mercoledì, marzo 31, 2021

LO CONOSCI “PELAGOS” IL SANTUARIO DEL MEDITERRANEO PER I MAMMIFERI MARINI E MOLTE ALTRE SPECIE ACQUATICHE?


Oristano 31 marzo 2021

Cari amici,

Chiudo i post di marzo, parlando di ecologia e di protezione dell'ambiente. Nel nostro Mar Mediterraneo c'è un posto speciale, dedicato alla protezione di specie marine, in particolare dei Cetacei. È un'area marina protetta, compresa nel territorio francese, monegasco e italiano, classificata come Area Specialmente Protetta di Interesse Mediterraneo. Più nota come “Santuario dei Cetacei”, è stata istituita in Italia dal Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare con il nome “Santuario per i mammiferi marini”, mentre in Francia è noto come “Sanctuaire Pelagos”. In quest’area si svolge annualmente la manifestazione nautica internazionale Operazione Delphis e la Regata dei cetacei.

Per quanto riguarda l’Italia, il Santuario per i mammiferi marini è stato istituito nel 1991 come “Area naturale marina protetta di interesse internazionale”, e occupa una superficie a mare di 2.557.258 ha (circa 25.573 km2) nelle regioni Liguria, Sardegna e Toscana. L'area marina protetta internazionale fu invece istituita nel 1999 grazie alla collaborazione dei tre Paesi nella quale il santuario è compreso: Francia: Costa Azzurra e Corsica, Principato di Monaco e Italia: Liguria, Toscana e nord della Sardegna. L'area marina protetta internazionale si estende nel bacino corso-ligure-provenzale da Punta Escampobariou (vicino alla città francese di Tolone) a Capo Falcone e Capo Ferro (Sardegna), fino al Chiarone (confine tra Toscana e Lazio) e occupa una superficie marina complessiva di circa 87.500 km2. Il Santuario riguarda 124 comuni francesi, 87 comuni italiani e 1 del Principato di Monaco. Una serie di studi ha rilevato che in questa zona del Mar Mediterraneo vi è una massiccia concentrazione di cetacei, grazie soprattutto alla ricchezza di cibo.

Questi mammiferi marini sono rappresentati da dodici specie: la balenottera comune (Balaenoptera physalus), il secondo animale più grande al mondo (secondo solo alla balenottera azzurra), il capodoglio (Physeter macrocephalus), il delfino comune (Delphinus delphis), il tursiope (Tursiops truncatus), la stenella striata (Stenella coeruleoalba), il globicefalo (Globicephala melas), il grampo (Grampus griseus) e lo zifio (Ziphius cavirostris); più rari, la balenottera minore (Balaenoptera acutorostrata), lo steno (Steno bredanensis), l’orca (Orcinus orca) e la pseudo-orca (Pseudorca crassidens).

L’idea di concepire quest’area protetta iniziò a prendere corpo nel 1992, quando venne effettuato un censimento sulla superficie di quello che sarebbe divenuto il Santuario dei cetacei da parte dell'Istituto Tethys (l'Istituto Tethys, fondato nel 1986, è attivo da anni nella salvaguardia, nella cura e nello studio dei cetacei e dell'ambiente marino), unitamente a Greenpeace e all'Università di Barcellona; gli esemplari, durante il censimento, vengono identificati singolarmente attraverso fotografie o filmati, custoditi poi in una banca dati europea. Il primo censimento effettuato consentì di effettuare la stima numerica delle stenelle (32.800 esemplari) e delle balenottere comuni (830 esemplari) presenti nella zona nel periodo estivo. Successivamente, però, un rapporto di Greenpeace riuscì a documentare un drammatico calo delle popolazioni di cetacei presenti ed una inadeguatezza delle misure di tutela messe in atto. I dati raccolti da Greenpeace, ad agosto 2008, riportavano la presenza solo di un quarto delle balenottere e meno di metà delle stenelle rilevate negli anni Novanta.

Il Santuario, che ora è meta nel periodo estivo di visite guidate alla scoperta dell'ambiente marino e dei suoi abitanti, consente all’Istituto Tethys, grazie alla presenza di balene e delfini, di organizzare una serie di crociere in barca, nel corso delle quali i visitatori, accompagnati da biologi marini ed esperti, possono praticare l'osservazione dei cetacei (Whale watching). Esistono inoltre numerosi operatori privati, con base nei porti di Genova, Savona, Imperia, Sanremo e Viareggio, che organizzano escursioni in barca all'interno del Santuario.

