domenica, ottobre 30, 2011

TRADIZIONE O INNOVAZIONE? COSTRUIRE IL FUTURO CON LE “PIETRE” DEL PASSATO.


Oristano 30 Ottobre 2011

Cari amici,
l'argomento di oggi per quanto possa apparire semplice, quasi banale, ha a mio avviso un significato ben più profondo dell'apparenza. Che il mondo cambi è da tempo una cosa nota, direi una necessità. Cosa ben più complessa è, invece, la "mania" del cambiare, a tutti i costi, a prescindere dalla sua utilità. Questo argomento mi ha portato a riflettere: tradizione o innovazione? Problema apparentemente semplice ma sostanzialmente complesso.

Prima di esternarvi questa mia riflessione vorrei analizzare con Voi questi due termini che, sotto molti aspetti, sono antitetici.
Esaminiamo prima il termine “Tradizione”.

“Tradizione” deriva dal latino “traditio” che indica l'atto di tradere, da trans-dare, con il significato di consegnare ed anche “trasmettere”, come un'eredità, una memoria, una notizia, un insegnamento sia a parole che per scritto. Il significato, quindi, della parola tradizione ci porta al termine ‘trasmettere’, consegnare. Una sorta di passaggio, un qualcuno che dà ad un altro qualcosa. Mi viene in mente una staffetta, dove per arrivare al traguardo si susseguono vari corridori che si passano un testimone.
Nel linguaggio comune "tradizione" significa, anche e soprattutto, "abitudine" e "tradizionale" è ciò che è entrato a far parte delle consuetudine, come certi aspetti del costume o della moda e persino certe abitudini alimentari. Il termine non nasconde un'accezione dispregiativa in quanto spesso è usato ad indicare ciò che appartiene al passato (ad esempio la "morale tradizionale") e che va dunque combattuto in nome del progresso. Allo stesso tempo la parola "tradizione" si presta ad infondere un certo senso di sicurezza e stabilità, ispira “fiducia”, evocando la romantica immagine del buon tempo passato in un momento in cui si guarda con crescente apprensione e diffidenza verso certi discutibili aspetti del "progresso".

Veniamo ora al termine “Innovazione”.

Innovazione è un termine non facile da definire. Capita spesso di chiedersi cosa davvero significhi innovazione. Se ci affidiamo ad un vocabolario tra i più quotati possiamo leggere che il verbo innovare significa “mutare qualcosa, aggiungendo nuovi elementi”. La definizione non è del tutto soddisfacente, perché troppo generica ed indefinita. Cerchiamo allora di approfondire.

Leggendo il ‘keynote’ di Eric Reiss sul tema “Invenzione, innovazione e futuro dell’architettura dell’informazione”, troviamo una definizione più chiara, più definita. Reiss, contrapponendo il termine innovazione a quello di invenzione, dà una definizione di innovazione tanto semplice quanto esaustiva: “Innovare significa trasformare i problemi in soluzioni”. Reiss porta uno splendido esempio, la ruota. Alla ruota e alla sua rotondità è legata una delle più grandi scoperte della storia dell’uomo, che ha permesso di “risolvere” il problema del trasporto di merci e persone da un luogo all’altro. E questa è innovazione pura. Potremo definire quindi l’innovazione come quel processo di crescita, di modifica e miglioramento dell’esistente, adattandolo costantemente alle nuove, mutate esigenze. Innovazione quindi come il contrario di immobilismo, di rifiuto dell’aggiornamento; in sintesi ‘innovazione vista come “azione” e non come “rassegnazione”.
Mettiamoli ora a confronto questi due termini con i quali giornalmente abbiamo un po’ tutti a che fare.

Tradizione o innovazione? Vecchio o nuovo? Molto spesso oggi ci troviamo di fronte a questa domanda. La scelta dei giovani va sicuramente verso il “nuovo”, verso il cambiamento. Questo rappresenta appieno la tendenza del momento storico, dove la tecnologia la fa da padrone. Ma i giovani non possono essere lasciati soli a fare la loro scelta, spesso frutto di mancanza di solide e razionali basi di scelta e confronto.

A ben pensare, riflettere, i due termini prima esaminati, pur essendo ‘antitetici’, non è detto che non possano, in qualche modo coesistere, fare strada insieme. Spesso mi sono posto queste domande: È possibile portare avanti la tradizione innovando? Ancora: è possibile innovare senza la tradizione? Siamo proprio sicuri che una escluda l'altra? Oggi c'è una sorta di mania a ‘cambiare tanto per cambiare’, a ricercare il nuovo solo perché è una novità, senza riflettere se questo cambiamento, questa innovazione sia, davvero, utile, migliorativa, rispetto all'esistente.

La vera innovazione, cari amici, non è questa! Innovare non significa stravolgere, gettare via l’esistente, sostituendolo con qualcos’altro. L'innovazione si aggancia al processo esistente, lo perfeziona, lo migliora, lo rende più fruibile. La vera innovazione parte dalla tradizione, non la getta via ma la perfeziona, rendendola più adatta ai bisogni dell’uomo, della Società.

L'innovazione, se di vera, reale, innovazione si tratta, è quella che tiene conto del grande patrimonio delle generazioni precedenti, che ne ha un grande rispetto e che vuole conservare tutto ciò che c'è di buono, cercando di trasmettere questa "tradizione" in un modo nuovo, più proficuo, ma senza stravolgerla o gettarla in un cestino. Questo è il forte messaggio che tutti, nessuno escluso, dobbiamo dare ai nostri giovani che, allettati da mille sirene, rifiutano, per principio i grandi valori del passato, solo perché considerati ‘vecchi’, ‘obsoleti’.

Ricordiamo con forza ai nostri giovani che oggi rifiutano alcuni valori positivi solo perché vengono da una determinata tradizione, che è proprio questa “tradizione” che rappresenta la nostra identità, le nostre radici! Non rifiutino il ‘vecchio’ solo perché è antico, e non accettino il ‘nuovo’, solo perché è una novità. La tanta confusione che viviamo oggi deriva proprio da questo: sia il rifiuto che l’accettazione sono fatti ‘senza verifica’, senza riflessione, senza un vero e proprio desiderio di cambiare in meglio, senza logica e senza un'etica. Qualsiasi cosa assume un aspetto positivo solo perché è nuova, non perché ha una solida bontà intrinseca. Buono e nuovo non sono termini intercambiabili.

La vera sfida, che i giovani dovranno affrontare e vincere, è quella di riuscire a cavalcare il cambiamento senza falsi miti, senza illusioni, e senza rinnegare la ‘tradizione’, tutti valori culturali e sociali che hanno ricevuto dalle generazioni precedenti. Dovranno non solo conservare ma amare tutti questi valori positivi, che dovranno prima accogliere e poi se possibile migliorare, con modalità nuove, innovative, entusiasmanti, grandiose. Questa è la magnifica sfida, l’entusiasmante duello tra “tradizione” e “innovazione”, che, se vorranno, i giovani potranno magnificamente vincere, e costruire, unitamente alle generazioni che verranno dopo di loro, un mondo migliore per l’intera umanità!

Grazie della Vostra splendida attenzione.

Mario


mercoledì, ottobre 26, 2011

SU "PAN'ISPELI", L'ANTICO PANE DI GHIANDE: QUELL'AMARA “MANNA” CHE HA CONSENTITO DI SUPERARE LE ANTICHE CARESTIE IN SARDEGNA.














Oristano 26 Ottobre 2011

Cari amici,
mi è passato tra le mani un libro di cultura sarda nel quale si parlava del pane di ghiande.
La mia curiosità mi ha convinto a fare qualche ulteriore ricerca e approfondire l'argomento.
Ecco quello che sono riuscito a trovare.
Buona lettura!

Tra magia e tradizione il “pane di ghiande” ha rappresentato per l’uomo, per un lungo periodo di tempo, un prezioso alimento della vita sostituendo il pane d’orzo e di frumento, carente o mancante per cattive annate, e consentendo ai ceti più poveri di superare le lunghe e frequenti carestie.

In Sardegna questa consuetudine era diffusa soprattutto in Ogliastra, in particolare nei territori di Talana, Urzulei e Baunei. La consumazione di questo alimento “particolare”, vera manna, anche se amara, era l’unica base di sopravvivenza nei periodi di carestia: ne hanno memoria gli anziani che ricordano d’averlo consumato fino a circa sessant’anni fa.

