Oristano 22 Dicembre
2013
Cari amici,
E’ stato recentemente pubblicato
sull’albo pretorio del Comune di Bauladu (il mio comune d’origine e di nascita)
un avviso pubblico per l’acquisizione di manifestazioni di interesse per
l’affidamento del servizio di valorizzazione e promozione della produzione
della “Sapa di fico d’india” (sa Saba de
fiungrega) e dei prodotti tipici locali del comune di Bauladu. I Bauladesi
interessati erano invitati a comunicare la loro eventuale manifestazione di
interesse al Servizio Amministrativo del Comune di Bauladu – via
Giorgio Asproni n. 4, oppure a mezzo posta elettronica certificata
all’indirizzo comune.bauladu@anutel.it.
Nell’apprezzare lo sforzo che i piccoli comuni stanno effettuando per mettere
in luce e salvaguardare la storia e la bontà degli antichi prodotti alimentari
e delle altrettanto antiche ricette, non posso che complimentarmi con Davide
Corriga, sindaco di Bauladu, e tutta la sua giunta per questa interessante iniziativa.
Ho già avuto modo di
parlare su questo blog del fico d’india, che dalle nostre parti abbonda, e
della bontà di questa pianta che in
passato, ai tempi della civiltà contadina, forniva non poche risorse alla magra
economia familiare. Della pianta del ficodindia si utilizzavano tante sue
parti. Scrivevo nel mio blog (era il 3 Ottobre del 2011) “…I pregi di questa pianta, però, non si limitano alla bontà dei suoi
frutti. Negli anni passati il ficodindia veniva usato come recinzione per i
terreni, soprattutto nelle zone dove non vi era grande disponibilità di pietre,
come il campidano. Essendo spinoso era utile a scoraggiare i malintenzionati e
anche gli animali predatori. I suoi cespugli offrivano riparo sicuro agli
animaletti selvatici che nelle loro vicinanze sistemavano la loro tana. Le
parti che venivano staccate dalla pianta con la potatura erano talvolta usate
come fertilizzante naturale e le parti che con gli anni, invece, erano
diventate legnose, una volta secche erano un ottimo combustibile che alimentava
sia i caminetti che il forno per la cottura del pane e dei dolci. I fiori erano
poi una grande attrazione per le api che con il nettare ricavato producevano
uno squisito miele. Con i fiori e le foglie si preparavano anche dei
medicamenti secondo le antiche ricette, quando allora le farmacie non erano
diffuse come oggi e si ricorreva abbastanza spesso alla medicina popolare…”.
I frutti, però, sono la
parte più “succosa” e preziosa di questa pianta: usati freschi
nell’alimentazione umana ed animale (a quei tempi la gran parte delle famiglie
aveva in casa il maiale domestico che veniva alimentato prevalentemente con i
fichi d’india), servivano anche a produrre un dolcissimo nettare che nelle case
povere era un vero e proprio elisir con molteplici funzioni: la Sapa, da noi
comunemente chiamata “saba de
fiunfgrega”. La ricetta, nata sicuramente per ovviare, da parte delle
famiglie povere, alla mancanza di uva e quindi di mosto, ben più costoso,
aveva però raggiunto un ragguardevole risultato: la sapa di ficodindia era
buona allo stesso modo, se non addirittura più buona di quella d’uva. Una
bottiglia di sapa in casa era come un amuleto contro molti mali: era un dolcificante,
all’occorrenza medicamento per le malattie da raffreddamento, oltre che
componente essenziale nella fabbricazione dei dolci, in particolare del “pane
di sapa”, su pan’e saba,
caratteristico dolce invernale, usato sia a novembre (festività di tutti i
santi) che a Natale e Capodanno.
La preparazione di questo elisir costava, però,
una grande fatica: richiedeva molto tempo e parecchia perizia culinaria, ma le
massaie di allora possedevano l’uno e l’altra in abbondanza. Rivediamo insieme
le lunghe e faticose fasi della lavorazione.
