venerdì, maggio 18, 2007

"ROTARY SHARES": L'AMICIZIA ROTARIANA E' SOPRATUTTO CONDIVISIONE






Oristano 14 MAGGIO 2007 -articolo per Voce del Rotary


50^ ASSEMBLEA DISTRETTUALE – ROMA 12 e 13 MAGGIO 2007
RIFLESSIONI DI UN PRESIDENTE…RIPETENTE



Credo molto nell’amicizia. Sono entrato nel Rotary con la convinzione che l’amicizia e l’etica sono e saranno sempre i pilastri basilari della nostra associazione. La definizione che esprime meglio il mio concetto di amicizia è quella data da J.M. Reismann: “…amico è colui a cui piace e che desidera fare del bene ad un altro e che ritiene che i suoi sentimenti siano ricambiati…”. Questa amicizia presuppone già di per se uno scambio, una condivisione.
Uno dei modi eccellenti, poi, per rafforzare l’amicizia è quello di frequentarsi, mettere insieme le proprie conoscenze ed esperienze, affinando, incontro dopo incontro, la conoscenza l’uno dell’altro o dell’altra. Francesco Alberoni, a questo proposito, dà una ulteriore particolare definizione dell’ amicizia, definendola “una filigrana di incontri”, che “si rinnova ad ogni nuovo incontro migliorandosi e completandosi”.
La mia partecipazione alla 50^ Assemblea del nostro Distretto è stata, quest’anno, in qualità di Presidente Incoming del mio club, quello di Oristano. Questo incarico, che mi accingo a portare avanti per la terza volta, destava una certa curiosità: in una squadra che si preparava ad apprendere i segreti del comando, della leadership, ero un presidente..ripetente! Mi sentivo, quasi un alunno che non aveva superato gli esami e giocoforza doveva ripetere.
Leggevo negli occhi dei tanti amici che mi salutavano e mi abbracciavano affettuosamente sensazioni diverse. In alcuni era semplice curiosità, in altri stupore, in altri ancora comprensione, per il peso che la responsabilità comporta. In tutti, invece, una certezza: se il club tornava su un vecchio presidente attraversava un momento poco favorevole: mancava, quindi, di quell’armonia necessaria al suo buon funzionamento. Detto con una sola parola mancava, all’interno del nostro club, l’armonia e la responsabilità della condivisione.
Si, cari amici, il Rotary è condivisione! Il motto del prossimo anno rotariano “ Rotary Shares”, vuole ribadire, se mai ce ne fosse bisogno, che il Rotary è condivisione. Questo significa non solo condividere la nostra esperienza, la nostra capacità, il nostro sapere mettendolo al servizio degli altri, ma anche condividere, all’interno del nostro club, il carico degli impegni di servizio: nessuno, salvo particolari motivi temporali o logistici, può declinare la chiamata alle varie cariche necessarie per il buon funzionamento del suo club.
Perché questo avvenga c’è innanzitutto il bisogno, la necessità, di una oculata scelta dei nuovi soci. Il candidato socio non deve essere solo un professionista, un imprenditore di fama, ai vertici della sua categoria, ma soprattutto deve possedere quello che comunemente viene definito “spirito rotariano”. Il suo modo di vivere, di operare nella sua azienda e nella società, deve già essere improntato ai principi che ispirano il Rotary. In sintesi deve essere già un rotariano in pectore. In tutti i nostri club la scelta di un nuovo socio dovrebbe partire non dalla fama raggiunta nella professione dal candidato, ma della sua disponibilità al servizio, dall’attenzione agli altri, dalla sua capacità e disponibilità al lavoro di squadra, in sintesi dalla sua capacità di condivisione.
Un sentito grazie al Presidente Eletto Wilkinson che ha voluto dare al suo anno una connotazione forte di condivisione (in inglese to share ha un significato ancora più marcato di dividere con gli altri, distribuire) del nostro grande patrimonio rotariano.
Ho apprezzato molto l’interpretazione che ne ha fatto il nostro Governatore Franco Arzano nella sua relazione programmatica e che voglio riportare: “…Ciò che accomuna i rotariani di tutto il mondo è infatti la volontà di condividere: condividere il loro tempo, le loro capacità, la loro esperienza e le loro risorse finanziarie: il tutto per realizzare progetti che, affrontando un ampio spettro di problematiche sociali ed umanitarie, mettono a fattore comune la loro comprensione, il loro entusiasmo e la loro dedizione per assistere i più bisognosi e fare del mondo un posto migliore….”.
La condivisione del tempo e delle capacità di ciascuno di noi significa non solo dare risposte all’esterno, ma anche assumersi tutte le responsabilità ed i ruoli che la nostra Organizzazione comporta.
Grazie dell’attenzione.
Mario Virdis

mailto:virdismario@tiscali.it




venerdì, maggio 11, 2007

GLI ARTIGLI DEL MINOTAURO DELLA GLOBALIZZAZIONE








UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI SASSARI
FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE
CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN EDITORIA, COMUNICAZIONE MULTIMEDIALE E GIORNALISMO




IL LABIRINTO DEL TERZO MILLENNIO: DEDALO, TESEO E IL FILO DI ARIANNA CONTRO IL MINOTAURO DELLA GLOBALIZZAZIONE





SAGGIO DI MARIO VIRDIS, matricola 30019800
Esame di: PROBLEMI DELLA GLOBALIZZAZIONE
DOCENTE PROF. GUNTER BECHTLE

INDICE

In copertina e nelle pagine interne:
Labirinti a confronto: Ieri e…oggi!
- Indice………………………………………………………………………pag. 2
- Premessa …………………………………………………………………. pag. 3
- La globalizzazione………………...…… .. .……………………..………. pag. 5
- Intervista a U.Beck di Danilo Zolo….….…………………………………pag. 9
- Conclusioni……. ……………………………..………………………..….pag. 14
- Bibliografia…………………………………………… …………………..pag. 15
- Note………………………………………………………………………...pag. 16





