Il suo uso si perde nella notte dei tempi, se pensiamo cheSu Pan'ispeli”, come viene chiamato questo antico prodotto, viene nominato da Plinio il Vecchio nel I secolo D.C., descrivendolo come un pane di ghiande, dal sapore asprigno, impastato con argilla e cenere del quale si nutrivano i Sardi. Dopo di Lui altri studiosi, sardi e non, scrissero e dissertarono su questo “particolare” pane che consentiva la sopravvivenza di Comunità che altrimenti sarebbero perite.

Questa pane, “Manna amara” ma capace di nutrire, viene descritto, anche se a volte in modo contradditorio, dai non pochi studiosi che ne hanno dissertato. Nel XVIII e nel XIX secolo gli scrittori, dal Cetti in poi (1774), descrivevano il pane di ghiande come qualcosa di detestabile e incredibile; altri, come Angelino Usai, lo consideravano “più adatto ad avvelenare un uomo che a nutrirlo”. Particolarmente interessante lo studio effettuato dall’Usai e riportato nel suo libro "Baunei" (Editore Fossataro, 1968), dove afferma che l’usanza del pane di ghiande, che oggi sopravvive solo in Ogliastra, era ‘antica tradizione’ di tutta la Barbagia e di altre zone della Sardegna, dove era chiamato con nomi differenti: oltre a panispeli, lande cottu (Baunei e Triei), lande kin abba e ludu orrubiu (Talana e Urzulei).

Anche il Lamarmora parla di questo prodotto ed afferma non solo di aver assistito alla sua preparazione ma anche di averlo mangiato, ‘senza alcun rimpianto’, però. Altri, come Paolo Mantegazza, hanno scritto che: "Il pane di ghiande deve rimandarsi ad usi e popoli antichissimi, forse ai primi abitatori della Sardegna".

Vittorio Angius nei suoi scritti affermò che "Le donne di Baunei ne portano in altri paesi e lo vendono più caro che se fosse di farina scelta. Se ne manda in dono e si pregia come una cosa singolare...". Osvaldo Baldacci, invece, scrisse: "Fin dal 1938, durante i miei viaggi nell'Ogliastra potei constatare che il pane di ghiande non rientra più nel regime alimentare quotidiano, ma che persiste tuttora come singolarità tradizionale nella mensa di persone povere e facoltose durante le festività paesane". Lello Fadda, infine, ha riportato, nel suo bellissimo articolo "Geofagia in Sardegna", la descrizione dettagliata di un vero e proprio cerimoniale a sfondo religioso effettuato nel Marzo del 1957 a Baunei.

Vediamo anche noi, ora di saperne qualcosa di più su questo ‘antico pane’, partendo proprio dalle ghiande e dal suo possente albero da cui si ricavano questi frutti.

La pianta di cui parliamo è il “Quercus Robur” o Farnia, della famiglia delle Fagacee, divisione Angiospermae. Esso può raggiungere anche i 40 mt. Di altezza con una circonferenza di 12-13 metri e vive a lungo, intorno agli 800 anni. Ha fusto diritto, con rami alti e molto estesi, corteccia scura , foglie caduche e coriacee; i fiori maschili e femminili insistono sulla stessa pianta, sono di colore verde-giallo e su di essi nasceranno e si svilupperanno le ghiande (Acheni).

Il legno è di colore chiaro-brunato, duro, noto come "rovere di Slavonia", e viene usato moltissimo per mobili pregiati, per le famose botti di vino ( solo in queste botti il Cognac assume quel suo particolare" bouquet"), per alimentare forni e caldaie; la corteccia, inoltre, è utilizzata per la concia delle pelli. Il suo frutto, le ghiande, quando mature cadono spontaneamente a terra e sono un ottimo alimento per la selvaggina.

Sul nostro territorio crescono spontaneamente tre distinti tipi di quercia:

Quercia Ilex, non è altro che il notissimo Leccio, sempreverde, bellissimo per l'intenso verde delle sue lucide foglie, con chioma molto sviluppata che può raggiungere oltre i 25-40 mt. Tipico della macchia mediterranea, non ha bisogno di particolari attenzioni.

Quercia spinosa, tecnicamente Coccifera , cosi chiamata perché il Coccus, un insetto simile alla cocciniglia nidifica sovente tra le foglie. Una curiosità: dalle larve anticamente veniva estratto un unguento rosso usato per dipingere. La Coccifera non cresce molto, raggiunge al massimo i 3 mt. di altezza ed è utile come siepe per via delle sue foglie spinose e dure.

Quercia Suber, da Sughero, molto diffusa in Sicilia e Sardegna, dalla cui corteccia rugosa si ricava il sughero ( circa ogni 10 anni). In Sardegna per anni ha alimentato l’importante industria sugheriera del Nord Sardegna. C’è anche una varietà minore, detta “Roverella” (Quercia Pubescens).

Albero superbamente maestoso, la quercia è originaria dell'Europa centrale. Nel passato già gli antichi romani, i greci e i Druidi lo consideravano sacro. Per le sue grandi chiome verdi e l'imponenza strutturale, viene da sempre considerato l'albero della saggezza. Moltissime sono le leggende su questo albero: le Isolane di Samo prestavano giuramento sotto di esso; addirittura Zeus si diceva che lo avesse adottato e che in un bosco di querce avesse sposato Era.

Per gli antichi rappresentava sia il Sole che il cielo plumbeo, carico di pioggia, tanto che gli Arcadi pensavano che per far piovere bastasse scuotere uno dei suoi rami e pensavano, addirittura, che gli esseri umani prima di diventare uomini fossero delle querce. Per i Greci le querce erano" le prime madri" ( mangiare i suoi frutti era ritenuto propiziasse sia la procreazione che la fecondità), dove i Dioscuri ellenici trovarono rifugio per sfuggire ai loro nemici; si racconta che sia stato il primo albero a crescere sulla terra, producendo non solo le ghiande, ma anche il miele (attraverso le api). Altra antica credenza era che un tronco di quercia bruciato la vigilia di Natale significasse rinnovamento, rinascita , ritorno alla luce dopo il buio.

Tutte le parti della pianta erano considerate preziose; il vischio ricavato dalle querce era considerato anticamente un buon rimedio contro la sterilità delle donne, un potente afrodisiaco, oltre che un antidoto contro i veleni o le malattie in generale. Questo attribuito potere curativo fece si che i Druidi definissero quest’albero " curatutto" e lo amavano e adoravano come adoravano la propria casa. Una bellissima leggenda narra che l'Aurora(Medea) ed il Sole (Giasone) si incontrano in cielo e viaggiano tutta la notte su una nave, dove Atena figlia di Zeus aveva portato un truciolo di quercia di Dodona per salvare gli Argonauti dal naufragio. Una curiosità astrologica, infine, narra che i nati il 21 Marzo sono protetti, secondo l'oroscopo celtico, dalla quercia.

Dopo aver esaminato l’albero, vediamo ora i suoi frutti.

I frutti della quercia, gli acheni, sono comunemente chiamati ‘ghiande’. Esse sono lunghe fino a 4 cm, di forma ovale-allungata, con cupola ruvida e ricoperta di squame romboidali che le ricopre per circa un quarto. Il colore va dal verde chiaro al marrone con il procedere della maturazione. Crescono singolarmente o a gruppi di fino 4 ghiande su lunghi gambi (da 3 a 7 cm). Maturano l'autunno seguente alla fioritura. Le ghiande rappresentano un'importante parte della dieta di molti animali: uccelli (come ad es. le ghiandaie, i piccioni, alcune papere e molte specie di picchi), piccoli mammiferi (es. topi, scoiattoli). Altri mammiferi di grossa e media taglia come cinghiali, orsi e cervi si nutrono di ghiande che possono rappresentare fino al 25% della loro dieta autunnale. Le ghiande contengono, in percentuali variabili a seconda della specie, una grande quantità di proteine, carboidrati e grassi, minerali e vitamine. E’ proprio la scoperta da parte dell’uomo di questa buona capacità nutritiva che, nonostante la scarsa appetibilità, che ha fatto si che questo frutto sopperisse alla mancanza di altri alimenti più pregiati e qualificati per il suo nutrimento.

La mia innata curiosità mi ha portato a cercare di scoprire come, questo pane cosi diverso dal solito, veniva preparato; quale era o quali erano le ricette che, nel tempo, si erano studiate per la sua panificazione, trasformando la ‘farina’ ricavata dalle ghiande in quel pane particolare, dopo una lunga e laboriosa preparazione. Ecco come, nella zona della Sardegna dove era maggiormente consumato, l’Ogliastra, questo pane veniva con sapienza preparato.