Ebbene, amici, anche questo luogo incantato ora, purtroppo, risulta invaso da tanta, troppa plastica. Gli ultimi dati WWF parlano di 1,3 milioni di frammenti: le tartarughe marine sono quelle che più ne subiscono le conseguenze con danni irrimediabili. In questo scenario allarmante e bellissimo l’architetto italiano Angelo Renna, 36 anni, fiorentino ma di casa ad Amsterdam, ha deciso di realizzare un suo visionario progetto: “Sweep Island”. Trattasi di un’isola artificiale (10 metri di diametro e 8 di altezza totale), composta da due parti: il “vascello”, una sorta di laboratorio galleggiante dove ricreare un habitat naturale di flora e fauna, e, connesso alla parte sottostante, un “collettore” che intercetta materiali inorganici. Renna sta alacremente lavorando al prototipo: nei prossimi mesi farà i primi test in mare e spera di mettere presto in acqua la sua isola dei sogni (angelorenna.com).

E di sognare, cari amici, abbiamo bisogno tutti, cercando però, INNANZITUTTO, di salvaguardare al meglio il mondo, se vogliamo che abbia un futuro!

A domani.

Mario
Il laboratorio galleggiante di Angelo Renna

 

martedì, marzo 30, 2021

IL CIBO E L'ELETTRONICA COMMESTIBILE. ARRIVANO LE NUOVE ETICHETTE ELETTRONICHE: APPLICATE SOPRA E ANCHE DENTRO IL CIBO, RACCONTANO LA VITA DI CIÒ CHE MANGIAMO.




Oristano 30 marzo 2021

Cari amici,

Chi si affida al buon senso non può dimenticare il famoso detto di Ippocrate che recita: "L'uomo è ciò che mangia. Fa che il cibo sia la tua medicina e la medicina sia il tuo cibo". Parole sante! Oggi le norme in vigore stabiliscono che i prodotti che noi mangiamo devono riportare obbligatoriamente delle etichette alimentari che lo accompagnano. Su queste devono essere presenti notizie importanti, a partire dalla provenienza. La normativa europea nel 2011 stabilì quanto doveva essere obbligatoriamente riportato. Etichettare gli alimenti, dunque, è qualcosa che il consumatore ha subito apprezzato, tant’è vero che diversi produttori, oltre le informazioni regolamentate per legge, ne hanno aggiunto anche di facoltative o complementari. Sulla frutta, per esempio, l’etichetta riporta dove questa è stata coltivata, da dove arriva e addirittura a che punto è di maturazione.

Ebbene, amici, l’evoluzione non resta mai ferma, tant’è che di recente il team dell'Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) guidato dal Dr. Mario Caironi, titolare di un prestigioso grant (ERC Consolidator) destinato a sviluppare ulteriormente il campo dell’elettronica commestibile, ha studiato uno straordinario, modernissimo tipo di etichetta, che utilizza appieno l’elettronica. Un’elettronica, però, fatta non di circuiti classici in metallo, ma molto, molto diversa, un qualcosa di “mangiabile”, e proprio per questo è stata già definita “elettronica commestibile”.

L’Istituto Italiano di Tecnologia, grazie a un finanziamento di 2 milioni di euro concesso dall’UE, ha messo a punto un’etichetta davvero specialissima: parlando di mele, per esempio, dice dove questa è stata coltivata, da dove arriva, e perfino se è al punto giusto di maturazione! La cosa ancora più straordinaria è che l’etichetta non è posta sulla confezione delle mele, ma proprio sulla mela; volendo, addirittura, il chip-etichetta può essere nascosto anche all’interno della stessa mela! È qualcosa, insomma, di straordinario, un’etichetta- circuito elettrico, che però non è fatto con i metalli con cui di norma sono fatti i circuiti elettrici, ma con l’utilizzo di ingredienti naturali e quindi il micro-chip può essere tranquillamente mangiato e digerito. Ecco il motivo per cui può stare dentro la frutta, come una mela un’arancia, o altro!

A Milano, nel laboratorio del Center for Nano Science and Technology dell’Istituto italiano di Tecnologia, stanno studiando le applicazioni pratiche di quello che già viene definito “cibo elettronico”, in quanto, seppure i chip siano il massimo della tecnologia, questi una volta applicati anche dentro il prodotto, potranno essere tranquillamente ingeriti, senza problemi. Il Dr. Mario Caironi, originario di Bergamo e laureato al Politecnico, è a capo di questo interessante progetto chiamato ElFo (Electronic Food, appunto), realizzato, come accennato prima, con il finanziamento di 2 milioni di euro messo a disposizione dall’European Research Council, e che consentirà di sviluppare, in tutti i modi possibili, il progetto di ricerca definito “elettronica commestibile”.

