martedì, aprile 27, 2010

BONARCADO, CENTRO IMPORTANTE NELLA STORIA DEL GIUDICATO D'ARBOREA.
















Oristano 26 Aprile 2010

Chi oggi si reca a Bonarcado lo fa, prevalentemente, per rendere omaggio a N.S. di Bonacatu, venerata nello splendido Santuario che si erge maestoso al centro dell'abitato.
Non molti sardi sanno che in passato Bonarcado è stato al centro delle vicende del Giudicato d'Arborea, con un'importanza politica e sociale di rilievo.

Il Santuario, fondato ai primi del Millecento dai monaci camaldolesi, è oggi una delle più belle terstimonianze in Sardegna di quel periodo storico, molto amato dai sardi che a migliaia si recano a porgere omaggio alla Madonna nella ricorrenza della Sua festa, a Settembre.
La Luogotenenza per l'Italia - Sardegna dell' Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, Ordine a cui appartengo quale cavaliere, Delegato per la Provincia di Oristano, ha effettuato un Pellegrinaggio al Santuario il 18 Aprile scorso.

Provenienti da tutta l'Isola hanno raggiunto Bonarcado ed il Santuario di Bonacatu decine e decine di Cavalieri e Dame, accomunati dalla fede e dal desiderio di rendere omaggio alla loro Patrona, la Madonna, Maria Regina della Palestina, qui celebrata come Madonna di Bonacatu.
E' stato un grande momento di aqggregazione, di amicizia, e di fede.

Per gli amici che leggono il mio blog ecco alcune splendide immagini della giornata e una sintesi della storia di questi luoghi, abitati dall'uomo fin dalle sue origini.
Grazie dell'attenzione.

LA STORIA DEL SANTUARIO DI N.S. DI BONACATU.

A Bonarcado, un bel borgo rurale disposto nella piana del Milis, oggi possiamo ancora ammirare uno dei più interessanti complessi religiosi della Sardegna formato, oltre che dalla duecentesca Chiesa di Santa Maria, dai ruderi di un antico monastero camaldolese, e dal famoso ed antichissimo Monastero di Bonacatu, dedicato alla Vergine.
Il nome Bonacatu ha origine antiche, come vedremo, affondando nel passato tra realtà e leggenda. Luoghi, questi, che l’uomo abitò fin dalle origini.
La piccola chiesetta originaria, attorno alla quale si costituì il primo nucleo del villaggio e della comunità bonarcadese, presenta chiari segni di un’antichità più remota, ravvisabili dai resti, dalle tecniche e dai materiali costruttivi, emersi durante i recenti lavori di recupero. Il ritrovamento di una vasca rivestita con motivi geometrici, ha fatto supporre la presenza in questi luoghi, di un'antica stazione di posta romana edificata, verosimilmente, su un precedente luogo di culto nuragico. Una tale supposizione è certamente avvalorata dalle numerose testimonianze, che, unanimemente, portano, ad una precedente antropizzazione preistorica che ci ha tramandato pregevoli e monumentali megaliti, nuraghi, domus de janas e tombe di giganti e che si presentano secondo una straordinaria varietà di impianto. La basilica romanica che oggi possiamo ammirare porta ancora, sulla sinistra, i resti visibili del monastero camaldolese, ordine monastico al quale si deve la fondazione della chiesa, nel 1147, e che tanta parte ha avuto nella storia di Bonarcado.