Questo “pane”, come ricordano gli anziani, è stato consumato per secoli ed il suo uso si è protratto fino a circa sessanta anni fa. Nei testi che descrivono l’Ogliastra del passato sono spesso riportati diversi metodi per la sua preparazione, ma tutti sono accomunate dagli stessi ingredienti: ghiande (Quercus ilex), ceneri, in particolare di vitigno, e argilla. Nel libro dal titolo Città e villaggi della Sardegna dell'Ottocento, l’Angius descrive con queste parole questa antica arte: “…L’arte di questo panificio di ghiande è contenuta ne’ seguenti semplici procedimenti, sbucciamento delle ghiande, bollimento delle medesime in acqua schietta, ribollitura delle medesime già ammollite per la prima operazione in acqua, cui si appropriò la viscosità d’un’argilla rossa, con cui fu mescolata, versamento sopra il vaso bollente d’una lissivia fatta con le ceneri del sarmento o del leccio. Allora la ghianda stracotta precipitava al fondo della caldaja, e quindi quella pasta si forma in tavolette dalle quattro alle sei once e se ne fa tanta quantità che possa bastare per sei mesi…”.

Le ricerche condotte da Agugliastra, il sito dell’Ogliastra, (sito internet Agugliastra.it), cercano di riassumere i punti comuni di questa antica tradizione, a volte variabile da zona a zona, e di chiarire gli aspetti più controversi. Gli ingredienti erano semplicemente dati dalle ghiande ( in genere il cosiddetto "lande 'e pena"}, argilla, acqua e ceneri di vitigni. Una recente ricerca, frutto degli studi fatti dall’Università di Firenze, ha messo in luce che esisteva ed ancora esiste in Ogliastra un particolare tipo di Quercia capace di dare un frutto meno amaro, sa “Lande Durche”. Questi particolari lecci sono ancora presenti nel complesso di “Silana” a Urzulei e danno, come frutto, delle ghiande particolarmente ‘dolci’, rispetto alle altre. Secondo gli esperti potrebbe trattarsi di un ibrido introdotto dalle popolazioni caucasiche che diedero origine alla civiltà nuragica. «Infatti - si legge in una ricerca - certe querce caducifoglie del Medio Oriente, per esempio la quercia del Libano, si ibridano con una facilità estrema con il leccio dando origine a questo ‘speciale ibrido’ che acquisisce questa particolarità: la produzione di ghiande dolci, particolarmente adatte ed utilizzate da millenni per fare proprio il pane di ghiande con la sua farina.

La preparazione, come ha messo in luce la ricerca summenzionata, richiedeva all'incirca dalle cinque alle sei ore e seguiva una sequenza di fasi dettagliate, inizialmente precedute da un rituale a sfondo religioso.
Le ghiande, precedentemente sgusciate e fatte asciugare, venivano versate in un sacco di pelo di capra (60x40 cm), detto "sa taxedda de pistadorgiu", e sbattute su pietra, sino a quando non si otteneva la perfetta pulitura del frutto. Una volta pulite, si versavano in un tegame di rame, "caddargiu". A parte, in un contenitore di terracotta, 's'impastera', si versava dell'argilla ('torco'), e con un mestolo di legno si girava l'impasto per scioglierne gli eventuali grumi, aggiungendovi pian piano acqua fredda. Circa tre quinti del liquido ottenuto venivano spostati nel paiolo contenente le ghiande. Quest'ultimo era adagiato sul fuoco, dando così inizio alla cottura, durante la quale il colore delle ghiande da rosso-marrone diventava nero. Per facilitare la cottura si aggiungevano ceneri di vitigni.
A cottura ultimata le ghiande rimaste intere venivano sistemate in vassoi a raffreddare, mentre il resto dell'impasto veniva lasciato ulteriormente cuocere sino a ottenere un composto denso, simile alla polenta, suddiviso poi in piccole focacce adagiate a raffreddare su fogli di sughero.

Ciò che si otteneva erano alla fine due prodotti diversi, ma altrettanto nutrienti: da una parte il 'lande', che costituiva il prodotto robusto e nutriente destinato agli uomini per il loro sostentamento nei lavori pesanti; dall'altra la "fitta", che costituiva, invece, il prodotto più delicato, in genere destinato agli ammalati e ai bambini, poiché considerato quasi un dolce.

La ricetta aveva non poche varianti. Un’altra similare utilizzava il seguente procedimento:

scelta la quantità necessaria di ghiande ben mature, queste venivano sbucciate e si ponevano a cuocere in una specie di lisciva, ottenuta filtrando l'acqua di cottura attraverso uno strato di argilla speciale, ricca di ferro, e della cenere di alcune erbe aromatiche. La cenere serviva a togliere l'aspro e l'amaro del tannino delle ghiande, e l'argilla dava il glutine necessario a legare l'impasto. Entrambi questi ingredienti contribuivano a render più gustoso e digeribile su pan'ispeli. Quando le ghiande, per effetto della cottura, raggiungevano la consistenza della polenta, assumendo quasi il colore del cioccolato, si stendevano su tavole a rassodare, per poi venir tagliate a fette o a pani. Seccato al sole o al forno, su pan'ispeli veniva quindi consumato come un pane qualsiasi, col solito companatico nostrano, formaggio, lardo ecc.

Molti, ritengono che il pane di ghiande avesse un alto valore nutritivo e una notevole azione rinfrescante. Le analisi sia delle ghiande essiccate che della farina estratta evidenziano un alto valore energetico (circa 450 kcal per 100g), contengono proteine (6-8%), grassi (prevalentemente insaturi, 25-35%) e carboidrati (50-60%), sono ricche di calcio, fosforo e potassio, oltre che di diniacina (vitamina PP). Le analisi chimiche, condotte su del pane di ghiande fatto preparare a Baunei (nel 1957 e 1984) e riportate dalla rivista “Studi Ogliastrini”, evidenziano, però, la presenza nel pane di una elevata percentuale di materiale inorganico per via delle ceneri e dell’argilla con cui veniva preparato. La valutazione globale della composizione di quest’antico pane, consumato in particolare dagli ogliastrini, darebbe ai suoi abitanti, a ragion veduta, la patente di ‘geofagi’, ovvero di ‘mangiatori di terra’.

La farina di ghiande, quindi, risorsa estrema, quale succedaneo alimentare di farine più nobili, che per molto tempo riuscì a sostituire egregiamente grano, orzo e avena, ma non solo. Le classi meno abbienti sfruttarono questa risorsa anche come succedaneo del caffè, in miscela con l’orzo.

Il caffè a base di ghiande tostate fa la sua comparsa nel diciottesimo secolo, come eredità dei primitivi decotti, quando si diffonde il consumo del vero caffè ma questo è un genere troppo costoso per le classi meno abbienti. Succedanei come l’orzo e la cicoria vengono largamente impiegati in sostituzione del più nobile prodotto e in queste miscele è sempre presente la farina tostata di ghiande, che impartisce il gusto amaro apprezzato dal consumatore. La fortuna di questi succedanei è altalenante e dipende dalle vicende dell'importazione del caffè da Africa e Sudamerica: in Italia, i succedanei ritornano popolarissimi nel periodo fascista (dopo le sanzioni nei confronti del nostro Paese) ed ancora nel primo dopoguerra. E naturalmente in questo caffè non c'è caffeina! La saggezza dei nostri progenitori, abituati a utilizzare sempre al meglio quanto la natura donava all’uomo, utilizzava le ghiande anche a scopi terapeutici, oltre che alimentari.

Non pochi i composti utili alla nostra salute. Anche se le ghiande contengono delle sostanze polifenoliche (tannini) che danno il caratteristico sapore amaro (ecco spiegato l'uso come succedaneo del caffè), è anche vero che alte concentrazioni di sostanze fenoliche interferiscono con l'assorbimento e l'utilizzazione delle proteine; i polifenoli, inoltre, con la loro attività antiossidante, costituiscono una difesa preventiva per alcune forme tumorali! Ecco dunque le nostre ghiande rientrare nella dieta moderna, come ingrediente nutraceutico o preparato ad attività farmacologica! Senza parlare, poi, tornando al pane di ghiande, dei componenti aggiuntivi, in primis l’argilla.

Tralasciando gli aspetti rituali e magici della geofagia (esiste un rapporto tra geofagia e geofilia, o attrazione alla terra), oggi è possibile trovare anche nelle farmacie delle nostre città, per fini benefici e curativi, elementi presenti normalmente nei suoli quali l'argilla; si ritiene infatti che l'argilla purissima, da bere sciolta in acqua, contribuisca a mantenere ben regolato l'organismo.