L’elettronica che noi oggi per comodità chiamiamo “ingeribile”, in realtà non è una novità assoluta, in quanto i primi dispositivi ingeribili sono stati concepiti alla fine degli anni ’50 del secolo scorso. Erano pillole con circuiti capaci di trasmettere informazione all’esterno. Ma come è cambiato questo scenario e come si è passati dall’elettronica ingeribile a quella commestibile e con quali obiettivi? Ecco la risposta data dal dr. Mario Caironi.

“Con i circuiti elettronici ingeribili, nel prossimo futuro si potranno realizzare ad esempio farmaci smart, in grado di fornire informazioni sui parametri interni dei pazienti o ottenere informazioni su specifiche patologie, come quelle dell’apparato digerente. Un esempio sono le pillole che possono eseguire un’endoscopia, che però non sono in vendita e vengono usate negli ospedali. La differenza con quello che stiamo facendo noi oggi è che noi stiamo puntando a un’elettronica non solo ingeribile, ma pure commestibile, che le persone possano utilizzare anche senza necessità di controllo medico, che una volta mangiata venga degradata in 48 ore dal nostro corpo senza generare rifiuti metallici, che dovrebbero essere poi smaltiti, come succede appunto oggi per le capsule endoscopiche”.

Cari amici, le possibili applicazioni di questo nuovo modello di etichetta sono davvero tante. Questi circuiti potrebbero monitorare all’istante il grado di maturazione di un frutto, o la commestibilità e la deperibilità di cibi e prodotti. Il suo buon funzionamento darebbe un colpo mortale agli sprechi alimentari. L’elettronica commestibile potrebbe anche permettere la somministrazione di farmaci in modi sempre più mirati, o analisi, anche le più complesse, direttamente nell’apparato digerente. Un grande passo avanti, per il futuro dell’umanità.

A domani.

Mario

lunedì, marzo 29, 2021

IN IRAN RIAFFIORA UNA CIVILTÀ DI 5 MILA ANNI FA, FINORA COMPLETAMENTE SCONOSCIUTA. SCOPERTA UN’INTERA, FAVOLOSA CITTÀ.


Oristano 29 marzo 2021

Cari amici,

Chissà quanti misteri, relativi al nostro antico passato, si celano sotto metri ti terra o nelle profondità del mare! Ogni tanto, a volte per casualità, veniamo a scoprire l’esistenza di antiche civiltà, delle quali fino ad oggi nulla si sapeva! Come è successo di recente il Iran, dove all'inizio del 2001 un'inondazione fece straripare il fiume Halil che, creando frane e forti erosioni nelle terre circostanti e spazzando via diversi strati di sedimenti consolidatisi negli anni, portò alla luce i resti di una antichissima necropoli.

Le persone del posto, poco istruite, non capendo l'importanza di quei meravigliosi ritrovamenti cominciarono a venderli e, appena la notizia si diffuse, arrivarono i tombaroli e i saccheggiatori, che senza cautela scavarono senza pietà recuperando in malo modo le cose più appariscenti. Per lungo tempo nessuna autorità iraniana venne a conoscenza di questi scavi abusivi e dei ritrovamenti effettuati e venduti in particolare all’estero. Poi, man mano che questi magnifici ritrovamenti archeologici si moltiplicavano e cominciarono ad apparire in vendita online e all'asta, iniziarono i primi sospetti e le autorità effettuarono le prime indagini.

Le opere ritrovate erano straordinarie: c'erano sculture, vasi, recipienti in bronzo intarsiati, addirittura giochi da tavolo e anfore con decorazioni mai viste prima. Alcuni di questi manufatti presentavano intarsi con lapislazzuli e altre pietre preziose; le raffigurazioni sui vasi e le anfore rappresentavano palmeti, coltivazioni, guerrieri che affrontavano grandi felini e addirittura palazzi a forma di piramide e armi. Ma non si riusciva a capire da dove venissero, e nemmeno a quale civiltà facessero riferimento.

Durante le prime indagini la prima convinzione fu che questi oggetti fossero dei falsi riprodotti con grande maestria, ma un dubbio atroce si presentava agli esperti: perché mai dei falsari avrebbero dovuto produrre reperti di una civiltà inesistente? Sarebbe stata una pazzia, per cui si iniziò a pensare ad originali appartenenti ad una civiltà esistita in passato ma della quale nulla si sapeva. Tracciando le spedizioni fatte verso collezionisti e case d'aste, nel 2003 la polizia iraniana cominciò ad interrogare e arrestare trafficanti e commercianti del mercato nero, nella convinzione di trovare le risposte cercate.