La ricostruzione delle vicende dei Camaldolesi, quell'imponente Ente monastico, fiorente fin dalla metà del XII secolo, è possibile grazie ad una fonte importantissima, quale è il " Condaghe di Santa Maria di Bonarcado" , ossia un registro pergamenaceo nel quale venivano trascritti gli atti di donazione e la relativa amministrazione da parte del monastero.
Fondatore dell'abbazia fu, intorno al 1110, il Giudice Costantino di Lacon, sovrano dell'Arborea. Essa fu consacrata solennemente nel 1147 in occasione di un importante avvenimento storico: la Pace, detta di Bonarcado, tra i quattro Regoli sardi, celebrata sotto gli auspici del Metropolita di Pisa, alla presenza dei Giudici Sardi e di numerosi alti Prelati.
Con il Passare del tempo, il prestigio del Monastero crebbe così come il suo consistente patrimonio, a cui nel 1230, si aggiunsero il salto di Kerketu, nonché sette anni più tardi, la libertà di pesca con due barche nello stagno di Mare Pontis, con esenzione di ogni dazio verso il Fisco Regio.
Il 1237 fu ancora una volta una data importantissima nella storia di Bonarcado e dell'intera Arborea. Il papa Gregorio IX, per ristabilire pace e ordine, inviava sull' Isola il Legato Pontificio Alessandro, per assegnare, in nome dell' indiscutibile potere della sua sovranità politica e spirituale, il regno di Arborea. Durante una solenne cerimonia, celebrata nella Basilica bonarcadese, il primo maggio del 1237, il Legato Pontificio, conferiva a Pietro II, l'investitura del giudicato di Arborea, suggellata dalla consegna del Vessillo Papale e da un giuramento di fedeltà. Tra i fasti dell'Abbazia bonarcadese si annovera la visita pastorale che, nel 1263 fece Federico Visconti, primate di Sardegna e Legato Pontificio, con l'intento di riaffermare, mediante l'accordo del clero e delle autorità civili, la supremazia di Pisa sull'isola.
Durante il Quattrocento l'unico avvenimento di rilievo in cui compaia il nome di Bonarcado è relativo alla presenza del Priore Elia de Palmas poi Arcivescovo di Oristano, alla stipula del trattato che, dopo la morte di Eleonora, ridusse nel 1410 il Giudicato a marchesato.
L'ultimo priore camaldolese di cui si abbia notizia è un certo Francesco che fu priore di Bonarcado nel 1445, successivamente, nella prima metà del XV sec. verosimilmente per mancanza di rifornimenti dalla casa madre, i frati Camaldolesi abbandonarono il paese e l'Abbazia.

Architettura

IL SANTUARIO DI NOSTRA SIGNORA DI BONACATU


Il Santuario di Santa Maria di Bonacatu prese nome, quindi, dalla parola “Bonacatu”, che significa in praticamente “ ritrovamento”.
Si racconta infatti che un cacciatore abbia trovato nel bosco, presso un piccolo torrente, una effige rappresentante la Madonna. Da questa vicenda il nome di Bonacatu o “Buon ritrovamento”.
Delle sorti di questa immagine oggi non si sa nulla ma il culto della Vergine si è perpetuato nei secoli successivi con l’omaggio, alla Vergine ed alla Sua Chiesa, di una bellissima terracotta policroma che rappresenta la Madonna con il bambino. Questa elegante terracotta che noi oggi possiamo ammirare è di autore incerto: da alcuni viene attribuita a scultore fiorentino della scuola di Donatello e da altri, invece, a scultore della scuola dei Della Robbia, date le caratteristiche stilistiche utilizzate nella raffigurazione della Vergine con il Bambino.
Questo luogo di preghiera e di raccoglimento, in territorio di Bonarcado, rappresenta quindi in Sardegna uno dei più antichi e rinomati luoghi di culto dell’intera Isola. Il luogo, come prima detto, ben prima del successivo ed imponente impianto basilicale, che per tale ragione, viene definito nei documenti del “ Condaghe di Santa Maria “ come “Clesia Nuova”, è stato luogo di culto, “ luogo sacro ”, fin dalle epoche più remote: dal periodo nuragico a quello romano ed al successivo periodo medioevale, fino ad arrivare ai giorni nostri.