PREMESSA

Non sono uno che solitamente la notte sogna. Inoltre, se anche fosse, al risveglio il ricordo del sogno è svanito. L’altra notte, complice il primo caldo estivo, ho sognato e stranamente ricordo perfettamente tutto; forse perché era un sogno-incubo. Mi trovavo in una città sconosciuta. Correvo a perdifiato inseguito da non so bene chi e perché. La città era affollata ma nessuno badava a me ed alla mia angoscia. Sempre di corsa imboccai uno stretto viale alberato che finiva in una piccola radura circolare con delle panchine e degli alberi alti, potati geometricamente. Mi fermai a riprendere fiato; dalla radura partivano diversi sentieri, stretti e limitati da arbusti verdissimi. Con il cuore in gola (calavano le prime ombre della sera), ero indeciso sul sentiero da prendere; sentivo dietro di me rumori e voci: forse erano quelle dei miei inseguitori. Ripresi la mia corsa scegliendo a caso uno dei sentieri che, però, subito dopo si sdoppiava: dovevo decidere quale prendere. Non c’era tempo da perdere, ne presi uno, sempre di corsa. Il cuore martellava dentro il mio petto, ma non mollai. Arrivai ad un’altra radura con altre panchine ma non potevo fermarmi. Le ombre cupe della sera cominciavano ad avvolgere la vegetazione e la mia paura aumentava, perché dalla radura partivano altri sentieri: ero disperato. Iniziai a piangere con la convinzione di essere perduto. Le voci ed i rumori diventavano sempre più presenti: i miei inseguitori si avvicinavano, sentivo anche un abbaiare furioso. Che fare? Nascondersi? Impossibile! Lottare? Ero stanco e disarmato e gli altri chissà quanti erano! Dovevo riprendere a tutti i costi la corsa, tentare il tutto per tutto, ma le mie gambe si rifiutavano di camminare, erano diventate come di piombo. Gli inseguitori erano vicini ed io nulla potevo contro questo nemico che ancora non conoscevo. Era arrivata la fine? A denti stretti ripresi con uno sforzo sovrumano la corsa: ormai era buio. Il sentiero scelto era in discesa, cercai di correre, forse anche con gli occhi chiusi. Calpestavo il sentiero con il passo ormai pesante per la fatica, finche i miei piedi non sentirono più la ghiaia del terreno: stavo precipitando nel vuoto! Una terribile sensazione di angoscia accompagnata dalla paura della morte. All’improvviso il risveglio, grondante di sudore, con il cuore che batteva ancora all’impazzata: fortunatamente era solo un sogno!
Impiegai del tempo a riprendermi. Era ancora presto e restai un po’ a letto. Le immagini del sogno scorrevano lentamente come nel rivedere un film. Ad occhi chiusi cercai di capire se era solo frutto di un incubo, causato da una cena abbondante, oppure se nell’inconscio avevo dato corpo alle mie paure, alle mie ansie, alle mie inquietudini.
Vi erano tanti simboli che, messi insieme, potevano dare una risposta ai miei dubbi. La mia corsa trafelata era forse una fuga da qualcosa che non accettavo? I pericoli indefiniti dai quali cercavo di fuggire erano, forse, i nuovi rischi, le nuove incertezze che quotidianamente ci angosciano? Credo proprio di si. Io che ho vissuto, in parte, la prima modernità (sono nato nel 1945 ed ho conosciuto sia il “fordismo” che il “post-fordismo”) subisco più degli altri, più giovani, gli effetti della rivoluzione in atto: uno “tsunami” che, pur in assenza di guerre e sangue, ha spazzato via un castello di certezze. Nel sogno la città sconosciuta, dove correvo, era animata da una triste moltitudine anonima che non si curava degli altri: nessuno si preoccupava delle mie paure, l’egoismo aveva ucciso la solidarietà; il sorriso e la fiducia erano stati spazzati via dall’indifferenza e dall’individualismo. La mia fuga nel sogno finisce, poi, nel “labirinto”. Anche in passato il labirinto ha rappresentato per l’uomo la difficoltà a trovare soluzione ai suoi mali. Nel mio sogno quale il reale significato del labirinto? Era la materializzazione delle mie difficoltà a trovare soluzioni nuove, strade nuove, alla mia vita? Forse. Infine il mio volo nel vuoto: credo che rappresentasse l’assenza di soluzioni ai problemi. Il futuro nella società globale del rischio fa, davvero, tanta paura. Credo a tanti, non solo a me. Ma la speranza non può e non deve mancare.











LA GLOBALIZZAZIONE


La globalizzazione è un termine complesso, che all’origine indicava non tanto l’attuale fenomeno di mondializzazione dei processi ( economici, politici, culturali, etc.) quanto, come definisce il dizionario della lingua italiana (Devoto – Oli ediz. 1987), quel “ processo di percezione e acquisizione prima sincretica e poi analitica, tipico della psiche del fanciullo”. Globalizzazione, quindi, come processo di percezione ed acquisizione di un nuovo modo, oserei dire “rivoluzionario” , di trasformazione socio-economica.
Ma come è arrivato il mondo a questa rivoluzione silenziosa, senza spargimento di sangue, che per impatto deflagrante può essere paragonata alla Rivoluzione Francese ed alla Rivoluzione industriale ottocentesca? Vediamo di capirne il perché.
La crescita socio-economica dell’uomo è un cammino senza fine. Nessun traguardo è visto come punto d’arrivo, semmai come punto di partenza per nuove conquiste.