Le case d'asta dove i reperti finivano non davano molte informazioni sui manufatti, anzi ne davano pochissime, ma indicavano la provenienza come "Asia centrale". La polizia iraniana scoprì che la spedizione di questi strani oggetti partiva da Teheran, Bandar 'Abbas e Kerman, con destinazione diversi acquirenti di tutto il mondo. Ad un certo punto le indagini (sicuramente qualche fornitore messo alle strette parlò) accertarono che questi oggetti potevano essere ricondotti a una località nella valle del fiume Halil, a circa 40 chilometri a sud di Jiroft, una piccola e remota cittadina nel sud-est dell'Iran, nella regione del Balochistan.

Su questa valle, però, nessuna autorità iraniana aveva autorizzato scavi o era a conoscenza di ritrovamenti effettuati in quest'area. Finalmente, dopo le prime verifiche, il rebus iniziò ad apparire chiaro. Le autorità dell'archeologia iraniana cominciarono gli studi ufficiali nel sito e rilevarono che, purtroppo, i saccheggi avevano devastato una zona importantissima e ora veniva molto difficile ricostruire con precisione la posizione dei siti, ma lentamente si venne a capo del problema.

I risultati furono davvero sorprendenti. Quelli scoperti erano i resti di una civiltà urbana del III millennio a.C. apparsa dal nulla in una delle regioni più remote dell’altopiano iranico; vennero alla luce migliaia di reperti, anche in pietre semipreziose finemente lavorati, un enigmatico sistema di scrittura e indiscutibili contatti con la lontana Mesopotamia. Reperti, dunque, che venivano da una civiltà vissuta tra i 4 mila e i 5 mila anni fa e che nessuno, prima di allora, era mai venuto a conoscenza della sua esistenza.

Per alcuni studiosi questa civiltà poteva essere quella del regno di Marhashi, teoria confortata da alcuni elementi storici: le iscrizioni dei re dell’impero mesopotamico di Akkad, che ricordano vittoriose imprese contro quel potente stato localizzato nella regione orientale dell’altopiano iranico. In una di esse viene narrato con dovizia di particolari l’epilogo del conflitto: «Rimush […] ha sconfitto in battaglia Abalgamash re di Marhashi […] Quando conquistò l’Elam e Marhashi portò via 30 mine d’oro, 3600 mine di argento e 300 schiavi e schiave». Poiché è accertato che Akkad si colloca cronologicamente nella seconda metà del III millennio a.C., più precisamente tra il 2350 e il 2200 a.C., e dato che Marhashi è ad essa contemporanea, anche questa città è databile tra il 2350 e il 2200 a.C.

Si trattava dunque di una scoperta storica, capace di ridefinire la storia dell'umanità, in quanto una nuova civiltà nell'età del bronzo non era mai stata prevista da studi precedenti. A dirigere i lavori sull’importantissimo sito posto su quell'altopiano iranico l'archeologo iraniano Yousef Madjidzadeh, forse il primo ad essersi accorto del valore e dell'importanza storica di quei ritrovamenti. Le squadre di archeologi da lui guidate hanno scavato il terreno fino a 11 metri di profondità, e lentamente sono apparsi anche i palazzi a forma di piramide, quelli rappresentati sui manufatti. Il sito era una enorme necropoli, straordinariamente ricca, tanto che attualmente è considerata la principale di questa nuova civiltà prima sconosciuta.

I lavori di scavo continuano e c’è da dire che alcune delle strutture architettoniche scoperte dagli archeologi hanno già svelato molto altro: un edificio di culto, e addirittura un'intera cittadella fortificata. Ma per studiare un complesso urbano grande molti ettari e reperire e studiare centinaia di oggetti e reperti archeologici ci vuole del tempo. Un lavoro lungo e certosino, e ci vorrà parecchio tempo prima di arrivare a sapere molto di più di questa grandiosa, antica civiltà.

Fin dai primi riscontri l’incredibile materiale venuto alla luce ha permesso di abbozzare ipotesi che, se confermate, dimostrerebbero come nel III millennio a.C. la regione del Balochistan, nel sud-est dell'Iran, aveva raggiunto uno sviluppo simile a quello della lontana Mesopotamia, ritenuta la vera culla dell’umanità; un primato che, per oltre un secolo dalla sua scoperta, è stato impossibile scalzare. Ora però, la storia potrebbe essere riscritta, o almeno riletta, in una prospettiva più ampia, a riprova di come altre civiltà avessero raggiunto livelli di sviluppo altrettanto sofisticati anche in altre regioni del mondo. La storia ha ancora molto da raccontare...

A domani, amici.

Mario


domenica, marzo 28, 2021

L'EUROPA DICE STOP (ENTRO IL 2030) ALLE AUTO A BENZINA E DIESEL, CHE CON IL LORO INQUINAMENTO METTONO A RISCHIO LA VITA SUL PIANETA.