L’ edificio religioso, come possiamo vedere, si presenta in pianta cruciforme con bracci voltati a botte, al cui incrocio, entro un tiburio quadrangolare, si eleva una cupola di età e fattura medio - bizantina, periodo al quale si ricollega la quasi totalità dell’impianto del Santuario.La facciata del braccio occidentale, di chiara impronta romanica, è frutto di un successivo intervento che, per l’evidenza degli elementi costruttivi e decorativi, si fa risalire al 1242, ossia al momento in cui si metteva mano ai lavori di ampliamento dell’abbazia camaldolese.Il fronte romanico della facciata del Santuario è in scuri conci basaltici intercalati dal rosso cupo del tufo con larghe paraste d’ angolo coronate da un armonico gioco di piccoli archi arabeggianti, sormontati da inserti ceramici sorretti da pregevoli e decorati peducci.
All’interno della Chiesa è conservata la preziosa icona in terracotta policroma, prima menzionata, della Madonna di Bonacatu.
La fabbrica, frutto di diversi interventi costruttivi, è, come già detto, in stile romanico nella facciata del braccio occidentale, dove i conci di scuro basalto intercalati di conci tufacei rossastri, sono utilizzati, in particolar modo, quale coronamento del portale principale, nella facciata tripartita con alte arcate cieche, che guarda ad ovest, realizzata secondo i modi consueti al tipico romanico toscano.
L’assetto attuale dell’edificio si deve ad un successivo ampliamento: due iscrizioni, una delle quali visibile sul lato sinistro della navata centrale, ci consentono di datarlo con precisione. All’impianto originario del 1147, a navata unica, si innestò, nel 1242, un nuovo corpo trinavato, a cui si sommarono, nel corso dei tempi, altri innumerevoli rimaneggiamenti.
I diversi interventi sulla fabbrica mal si celano ad un occhio attento: numerosi particolari costruttivi raccontano delle correnti architettoniche dominanti nei momenti in cui si è intervenuti.Ai tipici temi dell’architettura religiosa isolana, di chiara marca toscana, ravvisabili sulla facciata, sul fianco destro fino al primo ordine del campanile, si giustappongono motivi stilistici di segno islamico verosimilmente importati da maestranze iberiche.Al primo ordine della torre campanaria, dai paramenti lisci e con monofora di taglio rettangolare, si accosta un secondo ordine con lunghe paraste d’angolo e luci campanarie ogivali, mentre un gioco di archi lobati e di lesene a soffietto intervengono a decorare il prolungamento del fianco a doppia testata e l’abside.
All’interno l’edificio si presenta tripartito, in navate divise da arcate impostate su pilastri,ed illuminato dalla soffusa luce proveniente dalle monofore a doppio strombo situate sull’abside e sul frontone.
Sul lato sinistro della basilica romanica sono ancora visibili i resti del monastero camaldolese, ordine monastico al quale si deve la fondazione della chiesa nel 1147 e che tanta parte hanno avuto nella storia di Bonarcado.
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Bibliografia.
D. Scano, Storia dell'arte in Sardegna dal XI al XIV secolo, Cagliari, Sassari, Montorsi, 1907, pp. 137;
R. Delogu, L'architettura del Medioevo in Sardegna, Roma, La Libreria dello Stato, 1953, pp. 26-28;
R. Serra, La Sardegna, collana "Italia romanica", Milano, Jaca Book, 1989, pp. 158-159;
M.L. Bozzo, "Il restauro del complesso di Bonacatu", in Bonarcado, fasc. I, settembre 1992, p. 2; R. Coroneo, Architettura romanica dalla metà del Mille al primo '300, collana "Storia dell'arte in Sardegna", Nuoro, Ilisso, 1993, sch. 22;
D. Salvi, "(OR) Bonarcado, santuario di S. Maria di Bonacattu. 1995" in Archeologia Medievale, XXII, 1995, pp. 395-396;
R. Coroneo-M. Coppola, Chiese cruciformi bizantine della Sardegna, Cagliari, 1999, pp. 41-43;
R. Coroneo-R. Serra, Sardegna preromanica e romanica, collana "Patrimonio artistico italiano", Milano, Jaca Book, 2004, pp. 139-147;
R. Coroneo, Chiese romaniche della Sardegna. Itinerari turistico-culturali, Cagliari, AV, 2005, pp. 70-71.
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lunedì, aprile 05, 2010

DAL MIO ALBUM DEI RICORDI: L'IMPORTANZA DEL " VICINATO".