1.1 IL RISCHIO COME IPOTESI DI LAVORO

Che cos’è il Rischio? L’eventualità che si verifichi qualcosa di negativo, o la possibilità di esporre qualcosa di positivo ad un danno, è definita come rischio. [i]
Luhmann ci fa sapere che l’origine della parola è sconosciuta (1991). Come si può notare, il rischio è un concetto che associa due elementi fondamentali: il primo è la probabilità che un determinato evento si verifichi, l’altro elemento è la conseguenza dell’evento.Con il passare dei secoli, il termine, da una valenza neutra, ha però assunto una connotazione via via più oppositiva.
Nella società contemporanea, la parola rischio identifica situazioni ed eventi ai quali sono associati elementi negativi capaci di compromettere più o meno gravemente la stabilità, la sicurezza o l’incolumità di un oggetto o di una persona. Il rischio, allora, esprime il prodotto della probabilità che un evento dannoso possa verificarsi per l’intensità delle conseguenze dannose stesse.
Ad oggi, l’uomo occidentale ha raccolto con successo un numero crescente di sfide settoriali per aumentare la sua sicurezza e il suo benessere. Ma ha prodotto situazioni inedite dagli sviluppi difficilmente prevedibili, che possono fungere da moltiplicatori esponenziali di rischio. Infatti, anche se certi importanti risultati sono stati ottenuti grazie ai processi posti in atto dalla civiltà occidentale, la vita umana sulla Terra non è in assoluto diventata meno fragile e precaria di un tempo. I successi ci sono, ma sono stati ottenuti a prezzo di crescenti squilibri, e non è dimostrato che mutamenti di aspetti circoscritti della vita, favorevoli all’uomo, non producano opposti effetti d’insieme. Più che di successi propriamente detti, si tratta di trasformazioni strutturali della società contemporanea, e cioè un travaso, un passaggio, dai rischi esterni (i pericoli) ai rischi prodotti.
A confermare questi assunti ci vengono in aiuto alcuni autori. Giddens afferma che i pericoli sono considerati eventi non determinati dalle scelte individuali ma da fattori per così dire esterni (Giddens,1990), indipendenti, dalla volontà degli uomini e sono propri della società industriale[ii].
Secondo il sociologo tedesco Ulrich Beck, caratteristica delle società contemporanee[iii] è l’attenuarsi dei problemi di disuguaglianza inerenti la mera distribuzione delle risorse e delle opportunità. Tuttavia, i sistemi sociali contemporanei, sembrano caratterizzati da situazioni segnate da vulnerabilità diffusa. Egli giunge a questa conclusione analizzando due periodi storici consecutivi che, tipizzandoli, definisce rispettivamente come prima modernità e seconda modernità. La prima modernità è un’epoca «caratterizzata da modelli di vita collettivi, piena occupazione, Stato nazione e Stato sociale, rimozione e sfruttamento della natura» (Beck, 1999, trad. it. 2000, p. 27). Le premesse che stanno alla base di questo modello riguardano essenzialmente la negazione di determinati diritti fondamentali, un sistema corporativistico chiuso e classista e un’organizzazione locale delle economie dei singoli paesi.
E’ l’epoca della società industriale.
La seconda modernità, invece, è «caratterizzata da crisi ecologiche, diminuzione del lavoro salariato, individualizzazione, globalizzazione e rivoluzione dei ruoli tra uomo e donna» (ibidem, p. 27). Individualizzazione intesa come “flessibilità e soggettivizzazione del lavoro”, come viene definita da Gunter Becthle [iv]. Ecco la sua definizione di uomo flessibile:
“…occorre creare l’uomo flessibile, che sia all’altezza della forza rivoluzionaria del capitalismo digitale di oggi. La parola flessibilità si basa sul suo carattere ambiguo, sfruttabile in favore di tanti interessi diversi.. La stessa terminologia mostra la molteplicità di definizioni e interpretazioni che possono essere fornite al riguardo: flessibilità, significa malleabile,arrendevole, elastico, duttile, piegabile e cosi via. Eppure la flessibilità può essere letta secondo altre chiavi di lettura, in particolare se la si concepisce come una forma di potere. Questo potere diventa legittimo attraverso un processo di comunicazione, che porta l’individuo a percepire se stesso in maniera autonoma, in modo da contribuire alla flessibilità del sistema. Ciò che viene comunicato sono le capacità del singolo che hanno carattere generico, astratto, extra-funzionale, come affermato dai sociologi del lavoro. L’individuo deve avere la capacità di assumersi responsabilità, con lo scopo di prevedere errori, di intuire uno sviluppo non programmato. In fondo si tratta di un processo di razionalizzazione, in cui gli interessati appaiono come gli attori principali. Si può affermare che la flessibilità parte da un mutamento che ha coinvolto il paradigma fordista, caratterizzato dalla relativa rigidità organizzativa, a favore di una relativa elasticità dei vari modelli post-fordisti….”.
Alla schiera di “colletti bianchi” e “tute blu” si sostituisce, oggi, il “jolly”, individuo capace, multiforme, un “global player” capace, formato, informato e individualista. E’ lui il nuovo “superman” capace di giocare in tutti i ruoli e di arrivare alla meta. Non più organizzazione piramidale ma orizzontale, non più rendite di posizione, ma obiettivi e risultati nuovi, ogni giorno.Ne consegue che va in crisi il modello della piena occupazione e con esso lo Stato Sociale, vi è un affrancamento dalle forme e dalle attribuzioni dei ruoli tradizionali, ci si allarga verso mercati globali, esponendosi a rischi globali. Finisce la «sicurezza un tempo associata allo status, alla gerarchia, alla burocrazia, alle carriere preordinate e alle occupazioni fisse» (Bauman, 2002, trad. it. 2003., corsivo mio). E’ l’epoca della società postindustriale.