I benefici prodotti dall'argilla sono legati, oltre che alla sua capacità di scambio cationico, anche alla sua capacità adsorbente, cioè alla proprietà che essa possiede di attirare e trattenere ioni di carica positiva, e che le consente di intrappolare batteri, microbi, tossine e scarti del metabolismo intestinale, gas e veleni. L'argilla ha, quindi, un alto potere disintossicante. Non assorbe invece i nutrienti, come vitamine e minerali, grazie a un'adsorbenza selettiva. Inoltre, fornendo essa stessa numerosi minerali e oligoelementi, può essere considerata anche remineralizzante.

I disturbi per i quali può essere consigliato l'uso interno dell'argilla sono in particolare la gastrite, il meteorismo addominale e i borborigmi, l'insufficienza digestiva e l'acidità di stomaco, l'aerofagia, l'ernia iatale, la colite, la stipsi. Mica poco!

Cari amici che dire? I nostri saggi antenati hanno sempre contato sulla straordinaria capacità della natura di essere, sempre, in grado di trovare i rimedi di cui l’uomo necessitava. Successivamente, quando con il nostro orgoglio di “pessimi meccanici” abbiamo cercato di modificare il mondo per piegarlo alle nostre voglie, a volte esso si è ribellato.

Non esageriamo con la ‘fuga’ verso il futuro. Il mondo è la cosa più bella che ci è stata affidata, lasciamolo integro per i nostri figli e le successive generazioni.

Grazie dell’attenzione.

Mario


domenica, ottobre 23, 2011

LA GLOBALIZZAZIONE HA UCCISO ANCHE IL BUON SAMARITANO.


Oristano 23 Ottobre 2011
Cari amici,

è con infinita tristezza che faccio con Voi queste riflessioni. Il mondo, credetemi, sta diventando veramente un deserto senza fine!

Una volta l’uomo faceva di tutto per creare legami sociali. Ma il tempo passa e tutto cambia.
David Riesman nel suo libro “La folla solitaria” ha ben evidenziato il costante inaridirsi del rapporto umano che perde consistenza giorno dopo giorno per avviarsi verso il precipizio dell’alienazione. In questo interessante libro il cui titolo è riferito proprio “all'alienazione dell'uomo” nella moderna società urbana, Riesman esamina e suddivide la storia umana in tre epoche, ognuna caratterizzata da un tipo particolare di “individuo” che ne costituisce il carattere collettivo.

Nella prima epoca, il primo stadio, l'uomo è il prodotto di una società modellata sul gruppo familiare di tipo patriarcale, con indici di mortalità e di natalità molto elevati e un senso religioso profondamente sentito: è il tipo d'uomo “diretto dalla tradizione” (tradition-directed man).

Nella seconda, dal Rinascimento fino all'inizio del sec. XX, avvengono profondi mutamenti sociali che rendono l'uomo cosciente d'aver maggiore potere nei confronti della realtà e maggiore autonomia di giudizio: esso è quindi “autodiretto” (inner-directed man).

La terza, quella più recente, è una fase ambigua che segna il passaggio dall'epoca della produzione a quella del consumo. Nata negli USA questa fase ha svilito l’uomo, portandolo ad un consumismo sfrenato, dal quale emerge la visione dell'uomo “eterodiretto” (other-directed man) o massificato, per il quale il consenso del gruppo sociale di appartenenza è il valore assoluto e il conformismo diviene così l'unico stile comportamentale applicato.

Ho voluto introdurre queste mie riflessioni sul comportamento umano, a seguito del recente dolorosissimo fatto, avvenuto in Cina poche giorni fa: la terribile morte di una bambina di due anni.

Come abbiamo letto sui giornali una bambina di due anni, Yueyue, è morta investita da un Suv bianco mentre si trovava nei pressi di un supermercato a Fochan, nel Guangdong, povera provincia della grande Cina.

I genitori di Yueyue, come tanti in Cina, sono lavoratori migranti, che per guadagnare i soldi necessari per vivere sono costretti ad allontanarsi dai loro paesi di origine, lasciando spesso i propri figli, anche piccoli, in balia di se stessi, o nei casi più fortunati, affidati ad amici e parenti. Secondo alcune stime fatte ad esempio proprio nella provincia del Guangdong, si è calcolato che lo scorso anno i figli dei lavoratori migranti sono stati coinvolti in più di un terzo degli oltre 1000 incidenti che hanno riguardato bambini. «I genitori che vanno a lavorare fuori non hanno tempo per stare con i propri figli »- spiega Zeng Jinhua, direttore del centro di ricerca e sviluppo per i bambini e i giovani del Guangdong - «e non possono permettersi baby sitter, per cui questi ragazzi crescono per strada e sono esposti a continui pericoli».

Le cronache raccontano che la bambina, scaraventata sulla strada dall'auto che non ha arrestato la sua corsa, non è stata soccorsa, nonostante il fatto sia accaduto in presenza di una miriade di persone. Abbandonata rantolante sulla strada da una folla “solitaria e indifferente” la poveretta è stata nuovamente travolta da un’altra auto che l'ha ulteriormente massacrata, nella più totale e colpevole indifferenza: nessuno, nonostante la giovanissima età della bambina, ha mosso un dito per aiutarla!

Il filmato della telecamera che ha ripreso il triste evento ha messo in luce che per oltre sei minuti nessuno dei 18 passanti si è fermato a prestare aiuto: solo una donna, vedendola sul selciato coperta di sangue e priva di sensi, l'ha soccorsa e portata in ospedale. Intervento, purtroppo, inutile e tardivo. Ci si chiede ora se il ritardato intervento e la colpevole indifferenza dei passanti abbiano impedito la salvezza: forse la bimba avrebbe potuto salvarsi se qualcuno l’avesse soccorsa subito. Forse l'intervento tempestivo di qualcuno avrebbe evitato il secondo investimento, quello dell'altra auto che, passando nuovamente sul suo corpicino martoriato, ha provocato ulteriori e gravi lesioni a Yueyue. Questa è, purtroppo, la terribile e arida vita che si vive nelle grandi città: tutti troppo occupati a produrre e a consumare, incapaci di guardarsi intorno e dare aiuto a chi cade, a chi ha bisogno. E' con orrore che dobbiamo constatare che la globalizzazione ha ucciso anche gli ultimi samaritani.

Quando ho letto la notizia sui giornali più che meravigliato sono rimasto attonito, senza parole, quasi paralizzato. Possibile, pensavo, che il mondo sia diventato cosi gelido, cosi indifferente di fronte alla tragedia, di fronte alla morte? In quei momenti la mia mente è tornata indietro nel tempo. Come in una sequenza impazzita, senza un filo logico, i ricordi, i pensieri e le immagini si accavallavano dentro di me, si sovrapponevano, a velocità impressionante.

Una episodio, in particolare, mi tornò in mente, quasi all'improvviso: l'omelia di un sacerdote dall'altare che riportava parabola del “Buon Samaritano”. Essa narrava proprio di un fatto analogo, che pur lontano nel tempo di oltre duemila anni, era identico nel suo schema essenziale. La voce grave dell'uomo che scandiva le parole mi rintronava nella mente, quasi martellante:

“…Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede al locandiere, dicendo: «Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno».

Parole, quelle della parabola, che fanno meditare. Anche allora, oltre duemila anni fa, la solidarietà non era praticata da tutti; però di samaritani ne esistevano ancora. Oggi, forse, la globalizzazione li ha quasi cancellati, costretti all’estinzione. In una società massificata, dove il conformismo è diventato l’unico comportamento adottato, non vi è posto per la pietà, per la compassione, per l’altruismo ed il rispetto verso gli altri.

Il mondo attuale, sempre più globalizzato, sempre più tecnologico ma arido e meccanico, credo che non tarderà ad auto-estinguersi. Se cancelliamo i sentimenti, se togliamo dal nostro vocabolario le parole amicizia, etica, tolleranza, rispetto e solidarietà verso gli altri, l’uomo non sarà più uomo, perché l’uomo “vero” si sarà autoestinto. Quel corpo esterno che lo avvolge, che apparentemente ancora lo contiene, sarà solo un guscio vuoto, come la carrozzeria di un’auto, priva di quel motore che è fatto di sentimenti, che è forza, che è amore.

Addio Yueyue, dolce angelo che sei volato lassù troppo presto, senza poter fare la tua parte in questo insensibile mondo, nel quale sei stata catapultata senza averlo chiesto, e che anziché accoglierti ti ha rifiutato.

Con infinita tristezza.

Mario

sabato, ottobre 22, 2011

IL POMODORO. IL PREZIOSO “ORO DI COLOMBO” CHE HA CAMBIATO L’ALIMENTAZIONE NEL MONDO.




