e lasciare, sarebbe un errore, data l’elevata qualità raggiunta. Ovviamente le difficoltà non mancano, a partire dagli elevati costi di irrigazione. I canoni del Consorzio di Bonifica sono in continua ascesa ed i margini di guadagno per gli agricoltori si fanno sempre più risicati.

La speranza di tutti i sardi è che la ripresa economica sia ormai vicina e che la Sardegna riscopra sempre di più la sua vocazione agricola. In passato l’Isola è stata il “granaio” dei romani, ed oggi, con il riso, può continuare ad essere un punto di riferimento agricolo di qualità. Se lo augurano tutti i sardi, perché i prodotti della nostra terra, oltre ad essere fra i più buoni al mondo, possono rappresentare un miglioramento sensibile nella nostra attuale magra economia. Per finire, cari amici, dato che abbiamo parlato di riso e della sua storia, riporto due ricette, dove il buon riso sardo può essere davvero gustato in tutta la sua fragranza e bontà. La prima ricetta lo lega ai nostri asparagi selvatici, la seconda ai porcini e alla bottarga.

Risotto agli asparagi selvatici (sardi)

Ingredienti: 400 g riso carnaroli, un mazzetto di asparagi selvatici, brodo vegetale,  cipolla, aglio, olio extravergine di oliva, vernaccia giovane, formaggio pecorino fresco grattugiato, sale e pepe.


Dopo aver pulito gli asparagi selvatici, (per chi non lo sa…si spezzettano con le mani finche non fanno resistenza e ciò che è duro si scarta), si lasciano in ammollo in acqua con un pizzico di bicarbonato per un'oretta, si sciacquano e si mettono da parte le punte; il resto invece viene tritato finissimo con coltello affilato su un tagliere di legno. Si fa un buon brodo con: pomodori, bietola, carote, cipolla, patate, prezzemolo e sedano per circa un paio d'ore, gran parte del sapore del risotto dipende da un buon brodo. In una pentola dai bordi alti, soffriggere uno spicchi d'aglio con mezza cipolla, dopo aggiungere il tritato di asparagi e far insaporire per qualche minuto, mescolando spesso, a pentola coperta. Aggiungere il riso, farlo tostare per qualche minuto, versare della vernaccia giovane e farla lentamente evaporare; a questo punto aggiungere il brodo caldo un po’ per volta, a metà cottura aggiungere le punte e finire di cuocere il risotto. Servire ben caldo e, a piacere, spolverare con formaggio pecorino dolce fresco grattugiato grosso.

Risotto ai porcini e bottarga di Cabras.
Ingredienti: 400 g riso carnaroli, 400 g di funghi porcini, 1,5 l di brodo di carne, 1 cipolla, 1 spicchio di aglio, olio extravergine di oliva, vernaccia giovane, bottarga di muggine di Cabras, prezzemolo tritato a piacere, sale e pepe.

Preparazione: Con l’aiuto di un coltello rimuovere la base dei gambi dei funghi porcini, in modo tale da ripulirli dai residui di terra. Pulire i funghi strofinandoli leggermente con della carta assorbente inumidita con acqua, rimuovendo in questo modo eventuali granelli di terra rimasti e pezzetti di erba o foglie. Tagliare a striscioline i gambi e le cappelle, cercando di mantenere uno spessore costante di 3-4 mm. In un tegame antiaderente far soffriggere uno spicchio d’aglio smezzato in un po’ d’olio. Unire i funghi precedentemente preparati e farli soffriggere per non più di 10 minuti aggiungendo sale, pepe, prezzemolo. Aggiungere il riso e farlo tostare qualche minuto, mescolandolo affinché non attacchi. Versare nella pentola un po’ di vernaccia e lasciar sfumare. Quando il vino si è asciugato, continuare la cottura aggiungendo un po’ alla volta il brodo bollente, precedentemente preparato, avendo cura di mescolare con continuità per evitare che il risotto attacchi. A cottura ultimata, aggiungere il prezzemolo fresco tritato finemente e lasciar mantecare per un paio di minuti. Prendete ora le baffe di bottarga e grattugiatele al momento.


Che ne dite? Buon appetito e…Buon Anno!
Mario