1.2 ANALISI DELLA GLOBALIZZAZIONE

Globalizzazione e rischio sono, dunque, strettamente collegati. Come strettamente legati sono economia, politica, cultura. La globalizzazione, pur riguardando in primis il processo di accumulazione del capitale non si limita a questo campo. Gli attori principali sono le multinazionali degli Stati Uniti, del Giappone e dell’Unione Europea, che hanno operato ed operano in maniera transnazionale e trasversale sul mercato per ottenere maggiori profitti su scala mondiale. Questa politica del guadagno ad ogni costo, del raggiungimento del massimo risultato con il minimo sforzo ha necessità, per autoalimentarsi, per il conseguimento del risultato, di influenzare e di condizionare le politiche degli Stati. Non solo. Il potente condizionamento, anch’esso “globale” non si limita alla politica ma avvolge, in una spirale da “boa conscrictor” ogni altro aspetto della società: famiglia, cultura, lavoro. L’organizzazione del lavoro, come intesa fin’ora, dovrà essere totalmente ripensata in quanto lo Stato, limitato entro i propri confini, non può più dettare regole ad imprese che ormai operano fuori dai suoi confini, in ambiti ben più ampi, con la conseguenza di aggirare con la loro influenza ogni barriera. Lo Stato, al contrario, viene spinto a diventare minimale, rispetto al potere economico, sempre più ampio, che le multinazionali hanno acquisito grazie alle possibilità di produrre ovunque nel mondo, dove la manodopera costa meno. E’ un ritorno allo schiavismo del passato che riporta alla mente le tristezze dei campi di cotone americani dei secoli scorsi. Il potere dei singoli Stati è ogni giorno falcidiato dalle sempre minori entrate fiscali, stante la continua de-localizzazione delle sedi fiscali delle potenti società. E’ la fine delle molte certezze, conquistate a caro prezzo, di tutte quelle garanzie sociali che prima lo stato poteva assicurare con le precedenti entrate; è la fine del Welfare State, ormai troppo costoso da mantenere.
Globalizzazione non è un termine che viaggia da solo: altre denominazioni gli sono vicine e rappresentano dei punti di vista diversi che spesso vengono usati in maniera impropria. Sono almeno tre i termini che ruotano con sfumature diverse ma che sinonimi non sono: globalismo, globalità e globalizzazione.
Globalismo è la corrente che crede che la globalizzazione abbia una dimensione solamente economica, impossibile da influenzare, e che il mercato si regoli da sé nel miglior modo possibile: pertanto lo stato deve diventare minimale, e lasciare che l'economia e la società si autoregolino da sé. Ne deriva il Globalismo opposto, che pur restando convinto del predominio del mercato, vuole sottrarvisi con barriere protezionistiche: nere (per motivi economici), verdi (poiché lo stato è la sola istituzione a garantire il rispetto dell'ambiente e pertanto va protetto), rosse (motivate dal bisogno di dimostrare la bontà delle affermazioni di Marx: il mercato schiaccerà la società). La Globalità è la percezione di vivere in una società globale. Dando per scontata la fine dell'equazione “cultura = stato” – tipica della prima modernità – che vedeva più società separate dai confini, si pone ora una società globale in cui coesistano più culture, a formarne una sola. La seconda modernità inoltre vede lo stato e le istituzioni classiche inadeguate a contrastare la potenza degli attori transnazionali. La Globalizzazione è il processo irreversibile per cui gli stati (attori nazionali) perdono importanza rispetto ad attori transnazionali. Attori internazionali sono invece quelli limitati ad una sola parte del globo. La società non è più limitata in uno stato, ma al globo.



INTERVISTA A ULRICH BECK DI DANILO ZOLO[v]

Ulrich Beck nel suo libro Società del Rischio, apparso in Germania nel 1986, aveva già ben identificato le rilevanti differenze fra la prima e la seconda modernità. Nel suo successivo libro Was ist Globalisierung?, uscito nel 1999 ed edito in Italia dall’editore romano Carocci, continua l’analisi sui successivi sviluppi della globalizzazione. Intervistato dal giurista italiano Prof. Danilo Zolo alla fine del 1999 all’atto dell’uscita in Italia del libro, ha ulteriormente chiarito il suo concetto sulla società globale del rischio.
Ho estrapolato dalla lunga intervista le più importanti risposte che tendevano a mettere in luce il pensiero di Beck sullo stato attuale del fenomeno e, soprattutto sulla sua futura evoluzione. Ecco le risposte più significative ed in sintesi il nocciolo delle domande.
Alla domanda di Danilo Zolo sulla sua ipotesi di profonda continuità tra i suoi libri precedenti e l’ultimo scritto ha risposto:
“…È vero. Nel mio libro Società del rischio, che è apparso in Germania nel 1986, avevo proposto la distinzione fra una prima e una seconda modernità. Avevo caratterizzato la prima modernità nei seguenti termini: una società statale e nazionale, strutture collettive, pieno impiego, rapida industrializzazione, uno sfruttamento della natura non 'visibile'. Il modello della prima modernità -- che potremmo anche chiamare semplice o industriale -- ha profonde radici storiche. Si è affermato nella società europea, attraverso varie rivoluzioni politiche ed industriali, a partire dal Settecento. Oggi, alla fine del millennio, ci troviamo di fronte a ciò che io chiamo 'modernizzazione della modernizzazione' o 'seconda modernità' od anche 'modernità riflessiva'. Si tratta di un processo nel quale vengono poste in questione e divengono oggetto di 'riflessione' le fondamentali assunzioni, le insufficienze e le antinomie della prima modernità. E a tutto ciò sono collegati problemi cruciali della politica moderna. La modernità illuministica deve affrontare la sfida di cinque processi: la globalizzazione, l'individualizzazione, la disoccupazione, la sottoccupazione, la rivoluzione dei generi e, last but not least, i rischi globali della crisi ecologica e della turbolenza dei mercati finanziari. Penso che si stiano affermando un nuovo tipo di capitalismo e un nuovo stile di vita, molto diversi dalle fasi precedenti dello sviluppo sociale. Ed è per queste ragioni che abbiamo urgente bisogno di nuovi quadri di riferimento sia sul piano sociologico che su quello politico…”.