Le notti d’estate: il gossip del passato.

Oggi è facile andare a dormire anche in pieno agosto: i condizionatori d’aria preparano l’ambiente creando la giusta temperatura e l’umidità necessaria per trascorrere una notte di riposo. Quando ero ragazzo io, invece, era tutto molto diverso.
Le case, allora, non avevano grandi protezioni isolanti e i pochi accorgimenti contro il caldo consistevano nei muri di “ladiri” e nel ripassare, di anno in anno, nuovi strati di bianco con la calce sulle facciate.
La vita sociale di un piccolo paese come il mio ( Bauladu, in provincia di Oristano ) contava molto sul “vicinato”, termine questo stava ad indicare il gruppo di famiglie che si affacciavano sulla stessa piazza, o, comunque dimoranti nelle stradine vicine.
Il vicinato era allora un sodalizio importante: oggi potremo definire questo gruppo sociale, dati i rapporti che vi intercorrevano all’interno, una “famiglia allargata”. Il vicinato sapeva tutto di tutti e quotidianamente forniva un supporto logistico oggi inimmaginabile.
Tutti gli avvenimenti più importanti di questa "grande famiglia" erano patrimonio di tutti: la nascita di un figlio, un battesimo, una cresima, un decesso o anche, più semplicemente, una festicciola come un compleanno o l’uccisione del maiale, animale che allora veniva abitualmente allevato in casa, praticamente da tutti i nuclei familiari. La solidarietà che legava le famiglie all'interno di questa sovra-struttura era forte e compatta. Era compito del vicinato, che operava democraticamente senza capi costituiti o presunti, assistere qualsiasi famiglia ne facesse parte con generosità e altruismo, con una rete di solidarietà oggi sconosciuta.
Si dava assistenza senza essere richiesti alla famiglia di una partoriente, come alla famiglia che aveva subito un lutto; in comune si organizzavano le feste per i battesimi, le cresime o i matrimoni. Tutti fornivano spontaneamente quanto ciascuno poteva, senza regole fisse se non quelle della generosità disinteressata. Qualsiasi cosa poteva costituire aiuto all'occorrenza: la fornitura delle sedie per gli invitati, il prestito del “servizio buono” per il caffè, cosi come la fornitura dello zucchero e del caffè (allora merci rare e preziose); anche la preparazione del pane per le feste avveniva nei vari forni familiari, cosi come quella dei dolci, che non potevano mancare per festeggiare ed onorare i vari avvenimenti importanti di ciascuna famiglia, lieti o tristi che fossero. Ogni fatto importante era, a pieno titolo, patrimonio di tutta la piccola Comunità, quella del “vicinato”.
Era questo sodalizio, di cui oggi si è persa traccia, una cosa bellissima e coinvolgente che io personalmente toccai con mano quando ( è raccontato in altra parte dei miei "ricordi giovanili" ) questa rete di “solidarietà” si prese cura di me, appena nato, e mi fornì il latte materno ( che mia madre non poteva darmi ), con l'utilizzo di ben due balie, intervento allora assolutamente indispensabile per la sopravvivenza di un neonato, data l’impossibilità di reperire gli attuali prodotti artificiali.

Ho fatto questa introduzione per rendere più chiaro quanto sto per raccontarvi sulle notti d’estate ( oggi diremo la “prima serata” ), ovvero sul dopocena estivo degli anni ’50.