Oristano 28 marzo 2021

Cari amici,

L’Europa ha finalmente deciso: ormai non è più possibile ignorare, e nemmeno rinviare all’infinito, il problema dell’inquinamento creato dalla circolazione delle auto a benzina e diesel: e lo Stop alla circolazione delle auto marcianti con carburanti ricavati dal petrolio è arrivato! La data di scadenza è già stata fissata: il 2030. Si va, dunque, in modo sempre più spedito, verso lo stop alla produzione (e vendita) di auto a benzina e diesel, da concludere entro la fine del 2030, consentendo così solo la messa in commercio di veicoli elettrici e ibridi dopo tale data. A lanciare per primo il messaggio, durante un’audizione all’Assemblea nazionale francese, è stato Pascal Canfin, il Presidente della Commissione per l’Ambiente, la Sanità pubblica e la Sicurezza alimentare del Parlamento europeo. E non è tutto.

Il divieto stabilito dall’Unione europea è molto probabile che preveda anche un inasprimento della legislazione sull’inquinamento atmosferico, esonerando dalla circolazione, a partire dal 2025, solo i veicoli a combustione che immettono fino a 30 mg / km di protossido di azoto nell’atmosfera, in calo rispetto ai 60 mg fissati per la benzina e gli 80 g per il diesel. Gli interventi in programma puntano anche ad abbassare i limiti di monossido di carbonio, portandoli da 1000 mg a 500 mg/km per le auto a benzina e da 300 mg a 100 mg/km per le auto diesel.

Il problema in realtà sta diventando sempre più serio. Le autovetture e i furgoni (“veicoli commerciali leggeri”) sono responsabili rispettivamente di circa il 12% e il 2,5% delle emissioni totali dell’UE di anidride carbonica (CO2), il principale gas a effetto serra. Questi dati hanno convinto il Parlamento europeo e il Consiglio ad adottare nel 2019 il regolamento n. 631/2019, che definisce standard più rigidi di prestazione in materia di emissioni di CO2 per le nuove autovetture e per i nuovi furgoni circolanti nell’UE; il nuovo regolamento è entrato in vigore il 1° gennaio 2020, sostituendo e abrogando le normative precedenti.

Per far diventare l’Europa “climaticamente neutra” entro il 2050, l’Unione Europea ha in programma la riduzione netta di almeno il 55% delle emissioni di gas a effetto serra entro il 2030, stabilendo nuovi limiti e con l’obiettivo di raggiungerli a partire dal 2025 (tra poco meno di 4 anni quindi) e fino al 2030. Il regolamento in parola include, come è giusto che sia, un meccanismo per incentivare l’adozione di veicoli a impatto zero o a basso impatto ambientale, ma prevede anche tutta una serie di sanzioni, anche pesanti, per bloccare, come anticipato prima, la produzione e la vendita dei veicoli a benzina e/o diesel a partire dal 2030.

Le case automobilistiche sono già in allerta, in attesa dello stop ufficiale alla produzione e messa in commercio di auto a benzina e/o a diesel previsto per la fine del 2030; per un periodo sarà consentita ancora la vendita delle auto ibride (i nuovi PHEV), che potranno continuare fino al 2035. Dopodiché non sarà più possibile vendere auto o furgoni con motore a combustione interna (ICE).

Ovviamente il problema si pone anche per le auto già circolanti e per i possessori degli autoveicoli ‘vecchio stampo’. Ci si chiede: si potranno ancora acquistare, vendere e guidare auto a benzina o diesel dopo il 2030? La risposta a questa domanda è sì, perché il divieto si applica solo alla vendita di auto nuove di zecca. Ciò significa che sarà ancora possibile acquistare e vendere veicoli ICE e ibridi di seconda mano.

Pascal Canfin, Presidente della Commissione per l’Ambiente, ha anche anticipato che "nei prossimi 18 mesi una cinquantina di leggi saranno riviste a livello europeo per dare sostanza legislativa al Green Deal, e una di queste è la legge sul clima, che fisserà l’obiettivo al 2030 di ridurre le emissioni di CO2 di almeno il 55%. Inoltre, "a giugno arriverà un altro, importante pacchetto legislativo con 12 direttive legate al mercato del carbonio" e verranno sanciti "obiettivi per la CO2 che riguarderanno i settori automobilistico, agricolo, energetico, abitativo".