Alla successiva domanda sulle sue opinioni ottimistiche o pessimistiche, sui dilemmi, insomma, della globalizzazione, Beck risponde:
“..No, non parlerei di ottimismo ... Come si può essere ottimisti di fronte all'attuale situazione del mondo? Ma d'altra parte, come si fa ad essere soltanto pessimisti? Il mondo che ci sta di fronte è carico di paradossi che non possono non renderci perplessi. Dobbiamo liberarci da alcune certezze antropologiche del passato e nello stesso tempo tentare di costruire, in mezzo ad una quantità di contraddizioni e di rotture, linee di coerenza e di continuità. Speranza e disperazione non possono non intrecciarsi nella nostra esperienza. Guardiamo ad esempio all'Europa. Un secolo buio, nel quale abbiamo avuto due sanguinose guerre mondiali, l'Olocausto, il fascismo e l'imperialismo comunista è finalmente al tramonto e sta lasciando il posto alla prospettiva di un'Europa democratica da costruire nei prossimi anni. Non sono queste ragioni sufficienti per essere ottimisti e pessimisti nello stesso tempo?..”.

Ad un certo punto dell’intervista Zolo chiede a Beck: “…quali argomenti opponi a chi sostiene che i processi di globalizzazione tendono a gerarchizzare ulteriormente i rapporti internazionali ponendo al vertice del potere e della ricchezza un direttorio di potenze industriali, anzitutto gli Stati Uniti, l'Unione Europea e il Giappone…”.

Risponde Beck:
“…C'è una forte tendenza a porre il segno di equazione fra globalizzazione e americanizzazione o persino fra globalizzazione e nuovo imperialismo. Ma questa non è tutta la verità. Ci sono prove evidenti che la globalizzazione diviene sempre più un fenomeno decentrato, non controllato e non controllabile da un singolo paese o da un gruppo di paesi. In realtà le conseguenze della globalizzazione colpiscono o possono colpire gli Stati Uniti come la Francia, l'Italia, la Germania o i paesi asiatici. Questo è vero per lo meno per i rischi finanziari, per i mezzi di comunicazione e per gli squilibri ecologici (il riscaldamento dell'atmosfera, ad esempio). Lo Stato nazionale è sottoposto a sfide in modo eguale nell'America del Sud come in Asia, in Europa o nell'Anerica settentrionale. Ci sono persino fenomeni di 'colonizzazione inversa’. Accade cioè che dei paesi non occidentali modellino forme di sviluppo in occidente. Si pensi alla 'latinizzazione' di alcune grandi città statunitensi, all'emergenza in India e in Malesia di un settore di alta tecnologia senza radici territoriali e orientato al mercato globale, oppure all'acquisto da parte del Portogallo di una grande quantità di prodotti musicali e televisivi del Brasile. Ma, naturalmente, ci sono dei vincitori e dei perdenti nel gioco della globalizzazione. Una minoranza diventa sempre più ricca e una maggioranza crescente diviene sempre più povera. La quota della ricchezza globale che è andata al 5% più povero della popolazione mondiale è passata negli ultimi dieci anni dal 2,3% all'1,4%. Nello stesso periodo la quota accaparrata dal 5% più ricco della popolazione mondiale è cresciuta dal 70% all'85%. Come ha scritto recentemente un autore inglese, piuttosto che di 'villaggio globale' (global village) è il caso di parlare di 'saccheggio globale' (global pillage)…”.

Altro punto importante dell’intervista è quello relativo alla funzione, attuale e futura, degli Stati nazionali.
Chiede Danilo Zolo: “…. Ma non pensi che ci siano aspetti della globalizzazione che i paesi della 'periferia' del mondo dovrebbero tentare di contrastare, anche con mezzi politici, per resistere alla forza omologatrice del mercato e dei suoi correlati ideologici? L'idea di nazione e di Stato nazionale può essere davvero considerata come un oscurantistico relitto del passato? Non è forse vero che l'intera tradizione della democrazia rappresentativa, del rule of law e della stessa dottrina dei diritti dell'uomo sono indissociabili dalla vicenda storica dello Stato nazionale sovrano?…”.
Risponde Beck:
“… Lo Stato nazionale si sta trasformando, certo, non si può dire che sia avviato all'estinzione. Può persino rinforzarsi, come ho sostenuto nel mio libro, divenendo uno Stato cooperativo, uno Stato transnazionale o cosmopolitico. Ma non sarà più, comunque, uno Stato nazionale nel vecchio senso. Per realizzare il suo 'interesse nazionale' lo Stato della seconda modernità deve attivarsi simultaneamente a vari livelli locali e transnazionali ed entro istituzioni molto lontane dai suoi confini. Uno Stato, ad esempio, può persino usare l'Europa come un pretesto per non prendere decisioni locali o per dare attuazione a livello europeo a decisioni per le quali il governo nazionale non disporrebbe del sostegno della maggioranza interna. Attori globali come le imprese multinazionali dispongono di un grande potere nell'ambito degli affari di uno Stato nazionale poiché possono aumentare o ridurre l'offerta di posti di lavoro. Ma un nuovo protezionismo regionale potrebbe ciononostante rivelarsi efficace. Nel mio libro ho proposto un esperimento mentale: proviamo ad immaginare un mondo nel quale i costi dell'informazione e del trasporto oltre le frontiere nazionali aumentino in misura significativa. Le economie regionali ed i mercati regionali -- quelli dell'Unione europea, ad esempio -- ne avrebbero certamente dei vantaggi…”.