Oristano 22 Ottobre 2011

Cari amici,
credo che la gran parte di noi, tutti i giorni, per non pensandoci utilizza in vari modi il pomodoro o un suo derivato. Questa pianta è entrata cosi profondamente nella cultura alimentare di gran parte dei popoli del mondo che viene quasi da pensare di averla sempre conosciuta! Non è questa però la realtà. Il Vecchio Continente ha conosciuto il pomodoro solo dopo la scoperta dell'America nel 1492. La sua conoscenza prima ed il suo utilizzo dopo hanno radicalmente cambiato il precedente modo di alimentarsi.

Luciano De Crescenzo, con la sua proverbiale e dissacrante ironia, parlando del pomodoro, sosteneva che “La scoperta del pomodoro ha rappresentato, nella storia dell’alimentazione, quello che, per lo sviluppo della coscienza sociale, è stata la rivoluzione francese”.

Così detta questa un’affermazione sembra solo passionale e non veritiera. De Crescenzo, da napoletano verace, pieno d’amore per i valori autentici della sua terra, che sul pomodoro ha costruito una cultura alimentare unica al mondo, però, non parlava a vanvera. La passione per il pomodoro per i campani e per i napoletani in particolare, non è fatta di solo e semplice “amore”, come può apparentemente sembrare, ma costituisce una grande realtà alimentare ed economica. Ovviamente l’enfasi ironica del personaggio De Crescenzo aumenta questa comprovata verità!

Questo celeberrimo ortaggio venuto in Europa dal Nuovo Mondo, oggi costituisce un ingrediente “unico”, indispensabile nella cucina di molti Paesi, dove è riuscito a rivoluzionare, spesso in modo radicale, le precedenti abitudini alimentari. Luciano De Crescenzo, sempre riferendosi al pomodoro, definisce l’arte culinaria del nostro Paese “cucina a «luci rosse» per la presenza illuminante sulla nostra mensa di quel meraviglioso prodotto della natura, qual è il pomodoro, la cui qualità più usata in cucina è appunto quella a forma di lampadina, ovvero il pomodoro “San Marzano!”

Per conoscerlo meglio, questo "Pomodoro", rivediamo insieme la sua storia, a partire dal suo nome.

L'etimologia del termine “pomodoro” riconduce al latino pomum aureus (mela o pomo d'oro). In altre lingue, come ad esempio l'Inglese, 'tomato', è da ricollegarsi all'etimologia della versione Azteca Xitotomate o Nahuatl Tomatl (origine Messicana).

All'arrivo in Europa varie furono le denominazioni attribuite alla nuova pianta nelle varie lingue:in Italia “pomodoro” , “love apple” in inglese, “pomme d’amour” in francese, “Libesapfel “ in tedesco. Tutti termini che, a partire da quello italiano, contengono un esplicito riferimento all'amore. Per completezza d’informazione debbo aggiungere che alcuni ritengono che il termine pomodoro derivi da una storpiatura dell’espressione “pomo dei mori”, giacché il pomodoro appartiene alla famiglia delle solanacee come la melanzana, ortaggio preferito a quei tempi da tutto il mondo arabo, o alla prima varietà di frutti dal colore giallo, poi soppiantati dalla varietà di colore rosso, entrambe varietà originarie dell’America del sud.

In botanica Il pomodoro è considerato una pianta orticola appartenente alla famiglia delle Solanacee (Solanum Lycopersicum). La pianta raggiunge a volte l'altezza di due metri ma non avendo un fusto abbastanza resistente ha bisogno di appositi sostegni.

Le foglie si presentano lunghe con un lembo profondamente inciso e la radice fittonante è provvista di numerose radici laterali. I fiori si presentano a grappoli distribuiti lungo il fusto e le sue ramificazioni.

La pianta è estremamente adattabile, essendo diffusa in quasi tutto il pianeta, tuttavia predilige terreni di medio impasto, ben drenati, freschi e profondi, una temperatura di germinazione minima di 12-13°C e una temperatura di 22-25°C per svilupparsi e produrre frutti. Il pomodoro non sopporta la siccità, ha bisogno di molta acqua che nei periodi di carenze idriche deve essere fornita artificialmente. I frutti del pomodoro sono chiamati anch'essi pomodori, sono delle bacche verdi o rosse di dimensioni e forme diverse secondo la varietà; la polpa, dal sapore dolce ed acidulo, è ricca di vitamine.

David Livingstone fu il primo a stabilire i principi della selezione delle sue numerose varietà. Qualche tempo dopo, nei testi di botanica, cominciarono ad apparire le diverse varietà di pomodoro. Oggi le varietà più diffuse sono, per i pomodori costoluti: Marmande, Pantano, Samar, San Pietro e Costoluto Fiorentino; per i tondi lisci: Montecarlo, Money Maker, Sunrise e Ace; per i pomodori allungati: San Marzano, Napoli VF, Maremma e Romarzano. I principali nemici del pomodoro sono la dorifora e i nematoidi della patata, che colpiscono e danneggiano le radici della pianta, e gli afidi, che colpiscono i tessuti deformando le foglie. Il pomodoro vanta una produzione mondiale di oltre cinquanta milioni di tonnellate.

I maggiori produttori sono, in ordine: Stati Uniti d'America, Russia, Italia, Cina e Turchia.

La pianta del pomodoro sembra essere originaria dell'America del Sud, in particolare Cile ed Ecuador, dove vive come pianta selvatica che, per effetto del clima tropicale, riesce a dare frutti per tutto l'anno. Dal Sud la sua presenza si estese anche all’America Centrale, dove i Conquistatori spagnoli, a partire da Cristoforo Colombo, la conobbero e la portarono in Europa, nel XVI secolo. In America la pianta del pomodoro era nota e diffusa già in età precolombiana, ma non come pianta alimentare. Essa veniva utilizzata solo come pianta ornamentale, come noi oggi usiamo i fiori, per abbellire luoghi e giardini; questo vegetale, infatti, veniva considerato pericoloso a causa del suo alto contenuto di solanina, sostanza considerata a quell'epoca dannosa per l'uomo, pertanto n on idonea all’alimentazione.

Questo suo presunto potere nocivo venne confermato anche dagli studiosi europei: già nel 1544 l'erborista Italiano Pietro Mattioli classificò la pianta del pomodoro fra le specie velenose. Questa sua capacità malefica, fece si che al pomodoro venissero attribuiti anticamente misteriosi poteri: con le diverse parti della pianta gli alchimisti del ‘500 e del ‘600 preparavano pozioni e filtri magici, eccitanti ed afrodisiaci, capaci di creare, rinvigorire o allontanare l’amore. Lo stesso termine francese “pomme d’amour” sembra nasca proprio da queste sue presunte proprietà.

Arrivato in Europa come ‘pianta ornamentale’ questo vegetale tale rimase per molti anni. In Francia, per esempio, gli uomini la usavano per farne omaggio alle dame, come gesto d'amore. Dalla Spagna, dove quasi certamente arrivò per prima, la pianta del pomodoro si diffuse ampiamente nel bacino del Mediterraneo, approdando anche in Africa, in modo particolare in Marocco, dove trovò un clima particolarmente congeniale.

Il tempo, però, trascorre e le consuetudini cambiano: il pomodoro ad un certo punto viene inserito tra i frutti commestibili. Non è mai stato chiarito in quale luogo ed in quale periodo il pomodoro da pianta ornamentale e velenosa, circondata da leggende popolari, sia diventata per gli Europei pianta commestibile. Anche per gli abitanti dell’America del Sud del resto la pianta ed i suoi frutti non erano mai stati considerati adatti all’alimentazione umana.

Le più lontane notizie sull’utilizzo del frutto come vegetale commestibile sembrano risalire al 1500: l’erborista Mattioli, prima citato, riporta nei suoi scritti di aver sentito dire che in alcune regioni d'Italia il frutto veniva consumato fritto nell'olio. In Europa meridionale, così come in Boemia e in Inghilterra, dal XVII secolo comincia ad essere usato consumato fresco e per la preparazione di salse. In Europa settentrionale, invece, il pomodoro, come alimento, incontrò numerose difficoltà, sicuramente dovute al fatto che nel suo territorio vi erano presenti non poche altre piante selvatiche della stessa famiglia (solanacee) che con il loro alto contenuto di alcaloidi non si prestavano al consumo alimentare, anzi risultavano pericolose per l’uomo.

Fra le persone che contribuirono maggiormente alla diffusione ed alla comprensione circa il modo di usare quest'alimento va ricordato Lazzaro Spallanzani, che per primo, nel 1762, riuscì a scoprire che un estratto di carne fatto bollire e mantenuto in un contenitore chiuso non si altera. Le ricette per l’uso del pomodoro in cucina iniziano a moltiplicarsi.