In quegli anni del primo dopoguerra gli schemi della civiltà contadina imponevano di cenare presto. Il tocco dell’Ave Maria, che le campane della Chiesa battevano alle 19, era il consolidato richiamo per i capi famiglia ed i ragazzi a rientrare a casa, dove le donne della famiglia avevano già cucinato e preparato il pasto serale. Salvo eccezioni motivate, tutti i componenti la famiglia dovevano essere presenti per la consumazione collettiva della cena, nessuno escluso.
Considerata la frugalità del convivio la consumazione era molto veloce: in poco più di un quarto d’ora il rito veniva portato a termine: il minestrone, la pasta, le patate o le frittate, realizzate con le verdure dell'orto e con le uova delle ruspanti galline, presenti allora in ogni abitazione, non duravano a lungo nel piatto ma sparivano in grande velocità, divorate con avidità, sopratutto da noi ragazzi. Solo nei giorni di festa il pranzo e la cena erano più consistenti ed importanti: un galletto ruspante, un coniglio o un pezzo di carne di maiale ( sempre provenienti dall' allevamento di casa ), allietavano e completavano la cerimonia conviviale festiva.
Nelle calde notti d'estate, a differenza degli altri periodi dell'anno, nel dopo cena si consumava il rito, oggi scomparso, delle chiacchiere in Piazzetta.
Era, questo un modo di "prendere fresco" insieme, di raccontarsi e raccontare alla " famiglia allargata del Vicinato ", fatti e avvenimenti di ciascuno, storie vissute e curiosità, di interesse collettivo; era un modo di fare partecipi tutti delle proprie esperienze di vita vissuta.
Nonostante la stanchezza di una intensa giornata di lavoro ( per i ragazzi quella derivata dai giochi ) non si poteva andare subito a dormire. Il caldo afoso estivo avrebbe impedito il pur necessario sonno ristoratore.
Gli uomini, al termine della cena, lasciata la tavola si trasferivano all'esterno, mentre le donne della famiglia, sistemata la cucina, lavati i pochi piatti e riassettati gli ambienti, preparavano la casa per la notte: tutte le aperture, porte, finestre, abbaini e quant’altro venivano spalancate in modo da “creare corrente”, ovvero cercare di far entrare aria più fresca in tutti gli ambienti, creando quindi flussi d’aria, delle correnti, che facessero uscire dall'interno l’aria calda e consentire, quindi, agli abitanti un riposo meno sacrificato.
Terminate queste operazioni tutte le famiglie del vicinato si radunavano in un punto agevole, direi strategico, della piazza o della via, scelto per la particolare migliore ventilazione, in grado quindi di dare alle persone il maggiore refrigerio possibile.
Ognuno si portava da casa la sua sedia ( su scannu [i]) che aggiungeva, in sequenza, a quelle dei primi arrivati. Era difficile che qualcuno mancasse: succedeva solo per cause di forza maggiore. Questo modo di riunirsi era anche il modo migliore per “fare la conta delle assenze”. Chi per primo era venuto a sapere perchè Tizio o Caio non erano presenti, ne informava doverosamente tutti i presenti, che, come da una “ radio locale”, da un gazzettino sempre aggiornato, venivano a conoscenza di ogni avvenimento lieto o triste che fosse. La conseguenza ovvia era che, nei casi di necessità, le famiglie del vicinato predisponevano quanto necessario per un immediato aiuto collettivo a chi ne aveva bisogno.
Formata la platea, pur in presenza di regole non scritte, la parola passava in primo luogo agli anziani. I piccoli, complice il buio ( l’illuminazione allora solo un debole chiarore celeste ) ascoltavano in silenzio dietro le quinte: i posti in prima fila erano quelli destinati agli anziani.
I ricordi di guerra o quelli degli emigrati erano i più gettonati: Non erano, spesso, ricordi allegri: erano racconti di notti in trincea, di assalti fatti con pochi mezzi, di amici che morivano straziati dalle bombe degli avversari; ma erano anche ricordi di episodi di grande solidarietà, di viveri di sopravvivenza equamente divisi, anche se la fame non sempre era una buona consigliera.