“E’ ipotizzabile una democrazia oltre lo Stato-Nazione ?” Chiede Zolo. Ecco domanda e risposta.
D..Z. “…Sono d'accordo con te. Aggiungerei soltanto che l'enfasi globalista sottovaluta il fatto che lo Stato nazionale sembra destinato non solo a conservare a lungo molte delle sue funzioni tradizionali, ma anche ad assumere funzioni nuove che non potranno essere assorbite da strutture di aggregazione regionale o globale. Solo uno Stato nazionale democratico sembra in grado di garantire un buon rapporto fra estensione geopolitica e lealtà dei cittadini e già per questo svolge secondo me una funzione non facilmente surrogabile, anche nei confronti degli eccessi delle rivendicazioni etniche. E forse non andrebbe dimenticato, come ha sottolineato Paul Hirst, che le persone sono molto meno mobili del denaro, delle merci e delle idee, per non dire dei contenuti della comunicazione elettronica: le persone sono molto più 'nazionalizzate' e sarà comunque al loro radicamento nazionale e territoriale che si dovrà fare appello anche in futuro per dare legittimità alle istituzioni sovranazionali…”.
U.B. Attorno a questo punto si è sviluppata la più importante controversia nell'ambito della teoria politica contemporanea: è possibile una democrazia oltre l'ambito dello Stato nazionale? Oppure lo Stato nazionale va considerato come il solo ambito istituzionale entro il quale può realizzarsi lo Stato di diritto e quindi la tutela dei diritti dell'uomo? Ci può essere una legittimazione democratica ottenuta attraverso procedure transnazionali? Secondo me, almeno per quanto riguarda l'ambito europeo, questa discussione ha un valore puramente teorico. È una pura illusione pensare che sia possibile riportare indietro l'orologio della storia e tornare in Europa ai tempi della democrazia nazionale. Non ci sarà democrazia in Europa se non sarà una democrazia rafforzata sul piano transnazionale. La democrazia è stata inventata oltre mille anni fa in ambito locale. Poi, nel corso della prima modernità, ha assunto una dimensione nazionale. Ora e nel prossimo futuro la democrazia deve essere reinventata a livello transnazionale. È questo il senso del progetto democratico per l'Europa...”.

Molto interessante l’esame del “globalismo economico”: ecco il confronto.
D.Z. Il 'globalismo economico' è, nel tuo lessico teorico, cosa ben diversa dalla globalizzazione. È l'ideologia ultra-libertaria -- tu parli addirittura di 'metafisica del mercato globale' -- che cerca di nascondere i rischi che in particolare i processi di globalizzazione economico-finaziaria comportano. Il pericolo di gran lunga più grave, tu sostieni, viene dai settori più forti dell'economia globalizzata: viene cioè dalla capacità che le grandi imprese industriali e finanziarie hanno di sottrarsi ai vincoli della solidarietà nazionale, in particolare all'imposizione fiscale. La struttura delle grandi corporations è tale che esse possono scegliere a piacere e cambiare velocemente le sedi geografiche o funzionali dei propri fattori di produzione, ottenendone grandi vantaggi e sottraendosi alle regole poste dagli organi statali. Quali contromisure sono secondo te possibili, al di fuori dell'idea del 'governo mondiale' e dello 'Stato mondiale' che anche tu mi pare consideri come una prospettiva non realizzabile?
U.B. Non dobbiamo illuderci: un capitalismo che fosse concentrato esclusivamente sulla proprietà e sul profitto, che voltasse le spalle ai lavoratori, al Welfare State e alla democrazia finirebbe alla lunga per autodistruggersi. Perciò oggi non c'è soltanto il rischio che milioni di persone restino senza lavoro. E non è a repentaglio soltanto il Welfare State. La libertà politica e la democrazia sono a rischio! Dobbiamo domandarci: qual è il contributo che l'economia globale e le corporations multinazionali offrono per sostenere la democrazia a livello nazionale o cosmopolitico? Noi dobbiamo fare in modo che l'economia si faccia responsabile del futuro della democrazia rinforzando, ad esempio, la politica transnazionale in Europa. Ma dobbiamo anche tentare di rinforzare le organizzazioni transnazionali dei consumatori e, in generale, la cosidetta global civil society.