Cari amici, per il mercato dell’auto si prepara una "Profonda trasformazione”, che avrà concreta realizzazione a partire dal 2035. Da quella data "lo standard sulla CO2 sarà così severo che, stante l’attuale tecnologia dei motori benzina e diesel, i propulsori termici non saranno più in grado di soddisfare il nuovi limiti". Di conseguenza, sarà del tutto impossibile vendere veicoli con propulsori tradizionali: dovranno essere solo elettrici, perché anche le ibride leggere e le plug-in potrebbero avere difficoltà a rispettare le future normative. Tra l’altro, già da quest’anno inizieranno le discussioni formali sugli standard Euro 7 che la Commissione europea vorrebbe far entrare in vigore già nel 2025.

Amici, è tempo di cambiare, se vogliamo salvare il pianeta, già messo in crisi e in pericolo. La "transizione ecologica" dovrà davvero diventare una priorità assoluta, se vogliamo salvare il mondo prima della catastrofe.

A domani.

Mario

 

sabato, marzo 27, 2021

L’ITALIANO E L'ECCESSIVO USO DI TERMINI DI ALTRE LINGUE. LA RECENTE BATTUTA DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO: "CHISSÀ PERCHÉ DOBBIAMO SEMPRE USARE TUTTE QUESTE PAROLE INGLESI...".


Oristano 27 marzo 2021

Cari amici,

Che da tempo la nostra lingua sia sempre più impregnata di termini provenienti da altre lingue è la sacrosanta verità. Certo, se proprio risulta necessario, in quanto appare mancante o scarna la parola nel nostro vocabolario, può inserirsi un termine importato, preso da un altro linguaggio, che così completa il pensiero. È successo in passato e certamente succederà ancora, ma mai in modo così esagerato come adesso. Per esempio, chiamare “Fast lunch” un pranzo o una colazione di lavoro veloce, oppure “Meeting” un convegno, così come “Lockdown”, al posto dello stare ‘chiusi in casa’, credo che sia uno svilire la nostra bella lingua.

Un comportamento, quello prima evidenziato, talmente fuori luogo, da aver fatto sbottare addirittura il Presidente del Consiglio Mario Draghi, mentre parlava di vaccini e di pandemia durante la visita all'Hub vaccinale di Fiumicino; il Presidente Draghi, parlando delle misure di supporto economico 
presenti nel nuovo decreto-legge appena approvato, eccezionalmente ha perso il suo solito aplomb che da sempre lo connota. Mentre elencava le misure adottate per venire incontro alle esigenze delle famiglie,  e che dovevano garantire il diritto al lavoro agile a chi ha figli in didattica a distanza o in quarantena, oltre alle altre misure disposte per consentire a chi, non potendo usufruire dello svolgimento dello smart working, concedendo l'accesso ai congedi parentali straordinari o al contributo “baby-sitting", Draghi, si è lasciato andare ad un brevissimo commento, anche se un po' pizzicante e di rimprovero.

Draghi, che quanto all’inglese non ha certo difficoltà di pronuncia, essendo una lingua che da tempo parla in modo impeccabile, ha dimostrato tutta la sua avversità nei confronti dei termini anglofoni presenti a dismisura nella nostra lingua; lo ha fatto uscendo dal suo solito, riservato schema, esternando la sua insoddisfazione e commentando seppure brevemente.  Nel leggere quanto scritto negli appunti, il Presidente del Consiglio si è fermato un attimo per fare una considerazione ad alta voce: "Chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi...". Dopo la battuta, accompagnata da un sorriso, Draghi ha chiosato sui passaggi successivi del discorso, aggiungendo che: "per chi svolge attività che non consentono lo smart working, sarà riconosciuto l'accesso ai congedi parentali straordinari o al contributo baby-sitting". 

Amici, il fastidio esternato da Draghi, seppure mitigato da un ironico sorriso, in realtà poteva anche essere interpretato come un velato richiamo al rispetto della nostra lingua, che merita ben altra considerazione. Una battuta, quella fatta da Draghi, che non è sfuggita alle orecchie di Claudio Marazzini, Presidente dell'Accademia della Crusca, la grande istituzione che da quasi 500 anni è impegnata nella diffusione e nello studio della lingua italiana. Il Presidente dell’Accademia della Crusca ha così commentato: "Sono molto contento che il Presidente Draghi, in questo momento difficile per il Paese, abbia toccato questo argomento con leggerezza e con una battuta, ma si capiva bene la sua posizione". Poi ha aggiunto: "Normalmente quando si critica l'uso eccessivo dei termini inglesi scatta l'accusa di provincialismo. Nel caso di Draghi è difficile farla scattare, dato che lui per anni ha fatto discorsi in inglese, ma quando parla in italiano si pone il problema di usare i termini appropriati nella nostra lingua".