In Italia l’uso costante in cucina del pomodoro inizia ai primi dell’Ottocento quando fu ufficialmente inserito nei primi trattati gastronomici europei. Nell'edizione del 1819 del “Cuoco Galante” a firma del grande cuoco napoletano di corte Vincenzo Corrado, si trovano diverse ricette con pomodori. Eccone una:

“Per servirli bisogna prima rotolarli su le braci o, per poco, metterli nell'acqua bollente per toglierli la pelle. Se li tolgono i semi o dividendoli per metà, o pure facendoli una buca.”

Nel 1839, il napoletano don Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, nella "Cucina casarinola co la lengua napoletana", in appendice alla seconda edizione della "Cucina teorico pratica", fornisce la ricetta per una salsa: i pomodori bolliti, passati al setaccio, fatti restringere ulteriormente con sugna ed olio, sale e pepe, forniscono una salsa da mettere sopra il pesce, la carne, i polli, le uova e sopra ciò che si desidera. Da salsina per accompagnare il secondo a principale condimento per la pasta, il passo è breve. Nella stessa epoca (è sempre Ippolito Cavalcanti che nella sua opera "Cucina teorico-pratica" descrive la salsa di pomodoro come condimento ideale per la pasta di grano duro) si realizza lo straordinario ed insuperato connubio tra la pasta ed il pomodoro! Matrimonio da subito felice a cui seguirà poco dopo l'abbinamento del pomodoro al piatto forte dei napoletani: la pizza. Matrimoni felici entrambi e di grande, lunga, durata! Un amoroso connubio che non accenna a spegnersi.

Mentre in Italia il pomodoro si diffonde rapidamente nelle cucine della gente comune, a partire da Napoli, in Francia il pomodoro incontra "più nobilmente" l'alta società: veniva consumato principalmente nella corte reale, facendo parlare i grandi cuochi e colorando le ricche tavole imbandite.

Se in Europa il nuovo prodotto "pomodoro" inizia la conquista delle tavole, da quelle nobili a quelle popolari, con grande piacere ed entusiasmo, nel continente Americano, sua patria d’origine, i dubbi sulla sua commestibilità restano.

Nel 1820, con lo scopo di sfatare la famosa diceria, l’americano colonnello Robert Gibbon Johnson, convinto assertore della bontà del pomodoro e buon amico dell’allora Presidente Jefferson, anch’esso pioniere e grande coltivatore di pomodori, mangiò un pomodoro davanti ad una folla attonita facendo così crollare l'ormai radicata convinzione che il pomodoro fosse una pianta velenosa. I preconcetti, però, sono duri a morire.

Un curioso aneddoto racconta che alcuni rivali di Abraham Lincoln, 16° Presidente degli Stati Uniti eletto nel 1860, nel tentativo di avvelenarlo, convinsero il cuoco della Casa Bianca ad usare il pomodoro per preparare alcune pietanze, convinti dell’effetto letale. Le pietanze non solo non ebbero l’effetto voluto ma furono particolarmente gradite. Scoperta la congiura, che fu presto rivelata, questo fatto contribuì alla diffusione del pomodoro, poiché non solo risultò infondato ogni timore di tossicità, ma addirittura fu messa in luce la sua grande bontà. Lincoln da allora ne divenne un consumatore entusiasta.

Gli ultimi tabù a questo punto erano definitivamente caduti: la pianta entra, a pieno titolo, tra i prodotti alimentari accettati. L'avanzata del pomodoro come alimento fu incredibilmente rapida, allargando velocemente il suo raggio d’azione. Iniziano gli studi sulla sua conservazione nel tempo.

Le possibili modalità di conservazione di questo prodotto iniziano a perfezionarsi ed a diffondersi. Nel 1809 Nicolas Appert, un cuoco Francese, pubblicò un libro intitolato “L'art de conserver les substances alimentaires d'origine animale et végétale pour plusieurs années” (l'arte di conservare le sostanze alimentari d'origine animale e vegetale per diversi anni). Un anno dopo, nel 1810, l'Inglese Peter Durand brevettò la scatola di stagno che in seguito venne utilizzata sia da Bryan Donkin sia dall'Americano Woodhull Crosby che nel 1847 mise in commercio le prime scatole di pomodori conservati.
In Italia l’industria di trasformazione e conservazione del pomodoro nasce e si sviluppa a Parma.

La sua culla è stata proprio nelle sue campagne dove, dopo la metà dell’Ottocento, i contadini iniziano la produzione di pani di polpa che viene essiccata al sole. La svolta è determinata da Carlo Rognoni, professore di agronomia e contabilità rurale al Regio Istituto Tecnico di Parma. È Rognoni a intuire che per dare un futuro alla coltivazione del pomodoro occorre creare e sostenere l’attività di trasformazione in conserve.
Nel 1874 si costituisce per sua iniziativa la Società anonima di coltivatori per la preparazione delle conserve di pomodoro. Si affacciano quindi alla storia i pionieri dell’industria nascente (Mutti, Pagani, Rodolfi, Pezziol e altri ancora) che danno vita a delle vere e proprie dinastie di imprenditori. Negli stessi anni in cui opera Rognoni, è attivo anche il torinese Francesco Cirio che dopo aver dato vita alla prima industria conserviera in Piemonte ne apre una a Napoli nel 1875. Essa si specializzerà nei pelati, che ottiene dal tipico pomodoro campano, il San Marzano.

Da questo momento l’avventura del pomodoro inizia a volare. Le nuove tecniche di conservazione fanno nascere i primi derivati. Nel 1888 il cavaliere Brandino Vignali iniziò la produzione a livello industriale dell'estratto di pomodoro. Quasi contemporaneamente nella provincia di Salerno viene studiata e sviluppata la tecnica per produrre i pomodori pelati, tecnica utilizzata con i pomodori dalla forma allungata coltivati alle pendici del Vesuvio.

Il pomodoro inizia cosi il suo incredibile volo nel mondo: praticamente dominante nella cucina napoletana, largamente diffuso nella cucina Italiana e successivamente nel resto del mondo, riesce a conquistare anche i palati più fini, grazie non solo alle sue proprietà ma al geniale abbinamento della sua saporita salsa sia con la pasta che con la pizza.

Quest’ultima, il cui nome “Pizza” ormai è entrato in tutte le lingue del mondo, ha conquistato e fatto felici i palati non solo degli estimatori locali di questo alimento, nato dalla tradizione gastronomica Napoletana, ma di una innumerevole schiera di nuovi buongustai. La sua diffusione è tutt’ora in crescendo.

Vediamo ora le straordinarie qualità di questa pianta, che prima dell’utilizzo alimentare rimase a lungo, per infondati timori e pregiudizi, nel limbo di un lungo sonno. Ecco le sue più importanti proprietà.

Il pomodoro è un grande contenitore di benefiche virtù, un concentrato di buona salute: ha un'azione rinfrescante, apritiva, astringente, dissetante, diuretica e digestiva, soprattutto nei confronti degli amidi. Il pomodoro è ricco di elementi nutritivi: vitamina A, vitamina B1, vitamina B2, vitamina B6, vitamina C, vitamina E, vitamina K e vitamina PP, oltre a fosforo, ferro, calcio, boro, potassio, manganese, magnesio, iodio, rame, zinco, sodio, zolfo, acido citrico, acido malico, zuccheri, biotina, niacina, acido folico e provitamina A. E’, inoltre, ricco di carotenoidi, potenti antiossidanti capaci di catturare i radicali liberi e quindi proteggere le cellule.

Grazie all'acido malico, all'acido arabico e all'acido lattico, il pomodoro favorisce la digestione. Le foglie di pomodoro tritate ed applicate sulla pelle vengono utilizzate come rimedio per le punture di insetti. Probabilmente queste proprietà sono da collegare all'alfa-tomatina, contenuta esclusivamente nella parte verde della pianta, un alcaloide che presenta qualità antibiotiche, insetticida, insettifughe, fungicide e antibatteriche. Sembra essere un ottimo rimedio per combattere l'inappetenza, l'azotemia elevata, l'arteriosclerosi e contro diversi disturbi gastrici e intestinali.

Tutte queste proprietà nutrizionali sono riferite al pomodoro consumato crudo, fresco e ben maturo. Sembra che alcuni scienziati Inglesi stiano sperimentando di modificare geneticamente delle piante di pomodoro inserendo un gene di una petunia, una pianta erbacea tropicale Americana sempre del genere Solanacee, per arricchire il frutto di flavonoidi, sostanze benefiche per il cuore e per la prevenzione dei tumori.