D.Z. Lo sviluppo delle tecnologie elettroniche -- automazione, informatica, telematica -- aumenta la produttività delle imprese multinazionali che tendono a disfarsi sempre più della forza-lavoro che non sia altamente qualificata. Sta affermandosi un capitalismo globale che è in grado di sottrarsi in larga parte ai costi del lavoro e in prospettiva al lavoro stesso. È questa la tenaglia che anche nei paesi industriali sta stritolando le nuove generazioni, sempre più colpite dalla inoccupazione e dalla disoccupazione. Ma ad essere minacciati più in generale sono tutti i cittadini che non appartengano alla minoranza di coloro che sono in grado di svolgere mansioni tecnologicamente sofisticate. La maggioranza dei cittadini, anche quando trovano lavoro, sono costretti dalla logica della 'flessibilità' ad accettare occupazioni precarie e poco retribuite e che spesso da sole non bastano a garantire loro una sussistenza dignitosa.
U.B. Questo è assolutamente vero. Dobbiamo riconoscere che persino nei cosidetti paesi del pieno impiego come gli Stati Uniti e l'Inghilterra fra un terzo e la metà delle persone che lavorano sono oggi 'lavoratori flessibili', secondo i molti e molto ambigui significati del termine. Accade qualcosa di simile a ciò che è accaduto a proposito del cosidetto 'modello familiare normale'. Ciò che un tempo era tipico sta diventanto un fenomeno minoritario. Ed è per questo che dobbiamo ripensare e riformare il Welfare State sulla base di questa mutazione morfologica del lavoro e della vita privata.
D.Z. Ma è davvero possibile riformare il Welfare State? Siamo ancora in tempo per farlo? Nel tuo libro sottolinei il fatto che mentre crescono i profitti delle grandi imprese stanno esaurendosi nei paesi occidentali le risorse finanziarie tradizionalmente destinate alle pensioni, ai servizi sociali e all'assistenza degli anziani. Si esauriscono perchè le grandi imprese sono in grado di sottrarsi non soltanto ai costi del lavoro ma anche ai vincoli dell'imposizione fiscale. Ciò provoca naturalmente una crisi dei bilanci statali che possono far conto sempre meno delle entrate fiscali legate alle attività produttive. Non è dunque soltanto il lavoro che viene a mancare: vengono a mancare le risorse pubbliche. Non c'è allora il rischio che ogni forma di Welfare State sia ormai destinata all'estinzione e che i difensori dei diritti sociali nei paesi occidentali si stiano battendo per una causa ormai persa per sempre?
U.B. No, io non lo penso. In Europa oggi abbiamo, in modo inaspettato, una larga maggioranza di governi orientati a sinistra, incluse l'Italia, la Germanua, la Gran Bretagna e la Francia. Il dibattito attorno alla 'Terza via' riguarda sostanzialmente la riforma del Welfare State nell'era della globalizzazione. Nel suo libro, The Third Way, Antony Giddens traccia le linee di una società di positive welfare e di strategie di investimento. Questo è l'inizio della discussione sulle strutture di un'Europa sociale e democratica che si continuerà sicuramente nei prossimi anni.
Le ultime domande hanno interessato la previsione degli scenari futuri: Zolo chiede a Beck le sue ipotesi sull’avvenire dell’ordine politico mondiale. Ecco le domande con le relative risposte.
D.Z. Resta tuttavia aperto, secondo me, il tema delle forme e delle istituzioni della politica transnazionale: un tema che nel tuo libro non affronti in modo esplicito, salvo l'assunzione del processo di integrazione europea come un importante punto di riferimento pratico e teorico. Ma i fenomeni di integrazione regionale oggi in atto in alcune delle aree più ricche del pianeta sembrano difficilmente esportabili a livello globale. Possono anzi essere visti come un rafforzamento della logica paricolaristica della sovranità statale, anziché come un passo innanzi verso l'auspicato traguardo di una governance democratica del mondo. La formazione di un 'super-Stato europeo', e cioè di una entità politico-economico-militare dotata di poteri eccezionalmente elevati, è una prospettiva rassicurante ai fini di una attenuazione dei rischi della globalizzazione economica?
U.B. Non credo in un superstato europeo. Anche questo sarebbe un modello di modernizzazione di carattere lineare, anziché riflessivo. L'Europa è un eldorado di differenze e personalmente penso che dovrebbe restare tale anche nell'era della globalizzazione. Ma nello stesso tempo l'Europa è il laboratorio dove sperimentare una società ed una politica cosmopolitica. L'adozione della moneta unica ci spinge in questa direzione. Quanto più l'Euro avrà successo tanto più urgentemente l'Europa avrà bisogno di un'anima democratica. Una volta realizzata l'unione monetaria l'Europa deve irrobustirsi grazie a nuove idee politiche e a dibattiti, istituzioni e associazioni civili che travalichino le frontiere degli Stati membri. Soltanto un'Europa intellettualmente vitale è in grado di rielaborare la vecchia idea europea di democrazia per la nuova era globale.
D.Z. Consentimi in conclusione qualche domanda relativa alle funzioni che secondo te il diritto internazionale può svolgere per contenere le spinte eversive della globalizzazione economica e per garantire un nuovo ordine mondiale. Nel tuo libro citi Zum ewigen Frieden di Kant e a tratti sembri simpatizzare con l'deale di un 'diritto cosmopolitico' e di un 'pacifismo giuridico'. Ti chiedo: pensi, assieme a Kelsen e ai suoi epigoni, che il diritto e le istituzioni internazionali siano lo strumento principale per garantire l'ordine mondiale e in particolare una pace stabile ed universale? Condividi, in altre parole, le tesi kelseniane di Peace trough Law?
U.B. Le condivido senz'altro. All'alba della seconda modernità dobbiamo chiederci: chi sono, sul piano intellettuale, i padri fondatori della società globale cosmopolitica? Per me, fra gli altri, sono di grande attualità Kant e Kelsen ma anche, per esempio, Nietzsche, Hannah Arendt e Montaigne.
D.Z. E qual è secondo te il probabile destino delle Nazioni Unite? La globalizzazione ne favorisce, o ne richiede, un rafforzamento o è destinata a travolgerle? Sono in grado non solo di garantire la pace fra gli Stati, ma di contrastare la diffusione della produzione delle armi da guerra e di vincere la sfida delle grandi organizzazioni criminali -- commercio delle armi, delle droghe, delle donne e degli emigranti -- che ormai hanno assunto dimensioni globali?
U.B. La democrazia transnazionale dovrà tenere conto di alcuni fondamentali cambiamenti intervenuti nell'organizzazione transnazionale del crimine e della violenza. Le distinzioni classiche fra 'guerra' e 'pace', 'interno' ed 'esterno', 'società civile' e 'barbarie' -- distinzioni associate all'autonomia dello Stato nazionale -- sono ormai superate. Nello stesso tempo è possibile identificare nuove tendenze civili che potrebbero fornire le basi per una pace stabile. Le Nazioni Unite devono sicuramente essere rafforzate. Ma il fenomeno della globalizzazione del crimine e della violenza richiede anche una risposta da parte di una struttura di cooperazione di tipo statale.
D.Z. C'è chi ha parlato recentemente di una global expasion of judicial power. Che cosa pensi in particolare a proposito dei nuovi Tribunali penali internazionali: quelli già operanti per la ex-Jugoslavia e per il Ruanda e quello, permanente e universale, il cui statuto è stato approvato a Roma nel giugno scorso? Ritieni che possano offrire un contributo significativo al mantenimento della pace e alla tutela dei diritti dell'uomo? Pensi anche tu, come Jürgen Habermas, che l'obbiettivo ultimo debba essere una giurisdizione penale universale e, al suo servizio, una forza di polizia sovranazionale?
U.B. Naturalmente, una corte internazionale sarebbe, nel lungo periodo, una grande conquista a favore di un ordine cosmopolitico. Si tratta di un progetto totalmente irrealizzabile? Io penso di no. È un progetto altrettanto irrealistico quanto lo fu la richiesta di democrazia 150 anni fa nella chiesa di San Paolo a Francoforte (durante la rivoluzione tedesca). Ma io spero che in questo caso si faccia più in fretta.