Le massaie che avevano
deciso di fare la sapa andavano a raccogliere i frutti di
primo mattino, possibilmente qualche giorno dopo che aveva piovuto, in quanto
la pioggia rendeva i frutti più polposi e succulenti. Scelti uno per uno i
frutti migliori (distaccati con perizia con la canna apposita, sa cannuga) e riempita la cesta (su cadinu), si portavano a casa ed
iniziava subito la lavorazione. Si sbucciavano con un
coltello affilato i fichi d'india che, riposti in un capiente recipiente di
terracotta (su tianu), venivano spremuti
con forza schiacciandoli con le mani. Stabilita la quantità necessaria per la
cottura si versava il composto in una pentola capiente con l’aggiunta di un
mestolo d’acqua, che veniva messa su camino a cuocere per circa 30 minuti. Questa
prima operazione era necessaria per far staccare la polpa dai semi.
Al termine
di questa prima fase il composto, cremoso ma abbastanza liquido, veniva
filtrato con una garza a trama larga: spremendo con le mani la polpa questa si separava agevolmente dai numerosi semi. Il
denso liquido ottenuto veniva versato nuovamente nella pentola, aggiungendovi
anche scorza di buccia d’arancia secca e un mazzetto fresco di infiorescenze di
finocchio selvatico (volendo si potevano utilizzare anche i semi secchi della
pianta, sa matafalluga). Rimessa la
pentola sul fuoco, alla ripresa del bollore, si lasciava cuocere a fuoco
lentissimo, sorvegliando la cottura e rimestando in continuazione, fino a che il liquido, perdendo vapore, non si
addensava al punto giusto. La quantità del liquido inziale perdeva con l’evaporazione
oltre tre quarti del suo volume, riducendosi, infine, ad un quinto. Il tempo di
cottura necessario era di circa 5, 6 ore. Il prodotto finale era un liquido
denso e scuro, profumato e molto dolce.
Una volta lasciato raffreddare era pronto
per essere filtrato, imbottigliato e sigillato. Con la sua alta concentrazione zuccherina
la sapa si conservava a lungo (da due a cinque anni), custodendola in luogo
fresco, cosa allora era molto più semplice, in quanto non c’era nelle case il
riscaldamento centrale.
Questo dolcissimo
prodotto naturale, sapiente frutto del nostro passato, è stato recentemente
rivalutato: La sapa di fichi d'india ha ricevuto il riconoscimento della
Comunità Europea come “Prodotto
Tradizionale”, meritevole di menzione in quanto per ottenerlo vengono
utilizzate materie prime di particolare pregio e rientra tra i prodotti tipici
del luogo. Con il termine “Prodotti Tradizionali” si intendono
quei prodotti agroalimentari le cui metodiche di lavorazione, conservazione e
stagionatura risultino consolidate nel tempo, omogenee per tutto il territorio
interessato, secondo regole tradizionali, per un periodo non inferiore ai
venticinque anni. Il sistema dei prodotti tradizionali è regolamentato dal
decreto del 18 luglio 2000. “Prodotto Tradizionale” è un marchio di proprietà
del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali.
Questa rivalutazione ha
fatto si che questo prodotto della tradizione sia ancora oggi valido e utilizzato:
ingrediente base, ieri e oggi, per tutta una serie di ricette per la confezione
di rinomati dolci sardi: pane di sapa e ziriccas, in primo luogo. Ai miei tempi
(anni ’50 del secolo scorso) il prodotto era anche utilizzato come dolcificante
casalingo e leccornia per “premiare” le buone azioni dei bambini che, con una
fetta di pane spalmata di sapa, potevano godere e gustare quel suo dolce e scuro sapore,
forse meglio di quanto facciano i bambini di oggi con la nutella.