I pomodori sono molto adatti a chi fa attività sportiva poiché sono ricchi di potassio utile per la prevenzione dei crampi muscolari. Mediamente 100 grammi di pomodoro fresco contengono il 93% di acqua, il 3% di carboidrati, lo 0,2% di grassi, l'1% di proteine e l'1,8% di fibre. L'apporto energetico è di 100 kJ (circa 20 Kcal). È importante rilevare che i grassi e le proteine sono presenti nei semi, cioè in quella parte che generalmente non è impiegata per l'alimentazione umana. È adatto a chi deve sostenere una dieta ipocalorica poiché contiene pochissime calorie.

Attenzione, però. Nonostante il pomodoro abbia molte proprietà, non è adatto a tutti, in particolare a quelle persone che hanno problemi di intolleranza alimentare o allergie. L'istamina contenuta nel frutto è una delle principali sostanze scatenanti. I pomodori verdi contengono solanina, una sostanza tossica e irritante che può provocare mal di testa.

Il suo utilizzo alimentare spazia a 360 gradi. Generalmente in cucina il pomodoro viene utilizzato come una verdura, ma in alcune parti del mondo viene utilizzato come un frutto alla stregua di mele, pere o banane. Le varietà di pomodoro da insalata presentano un frutto generalmente tondo che può essere costoluto o liscio. Alle varietà classiche si preferiscono sempre di più gli ibridi perché hanno una resa maggiore in termini sia di dimensioni sia di velocità di accrescimento, una migliore stabilità produttiva ed una maggior resistenza alle malattie.

Il pomodoro, insomma, fresco o conservato è ormai diventato un alimento indispensabile, praticamente impossibile da mettere da parte. In tutte le tavole, ormai, per accompagnare i pasti, da quelli più semplici ai più importanti, alle numerose verdure da sempre conosciute viene aggiunto, quale compagno inseparabile il pomodoro. Pomodoro che in mille altre maniere è ingrediente costante, capace di insaporire e trasformare una incredibile varietà di pietanze.

Se sparisse dalla faccia della terra sarebbe un disastro, come una catastrofe nucleare! Immaginiamo, poi, cosa succederebbe a Napoli!

Ho voluto dare a questa mia riflessione il titolo di

“ ORO DI COLOMBO “ per la sua enorme importanza che ha costituito e costituisce nell’alimentazione del mondo intero. Credo che davvero questa pianta sia stata per il “Vecchio Continente”, una vera miniera doro! Con la mia ironia potrei sostenere che, forse, il suo peso, la sua importanza, supera quella dei vascelli di Colombo che portarono dall'America in Spagna, con la Nina, la Pinta e la S. Maria, pesanti carichi di oro vero!

L’Italia in questo processo di sviluppo e diffusione della cultura del pomodoro ha recitato un ruolo di primo piano, anzi quello di indiscusso protagonista. Tornando all’ironica allocuzione iniziale di De Crescenzo sul pomodoro e la “Rivoluzione Francese”, io potrei sostenere che quella del pomodoro può essere certamente definita la rossa “Rivoluzione Italiana”!

La geniale e felicissima intuizione di abbinare il sugo di pomodoro alla pasta e poi alla pizza, possiamo sostenerlo con forza, ha reso felici e continuerà a rendere felici non solo legioni di generazioni di napoletani, ma anche di Italiani, di Europei e di abitanti del resto del mondo. Il pomodoro, non dimentichiamolo, ha consentito di diffondere nel mondo la genuinità e la bontà della grande ed insuperata cucina italiana.

Evviva il pomodoro, grande ed insuperato “ORO DI COLOMBO” !

Grazia della Vostra attenzione.

Mario



venerdì, ottobre 21, 2011

L’INUTILE VITTORIA (DI PIRRO) DELLE FORMICHE SULLE CICALE.


Oristano 21 Ottobre 2011

Cari amici,

quand’ero ancora un ragazzetto che lentamente maturava la sua crescita, anche se in modo turbolento, adoravo le favole.

Mi piacevano in modo particolare quelle di Esopo e di Fedro che, più di altri saggi del passato, cercavano di educare l’uomo a comportamenti più consoni alla vita sociale.

Le preoccupanti vicende economiche che oggi ci attanagliano, non solo in Italia ma anche nel resto del mondo, mi hanno fatto ricordare proprio una delle favole di Esopo che mi incantava da ragazzo: quella della cicala e della formica.

Prima di esternarvi le mie riflessioni rileggiamola insieme, questa bella favola, ci può essere utile.

La cicala e la formica.

C'era una volta un'allegra cicala che continuava a cantare all'ombra di un albero. Una formica invece faticava sotto il sole caldo dell'estate, trasportando chicchi di grano. Tra una pausa e l'altra del suo canto la cicala si rivolgeva alla formica: "Perché non smetti di lavorare: potresti cantare insieme a me!" La formica instancabile rispondeva: "Non posso! Sto accumulando le provviste per l'inverno, quando farà freddo e non ci sarà niente da mangiare !" "L'estate è ancora lunga e c'è tempo per fare provviste. Con questo caldo è impossibile lavorare!" La cicala continuò a cantare per tutta l'estate finché arrivò l'autunno e poi l'inverno. Venne la neve e la cicala si ritrovò infreddolita e senza più nulla da mangiare. Una notte bussò alla porticina della formica: "Apri, apri, sto morendo di fame, dammi qualcosa da mangiare!" gridò, affondando nella neve. La porticina si aprì e la formica si affacciò: "Ti riconosco, tu sei la cicala, che cos'hai fatto durante l'estate mentre io lavoravo?". "Cantavo...". La formica chiuse la porta: "Hai cantato? Bene, adesso balla!"

Cosi si concludeva la favola, giusta anche se poco caritatevole. Credo che anche Voi, cari amici, rileggendo questa favola possiate ritrovare uno stretto nesso con quello che ‘economicamente’ è successo in questi anni.

La mia riflessione non è certo motivata dalla ricerca delle colpe, o meglio dalla ricerca dei colpevoli, per comminare la giusta punizione. In primo luogo perché sarebbe difficile, oserei dire quasi impossibile, perché un possente “muro di gomma” lo impedirebbe. La mia riflessione è una semplice analisi di quello che è successo e, forse, poteva essere evitato. Spesso è facile cullarsi sul momento magico dell’economia che “tira” e che sembra non debba fermarsi mai. Da questa infondata considerazione deriva la spendita “oggi” di quello che, forse, guadagneremo “domani”. Questo ragionamento teoricamente valido – a bocce ferme – dando per scontato che nel tempo non possano ne debbano avvenire variazioni significative, può essere certamente applicato sia dai privati (famiglie) che dalle Aziende o addirittura dagli Stati. E’ un ragionamento ad alto rischio ma tuttavia, purtroppo, è stato in larga misura applicato.

Forse in questi anni i “privati” italiani sono stati più attenti, più provvidi, rispetto alle Istituzioni. In Italia l’indebitamento delle famiglie risulta oggi abbastanza basso, se paragonato a quello delle famiglie degli altri Stati europei, non cosi, invece, per la Stato. La nostra amministrazione centrale, sia direttamente che attraverso i suoi organi periferici, Regioni, Province e Comuni, ha agito seguendo l’esempio della cicala, presumendo che, poi, comunque, ci sarebbe stata una provvida formica, con il granaio ben rifornito, a tamponare quanto speso in anticipo, presupponendo all'infinito “tempi aurei”.

L’esame odierno dei nostri conti pubblici denota una voragine difficilissima da colmare. Il debito pubblico, come ho già avuto modo di scrivere, ha raggiunto livelli record: siamo vicini a 2 Milioni di Miliardi di Euro, con un’incidenza sul PIL di oltre il 119%.

La sola spesa per gli interessi su questa montagna di "debito sovrano" supera i 70 miliardi di euro all’anno. Il semplice recente aumento di circa un punto percentuale sui rendimenti dei titoli, in prospettiva, comporterà una spesa aggiuntiva di ulteriori 20 miliardi di euro. Una bazzecola, insomma, somigliante ad una discreta “manovra finanziaria” come quella appena varata.

Oggi le “formiche”, tedesche soprattutto, negano l’aiuto richiesto, sia a noi che ad altri Stati-cicala. La Germania, in particolare, dimenticando che in un recente passato in occasione della riunificazione della due Germanie, lo stratosferico costo fu sopportato, dall'intera Europa con variazioni di cambio e svalutazioni che coinvolsero la gran parte dei Paesi. Certamente nessuno vuole negare gli errori del passato, ma far cambiare registro, "di colpo", agli Stati-cicala non è un risultato ne semplice, ne facile ma, soprattutto, non raggiungibile in tempi brevi, nell’ “immediato”. L’esempio della Grecia appare tremendamente significativo: per cercare di sanare il deficit delle ‘cicale’ di ieri si corre il rischio di ammazzare tutte le formiche del formicaio! La giusta cura, però, è urgente ed indifferibile.