CONCLUSIONI
La mia convinzione personale non è ne di pessimismo esagerato ma neanche di ottimismo. La globalizzazione va vissuta come una delle tante tempeste che l’umanità ha saputo superare, anche quando per farlo ha versato lacrime e sangue. Lo Stato-Nazione, a mio avviso, non scomparirà. Il suo ruolo futuro sarà certamente molto diverso, ma resterà una sostituibile interfaccia trai suoi cittadini ed altre autorità sopranazionali, sulla falsariga dell’Unione Europea. Nuovi equilibri regoleranno la globalizzazione economica per evitare un Far West che riporterebbe l’uomo indietro di secoli. Il nuovo Stato in questa nuova organizzazione mondiale sarà sempre insostituibile. Il cittadino avrà sempre bisogno dello Stato: come l’uomo, che ha avuto, ha ed avrà bisogno della famiglia. Certo, sarà uno Stato diverso che subirà una sua evoluzione, con modifiche anche sostanziali, come è già successo alla famiglia: da famiglia patriarcale a famiglia allargata.
Anche la precarietà troverà nuovi equilibri e riacquisterà nuove certezze: lo stato sociale nazionale, attraverso altre vie, ne sono sicuro, riprenderà il suo cammino.
Mi piace chiudere questo saggio con le parole di Ulrich Beck, prese dall’articolo pubblicato su “Repubblica” del 22 marzo di quest’anno dal titolo “ La povertà globalizzata”:
“…Il welfare state nazionale, che tenta da solo di venire a capo della sua povertà “nazionale”, assomiglia all’ubriaco che in una notte buia cerca il portafoglio perduto sotto un cono di luce di un lampione. Alla domanda: '' ha perduto qui il suo portafoglio?'' risponde: ''No, ma alla luce del lampione posso almeno cercarlo''.
Speriamo, cessata la sbornia, di aver ritrovato il nostro portafoglio.


Mario Virdis
virdismario@tiscali.it


BIBLIOGRAFIA

G.Bechtle, Potere e soggetto LED – Mi. 2005
U.Beck, Che cos’è la globalizzazione Carocci, Roma 1997
U.Beck, Lo sguardo cosmopolita Carocci Roma 2005
U.Beck Vivere nella società del rischio globale in
Lectio doctoralis, Univ. Macerata ,2006
K.Polany, La grande trasformazione, le origini economiche
e politiche della nostra epoca Einaudi, 1974
D.Held –A.Mc Grew, Globalismo e antiglobalismo Il Mulino, 2003
D.Held, Governare la globalizzazione Il Mulino Bo, 2005
J.Stiglitz, La globalizzazione che funziona Einaudi, To 2006
J.Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori Einaudi 2002
E.Kapstein, Governare la ricchezza.Il lavoro nell’economia Globale Carocci 2003
M. Castells, La nascita della società in rete Università Bocconi
Danilo Zolo Una discussione sulla società globale del rischio
(intervista a Ulrich Beck da Reset, 1999, 5 ) www.tsd.unifi.it


Bibliografia dalla rete:

- http://www.google.it/
- http://www.wikipedia/
- http://www.tsd.unifi.it/












Note
[i] Nuovissimo Dardano. Dizionario della lingua italiana, Roma, Armando Curcio Editore, 1982.

[ii] La società industriale può essere fatta risalire al periodo che va dall’inizio della rivoluzione industriale al 1956 che viene indicato come anno di nascita della società postindustriale in quanto, per la prima volta, i colletti bianchi superarono numericamente i colletti blu negli Stati Uniti (cfr. Bell, D., The Corning ofPost-Industrial Society: A Venture in Social Forecastìng, New York, 1973).

[iii] In realtà Beck si riferisce ai sistemi sociali occidentali ed in particolar modo alla realtà tedesca. Per le critiche al suo modello si veda “Postfazione. Ritorno alla società del rischio” in Beck, 1986.
[iv] Gunther Bechtle, “Potere e soggetto, il dibattito sul post-fordismo” – Ediz Universitarie LED 2005
[v] Danilo Zolo (Rijeka, 1936) è professore di Filosofia del diritto e di Filosofia del diritto internazionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Firenze. È stato Visiting Fellow nelle università di Cambridge, Pittsburgh, Harvard e Princeton. Nel 1993 gli è stata assegnata la Jemolo Fellowship presso il Nuffield College di Oxford. Ha tenuto corsi di lezioni presso università dell'Argentina, del Brasile, della Colombia e del Messico. Coordina il sito web Jura Gentium, Center for Philosophy of International Law and Global Politics. Fra i suoi scritti: Reflexive Epistemology, Boston, Kluwer, 1989; Democracy and Complexity, Cambridge, Polity Press, 1992 (ed. it.: Il principato democratico, Milano, Feltrinelli, 1992); Cosmopolis, Milano, Feltrinelli, 1995 (ed. ing. ampliata: Cambridge, Polity Press, 1997); I signori della pace, Roma, Carocci, 1998; Invoking Humanity: War, Law and Global Order, London, Continuum, 2002; Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Roma-Bari, Laterza, 2003; La giustizia dei vincitori, Roma-Bari, Laterza, 2006. Con Pietro Costa ha curato il volume Lo Stato di diritto, Milano, Feltrinelli, 2002; con Franco Cassano, L'alternativa mediterranea, Milano, Feltrinelli, 2007. E-mail: zolo@tsd.unifi.it