Accademia della Crusca

Conversando con i giornalisti, Marazzini ha ulteriormente commentato, chiarendo che il Premier nella sua battuta aveva fatto riferimento a un passaggio dove si citavano lo smart working e il baby-sitting. In realtà, ha detto lo studioso, "Baby-sitter” è un'espressione difficile da sostituire, ma per lo “Smart working” l'Accademia ha indicato da anni il termine “Lavoro agile”. “Il problema – ha continuato il Professor Marazzini - è che con la pandemia sono entrate tantissime nuove parole inglesi, quindi l'osservazione del Presidente del Consiglio mi è sembrato un segnale chiaro, al di là del termine al quale lui intendesse riferirsi". "

Cari amici, che la lingua sia un ‘prodotto fluido’, eternamente in evoluzione, è certamente una realtà, ma appare ovvio che questa realtà non deve essere mai snaturata. Plaudo alla battuta del nostro Presidente Draghi, e magari, chissà, che il rinnovamento della scuola, da tempo promesso e mai mantenuto, con Draghi non abbia finalmente ad aver luogo. Speriamo che siamo in tanti a capire che al posto di “Smart Working” è molto meglio il nostro “Lavoro agile", tanto per cominciare!

A domani.

Mario

 

venerdì, marzo 26, 2021

LA SARDEGNA E LA VALORIZZAZIONE DEGLI ANTICHI, PICCOLI BORGHI. L’ESEMPIO DI SIMONE E DEL SUO PROGETTO “LOLLOVERS”.




Oristano 26 marzo 2021

Cari amici,

Sullo spopolamento degli antichi, piccoli borghi, che numerosi sono presenti da tempo immemorabile nella nostra Isola, ho scritto non poche volte su questo blog. In queste mie riflessioni ho ribadito che la loro salvezza, dalla quasi certa, totale estinzione (con irreparabile perdita della loro storia e tradizioni), potrà avvenire solo con la loro rivitalizzazione a livello turistico, ovvero con la diffusione della loro conoscenza e della riscoperta degli antichi modi di vivere, riportando alla luce i costumi e le tradizioni del passato, i valori, i saperi e i sapori, a volte unici, che col tempo si sono prima appannati e poi diventati obsoleti e dimenticati.

Si amici, il lento, costante e inesorabile spopolamento sta cancellando la gran parte di questo nostro antico e straordinario passato, che, volendo però, possiamo ancora salvare e riportare in auge. L’esempio che porto oggi va proprio in questa direzione, e curiosamente parte proprio dalla mente eccelsa di un abitante di un piccolissimo, minuscolo villaggio sardo, che oggi conta solo 13 abitanti: Lollove. Si, in questo piccolo ma meraviglioso borgo in Provincia di Nuoro, Simone Ciferni sta tentando un’operazione straordinaria di ricostruzione e valorizzazione mai tentata prima, che sa di vera, meravigliosa avventura! Vediamola insieme.

Simone Ciferni, protagonista di questa avventura, è nato 31 anni fa a Lollove, un borgo di 13 abitanti posto vicino a Nuoro. Negli anni Novanta del secolo scorso Simone era un bambino vivace e iperattivo, che giocava curioso tra le strette viuzze di quell’antico villaggio, fatto di poche case in pietra (ben diverse da quelle di oggi) che si affacciavano sulle campagne dove pascolavano pecore e capre. Il posto è incantevole, ma il bambino capisce che quel luogo, seppure bello, è isolato, lontano dalla città, e lui ha bisogno di conoscerlo quel mondo, vuole fare esperienze più grandi, non certo rimanere inattivo, seduto ad osservare senza agire.

La sua è una famiglia della “Nuoro bene”, impegnata nei servizi della ristorazione, e l’esigenza di Simone viene tenuta in considerazione, tanto che il nucleo familiare si trasferisce a Nuoro. L’abbandono di quel borgo, comunque, gli fa venire una immensa tristezza. A scuola è un ragazzo studioso e attento e apprende con velocità, ma si accorge che non gli basta, che ha bisogno di fare ulteriori esperienze: Lui ha bisogno di conoscere il mondo a 360 gradi! Conseguito il diploma di Ragioniere, Simone si laurea in Economia e gestione aziendale. I genitori sperano che si impegni nell’azienda di famiglia, ma ciò non lo appaga e Simone decide così di fare esperienze all’estero.

La sua prima meta raggiunta è l’Inghilterra. Approda a Londra, la città che da sempre è nel cuore dei giovani, centro mondiale che fa sognare e fantasticare più di molte altre città. Il suo girovagare, però, è solo all’inizio. Nel 2016, bisognoso di ulteriori esperienze, approda in Sudafrica. Trova lavoro in un ristorante, a Stellenbosch, un piccolo borgo posto nella parte meridionale del Continente Africano; abituato a guardarsi intorno, si accorge che quegli immensi spazi intorno al villaggio sono popolati da centinaia di fattorie (ne conta oltre 300), e fra queste tanti altri piccoli villaggi, molto simili alla sua Lollove. Luoghi piccoli ma incantati, che godono di un costante sviluppo turistico che crea agli abitanti benessere e lavoro, rassicurandoli per il futuro.