Sarà necessaria una ricetta, certamente amara, ma ragionevole, altrimenti la “medicina forte” ucciderà il malato. Anche il “medico” non potrà essere uno solo: sarà necessario un “globale consulto” allargato a tutti i Paesi facenti parte dell’Europa, se vogliamo, davvero, ottenere il risultato.

L’Unione Europea, come scritto in altra parte di questo mio blog, stenta a diventare una vera entità “politica”, oltre che economica. Senza una reale decisione ‘univoca’ l’Europa economica non avrà vita lunga. Solo con L’Europa diventata un'unica entità, un unico “Stato Federato”, capace di parlare, operare ed agire con voce univoca, potranno essere ‘educate’ le cicale e sensibilizzate le formiche. Insieme in amicizia e solidarietà, potranno, davvero, vivere in armonia, godendo di un nuovo benessere creato da tutti, senza rivalità locali e senza egoismi, spinti solo dalla voglia di creare e vivere in un “vero” mondo migliore.

Grazie a tutti dell’attenzione.

Mario

domenica, ottobre 16, 2011

L’ITALIA TRA DEBITO E P.I.L., ECONOMIA E INFLAZIONE, RISPARMIO E RENDIMENTI, INVESTIMENTI E SPREAD, RATING E RISCHIO DEFAULT.




Oristano 16 Ottobre 2011

Cari amici,


Quando sino a pochi anni fa ancora lavoravo (ho trascorso 37 anni della mia vita a fare il manager bancario) era difficile che il cittadino comune, l’uomo della strada, aprendo il giornale andasse subito a guardare la pagina della borsa. Oggi, invece, anche chi tutti i giorni lotta per far quadrare il magro bilancio familiare inizia la lettura proprio da quella pagina acquisendo familiarità con termini come Rendimenti, Bund, Rating, Spread, Rischio Default e delizie di questo tenore.

Chi per una vita intera ha sempre tirato la carretta (oltre che la cinghia), che con grandi sacrifici ha messo da parte, soldo dietro soldo, un piccolo gruzzolo per proteggerlo in futuro è sempre più in difficoltà, più disorientato. Orami viviamo in un mondo dove le certezze praticamente sono crollate tutte! Ci siamo convinti che con l’introduzione dell’Euro un nuovo Eden di stabilità avrebbe consentito sonni tranquilli a tutta l’Europa, che il futuro avrebbe riservato, con i frutti della Globalizzazione, lavoro e benessere per tutti ed invece…

La globalizzazione è vero ha reso il mondo un unico villaggio ma non ha certo portato neanche un briciolo di quella equità che in tanti speravano. Essa ha, invece, rafforzato le grandi multinazionali che ormai, con libertà di competere in tutto il globo, con potere di insediamento praticamente ovunque, sono ben più potenti dei singoli Stati. Il risultato lo tocchiamo con mano tutti i giorni. Aziende che come nel gioco delle tre carte spostano continuamente Sedi e stabilimenti da uno Stato all'altro. La conseguenza è una lunga e crescente fila di disoccupati ed il potere dei singoli stati che, invece, continua a diminuire, con oneri in costante aumento, per provvedere a sfamare le famiglie che hanno perso il lavoro. Senza parlare dei giovani! Questo è il vero pianeta negletto, ormai allo stremo delle forze, e lo sappiamo tutti, nessuno escluso.

L’economia di ogni stato ormai non si regge più da sola, con le proprie forze. Nessuno può coltivare bene il proprio orticello, senza interferire con quello del vicino. Senza andare lontano proviamo a guardare con la lente il nostro orticello italiano. Ci basta dare un semplice sguardo ai giornali di quest’ultimo periodo per renderci conto della pericolosa situazione che stiamo vivendo tutti: singoli ed aziende.

L’Italia è appesantita da un debito pubblico immenso: ad agosto 2011 era pari a 1.899.553 miliardi di Euro. Nel 2010 è stato di 1.843.015 miliardi di euro a fronte di un PIL di 1.548.816. In percentuale, quindi, il debito è risultato pari al 119% del PIL. La spesa per gli interessi corrisposti ai detentori delle obbligazioni statali è detta "servizio del debito" e costa all'Italia circa 70 miliardi di euro annui. Che dire di queste cifre? Analizziamo ancora. Le recenti “manovre” correttive, che hanno comportato una ‘stretta’ globale imponente e che sicuramente non sarà sufficiente, praticamente si avvicina all’importo della sola “spesa” per gli interessi sul debito, come prima indicato e ammontanti ad oltre 70 miliardi di euro. Un’ultima considerazione. Il recente collocamento dei titoli di stato è stato fatto con un aumento percentuale dei rendimenti di circa un punto. Pensiamo solo che un punto di rendimento in più sul nostro grande debito comporta una spesa aggiuntiva di circa 20 miliardi di euro, all’incirca…quanto l’ultima manovra finanziaria!

Il recente aggravarsi dei “Debiti Sovrani” di gran parte degli Stati europei, a partire dalla Grecia per passare, poi, alla Spagna, al Portogallo e ad altri, tra cui l’Italia ha sconvolto la temporanea fiducia dei risparmiatori, aggravata anche dagli abbassamenti del Rating da parte delle agenzie specializzate ( Moodys, Standard and Poor’s e Fitch) che hanno impietosamente messo il dito nella piaga. Questo fatto ha costretto gli Stati ad aumentare i rendimenti per attirare i risparmiatori che, altrimenti, avrebbero dirottato altrove i propri investimenti. Questo terribile meccanismo strangolante, che tanto assomiglia a quello dei tanti piccoli imprenditori che di giorno in giorno vedono il loro debito salire in una spirale senza fine, a lungo andare non può che sfociare nell’insolvenza. Il rischio default, la paura del rischio che alza gli interessi, non fa altro che creare da sola l’insolvenza: come il cane che si morde la coda. Le soluzioni? Difficili, davvero, da trovare! Una per tutte la “garanzia” comune dell’Europa, gli Eurobond, che metterebbero un freno, globalizzando il rischio Paese.

Uscire dal tunnel richiede una grande forza, una coesione, una politica comune ed un grande senso di responsabilità “globale”, non limitata al proprio giardinetto.

In assenza di un vero “Stato Europa”, la Banca Centrale Europea ha consigliato ai Paesi in difficoltà maggior rigore, eliminazione degli sprechi, riduzione delle spese improduttive, e incentivazione degli investimenti.

Sono "misure" che, sia dall’attuale Governatore Trichet che dal suo successore il nostro governatore Draghi, sono state fortemente consigliate anche all’Italia. Se vogliamo, davvero ‘dare una svolta’ per uscire dal guado, se vogliamo dare ai nostri giovani un’opportunità, se vogliamo che le nostre aziende tornino ad essere produttive, in prima fila, questa è l’unica ricetta da applicare: non domani ma oggi, non tra qualche tempo ma subito!

Il Governo è atteso da una prova durissima, difficilissima da superare: l'emanazione dell'urgente decreto per lo sviluppo e l'occupazione. In assenza di fondi disponibili bisogna, comunque, trovare la liquidità necessaria per gli investimenti, senza i quali l’Italia non sarà in grado di ripartire. Non possiamo chiedere ancora alle famiglie, stremate dalla crisi, o alle aziende che già soffrono di serie crisi di liquidità, in uno scenario che sembra prevedere anche una nuova stretta creditizia. Il cerchio, però bisogna assolutamente quadrarlo, reperendo le risorse, recuperandole dagli sprechi e dai settori improduttivi. Senza investimenti il futuro sarà ancora più nero: i giovani continueranno ad emigrare o a restare ‘bamboccioni’ e precari, a casa (dei genitori).

Credo che l’ultima speranza sia da riporre su un grande ”senso del dovere” che fino ad oggi è mancato. Tutte le forze politiche nel loro complesso, sia chi è al governo che chi è all’opposizione, debbono dialogare, debbono mettere insieme le loro forze, debbono trovare il coraggio di accantonare i giochi di bottega, per mettere al centro dei loro interessi l’Italia ed il suo popolo. Sarà difficile ma bisognerà farlo.

L’Italia, non dimentichiamolo mai, è una sola: costruita col sangue, unica ed indivisibile, che oggi più di ieri deve restare unita, coesa, pronta a dimostrare che ha tutte le carte in regola per recitare il ruolo di protagonista che le spetta. Non c’è Nord o Sud che tenga, non c’è ne Padania ne Regno delle due Sicilie: ma un’Italia sola, forte, determinata e vincente!

Auguri Italia!

Mario