Anche dell’antico “Pan’e Saba”, dolce buonissimo di una
volta, che a mio avviso fa 10 a zero a tutta quella serie di panettoni e pandoro
che il mercato globale sforna in quantità immense, si riparla con attenzione:
lo si ritrova spesso in sagre e manifestazioni che ricalcano i sapori del
passato. Rivediamo un attimo, insieme, l’antica ricetta. Il pane di sapa è un
pane dolce che viene preparato tradizionalmente agni inizi dell’inverno, in
occasione delle festività di Ognissanti e della commemorazione dei defunti. Per
la sua preparazione sono necessari farina, possibilmente di grano duro, lievito
naturale, sapa e altri ingredienti come mandorle, noci o pinoli, uva passa,
aromi come cannella, semi d’anice, scorza di limone o di arancia. La presenza
della sapa conferisce un colore scuro a questo pane oltre a determinarne un
gusto dolce e particolare.
Gli
ingredienti base, per una festicciola familiare sono:
500 g di farina, 350 ml
circa di Sapa, 200 g di pinoli, 150 g. di noci sbucciate, 200 g. di uva passa,
100 g. di mandorle spellate, 25 g. di lievito di birra, 5 grammi di cannella, semi
d’anice, profumo di limone o arancia, 1 pizzico di sale, liquore marsala q.b.,
poca acqua tiepida per far sciogliere il lievito, Sapa per spennellare.
Il
procedimento da seguire:
mettete a bagno per
qualche minuto l’uva passa nel marsala; sminuzzate le noci e le mandorle e sciogliete
il lievito in poca acqua tiepida. Setacciate la farina e versatela in una
ciotola capiente, unite il lievito e iniziate a lavorare; aggiungete poi anche
la Sapa, poco per volta, per non correre il rischio di ritrovarvi alla fine tra
le mani un impasto eccessivamente molle (potrebbe servirne meno, ma a seconda
della capacità di assorbimento della farina, anche qualcosina di più). Una
volta ottenuto un impasto compatto incorporate tutti gli altri ingredienti:
partite dal sale, poi continuate con la cannella e infine l’uvetta strizzata,
le noci, le mandorle e i pinoli i semi d’anice e i frammenti di buccia d’arancia
o limone. Quindi dividete la massa in quattro parti, sagomandole in modo da
dare a ciascuna una forma tondeggiante (potete aiutarvi, se l’avete, anche con una
forma in metallo), da disporre poi su un vassoio coperto da un canovaccio
bagnato, con sopra dei panni caldi.
Fate riposare il tutto, così predisposto,
per una notte. Trascorso il tempo necessario, spennellate le forme con la Sapa
e mettete in forno caldo a 180° per circa 35-40 minuti; prima di togliere dal
forno fate sempre la prova stecchino infilandolo al centro del pane: se lo
stecchino uscirà pulito, il Pan’e Saba è cotto. Appena sfornati, lucidate i pani
con altra Sapa e guarniteli con le palline colorate. Il dolce pane di sapa, lucido e brillante, a questo punto è pronto e una
volta raffreddato si può mettere a tavola: fragrante e gustoso viene servito agli ospiti tagliato
a fettine, accompagnato da vini liquorosi e
profumati.
Cari amici,
salvaguardare il nostro passato è importante anche per affrontare il futuro con
maggiore consapevolezza e non dimenticare mai che l’albero più forte e
resistente è quello che ha le radici più profonde. Passato, presente e futuro
sono periodi strettamente legati: conoscendo e riscoprendo il passato possiamo
vivere bene il presente e affrontare meglio il futuro. Sono felice che il mio
amato paese, Bauladu, sia su questa lunghezza d’onda. Essendo stato invitato ho
saputo che anche per questo fine anno è stata rinnovata l’ormai tradizionale “Sagra
de su trigu cottu”, organizzata dalla Pro Loco di Bauladu con la
collaborazione dell’Amministrazione Comunale. Parteciperò alla festa con mio
figlio Santino, che per l’occasione farà un bel servizio fotografico, che
pubblicherò anche su questo blog unitamente alle mie considerazioni.
Cari amici, se volete
rivivere queste intense sensazioni del passato partecipate anche Voi! Siete
tutti invitati! Ecco la locandina.
Grazie dell’attenzione.
Mario
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