Più li osserva e più si rende conto che questo sviluppo turistico può essere trasportato anche nella sua Sardegna! Simone, giorno dopo giorno, si convince che la sua idea può funzionare e ipotizza di trasferire quella esperienza nella sua isola, partendo dal suo villaggio natio: Lollove. Detto fatto. Con grande convinzione lascia tutto e decide di rientrare in Sardegna. Vuole dare un futuro al villaggio che lo ha visto nascere, al luogo magico della sua infanzia. Arrivato a Lollove si mette subito all’opera. Di giorno inizia a ristrutturare le case in pietra, di notte studia. Le idee non gli sono mai mancate! Vince un bando regionale: un master di tre mesi sull’imprenditoria negli Stati Uniti. “Cavolo, gli americani sarebbero i turisti ideali per Lollove”, pensa con convinzione. 

Il suo progetto è semplice: l’ospite a Lollove si deve sentire parte del borgo; deve dormire, consumare i pasti assieme agli abitanti, quelli che lì ci hanno sempre abitato. Certo, si rende conto delle grandi difficoltà, perché Lollove è davvero un villaggio poco moderno, che manca di tutto, non c’è neppure il segnale telefonico! “Meglio – pensa Simone - questo sarà un punto di forza, non di debolezza; gli ospiti vivranno un’esperienza detox: si ritroveranno a trascorrere il tempo come una volta, senza tecnologia, immersi nella natura”. 

Per sciogliere gli ultimi dubbi, cocciuto e determinato com’è, vuole ancora studiare meglio il problema. Decide di partire in Costa Rica, dove visita i piccoli villaggi, quelli da 70 abitanti o poco più. Si accorge che anche lì vivono di turismo, immersi nell’ambiente; si convince ancora di più che il suo progetto può funzionare anche a Lollove. Rientrato nel suo borgo natio si rimbocca subito le maniche. Riavvia la piccola azienda di famiglia, che lo aiuta a realizzare il suo sogno. Apre una piccola locanda, proprio dove prima c’era il laboratorio della nonna, Zia FranziscaIl dado è tratto! Iniziano finalmente ad arrivare i primi turisti. È un successo. Dopo 48 ore senza telefono i turisti-visitatori sembrano rinascere; si perdono nel borgo, negli orti, tra le capre, le pecore, gli oliveti e le vacche, facendo amicizia con gli scarsi abitanti, appena una dozzina. Per molti intossicati dai veleni delle grandi città è un cambio epocale, un'esperienza che affascina; gustando il cibo genuino di una volta quello che solo i nonni sanno ancora fare, ben diverso da quello preconfezionato della civiltà industriale, sembrano rinascere a nuova vita.

Cari amici, l’esperienza di Simone la trovo geniale e capace di dare buoni frutti. Nonostante il periodo difficile che si sta attraversando, credo che sia il momento giusto per poter riscoprire i piccoli borghi, quelli più sicuri, quelli più sani. La vita all’aria aperta in futuro sarà ben più necessaria di oggi; questo porterà la gente a rivivere luoghi da tempo abbandonati, se sapremo creare le condizioni per rivitalizzarli. Ecco perché apprezzo molto quanto Simone sta facendo per la sua e nostra Isola, perché la Sardegna, col concorso di tutti noi, può recitare un ruolo ben diverso da quello in cui da tempo è stata relegata! Non continuiamo a pensare che debbano essere gli altri a risolverci i problemi, abbiamo tanti giovani validi e preparati! A loro il compito del cambiamento!

Sono un sognatore, è vero, ma immagino che le nuove generazioni potranno e dovranno portare avanti questi progetti di rinascita; se sapranno investire bene il loro sapere e le loro capacità, costruiranno una Sardegna diversa: una Sardegna ripopolata nelle zone interne, dove la bellezza della natura ancora ben tutelata sia qualcosa di ammaliante, una terra dove esiste ancora il valore del silenzio, dell’ascolto, lontano dal turbinio e dalle sregolatezze della vita moderna delle metropoli. La Sardegna deve diventare per tutti qualcosa di preziosi e unico. Abbiamo questo meraviglioso patrimonio da difendere e che può darci ancora tanto, se saremo capaci di valorizzarlo, come sta facendo oggi Simone, a cui va tutto il mio plauso!

A domani.

Mario