Gli emigrati rientrati a casa, dopo anni di duro lavoro all’estero o nelle città del nord Italia, raccontavano di grandi città piene di gente, di tram, metropolitane e stazioni ferroviarie dove tutti si muovevano in modo veloce, caotico, ben diverso dal nostro tranquillo tran tran quotidiano. Le storie raccontate erano certamente arricchite di fantasia, ma per gli ascoltatori, poco avvezzi alla vita delle grandi città, il mondo raccontato era cosi diverso, cosi fantasioso, che ascoltare il narrante era come entrare, non visti, in un altro mondo, come quello delle fiabe di lontana memoria scolastica.
I racconti degli anziani aprivano la mente di noi ragazzi al nuovo, ad un mondo lontano e sconosciuto; ascoltandoli era come sfogliare un grande libro, dove le parole scritte venivano trasformate dalla fantasia in tanti castelli ubicati in un mondo lontano ed irraggiungibile.
Uno dei narranti più gettonato era un vecchio che da giovane era stato in America. Se non iniziava lui, d’iniziativa, a sfogliare i suoi ricordi era la platea a chiedergli perentoriamente di farlo.
Il vecchio parlava lentamente, quasi faticasse e recuperare da un contenitore troppo pieno quanto andava a raccontare. Le sue parole, nella nostra mente, si trasformavano in tante immagini, come in un film. Parlava di grandi fiumi lunghissimi e larghi come mari, solcati da grossi battelli a vapore, di immense pianure selvagge, piene di animali feroci, di città caotiche piene di gente di ogni tipo dove, spesso, la pistola aveva ragione molto più dei tribunali e dei libri di diritto. I ragazzini come me ascoltavano estasiati, in silenzio: il racconto era meglio, delle noiose lezioni del Maestro di scuola.
Anche se la permanenza al fresco era piacevole non si stava fuori troppo a lungo. La nuova giornata lavorativa per molti iniziava presto. Bisognava recuperare le forse per riprendere, fin dalle prime fresche ore dell’alba, il duro lavoro.
Noi andavamo a letto malvolentieri. Il nostro cervello era ancora dentro quell’immaginario mondo appena ascoltato; avremo voluto che il racconto continuasse all’infinito ma venivamo inderogabilmente dirottati sul nostro lettino. Addormentarsi alla fine non era, però, cosi difficile. Chiudendo gli occhi io continuavo a sentire la suadente voce del nonno che parlava di fiumi e di città, di banditi e di miniere, ed il racconto, nel mio sogno, si trasformava in realtà. Non era più una storia affascinante ma un mondo reale, vivo, vero, che nel sonno mi vedeva partecipe, protagonista, magari con una grossa pistola in mano ad inseguire gli uomini cattivi.
Quando la mia mente torna indietro e ripensa a questi momenti, un piacere sottile mi avvolge e mi riporta indietro nel tempo. Rivedo la piazzetta, gli anziani con il berretto ed il sigaro, risento la voce roca del vecchio che racconta, ancora, il suo passato. Che differenza, rispetto alle serate dei ragazzi di oggi! Niente discoteche, niente stragi del sabato sera, niente alcool, niente telefonini, niente computer, niente grande fratello, niente…di niente…..! Che noia… sbuffano, con fastidio, i nostri figli!
Io, invece, senza farmene accorgere...troppo, dico che erano momenti bellissimi, momenti irripetibili di vera gioia, che mi hanno aiutato a crescere. E li ricordo con struggente nostalgia!

Mario
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note.
[i] “Su scannu, era una piccola ma robusta sedia che, costruita in legno duro ( spesso olivo o quercia), era normalmente usata davanti al caminetto, dato il suo limitato ingombro, per agevolare le varie operazioni: dall’accensione del fuoco , alla preparazione delle graticole o per agevolare la cottura dei cibi. Ogni componente la famiglia ne aveva normalmente una.