sabato, novembre 30, 2013

LA SARDEGNA E LE SUE TRADIZIONI POPOLARI. I SARDI TRA SUPERSTIZIONE, FEDE E MEDICINA POPOLARE: LE PRATICHE, LE PREGHIERE E GLI AMULETI CONTRO IL MALOCCHIO.



Oristano 30 Novembre 2013
Cari amici,
la Sardegna è una terra antica, ricca di consuetudini e tradizioni che si sono conservate durante i secoli, nonostante l’influenza dei popoli che l’hanno colonizzata. L’isolamento dovuto all’insularità, soprattutto della popolazione dell’interno, ha determinato il fiorire di superstizioni e credenze popolari che accompagnano il popolo sardo da secoli. Tra le tradizioni popolari più note quella che riguarda la medicina è indubbiamente quella più particolare e curiosa. In tempi lontani la cultura contadina aveva scoperto i rimedi per curare la gran parte delle malattie attraverso un sapiente uso di erbe medicinali, che venivano somministrate, con il “fai da te”, dalle donne anziane esperte; ma oltre i mali comuni, questa saggia ed antica cultura, era in grado di “trattare” anche malattie più complesse, quelle derivanti da suggestioni, da superstizioni e credenze popolari (sempre in Sardegna largamente diffuse), che richiedevano interventi particolari,  “mirati”, come quelli per la cura del Malocchio.
Dai racconti degli anziani apprendiamo che il malocchio era un male così diffuso nell’Isola da suscitare il massimo interesse da parte della cultura magico-popolare contadina che, nel tempo, aveva metabolizzato tutto quell’immenso corpus di credenze, tradizioni e antichi riti legati al Malocchio, approntando, per contrastarlo, dei rimedi e delle pratiche di buona efficacia, anche se, spesso, molto differenti tra loro. Il malocchio è ritenuto una delle credenze più radicate in quasi tutte le culture del mondo: fonte della sua forza l’invidia, il desiderio della cosa altrui, il successo degli altri. In Sardegna, specialmente nei tempi antichi, la credenza nel malocchio era così forte e radicata da influenzare sia il quotidiano, che gli eventi più importanti della vita stessa di ognuno.
La pratica di “colpire” persone e cose con l’occhio consisteva nel provocare un danno con lo sguardo, che veicolava il pensiero malevolo della persona; nella sua forma più evoluta il malocchio si estrinseca attraverso dei veri e propri rituali, durante i quali si interagisce con la vittima usando oggetti personali oppure una delle sue unghie, dei capelli o comunque qualcosa strettamente legata al bersaglio da colpire. Secondo la tradizione il malocchio non può essere fatto da un membro della propria famiglia: due persone che hanno lo stesso sangue non ne posseggono la capacità e solitamente sono costrette a ricorrere ad un esterno, quest’ultimo può anche essere un cognato oppure una nuora. Stranamente sembra che le vittime più facili da colpire siano le donne mentre i portatori di malocchio più temuti sono gli uomini di cultura e i preti. Così come è facile riconoscere colui o colei che si trova sotto l’influsso del Malocchio, allo stesso modo è facile riconoscere chi è un operatore: tradizionalmente gli strabici, oppure quelli con un solo occhio oppure che soffrono di cataratta o sguardo fisso; questi, in modo particolare, vengono potenzialmente etichettati come “Occhiatori”, cioè coloro che sono in grado di lanciare il Malocchio.
La cultura contadina aveva messo in atto dei sistemi di contrasto preventivo contro questo male, costituiti sia da gesti che da oggetti: sono gesti particolari ed amuleti apotropaici, da contrapporre al portatore di malocchio e capaci di contrastarne l’influsso malefico. Toccare ferro, corno o secondo una vecchia usanza, poiché spesso colpiva la sfera sessuale, toccarsi i genitali, metteva al riparo dal malocchio, come bestemmiare al passaggio dello iettatore, tirar fuori velocemente la punta della lingua per tre volte, oppure fare le fiche (sas ficas – pollici delle mani tra l’indice ed il medio chiusi a pugno) di nascosto (a fura) al suo indirizzo, usanza diffusa fra gli uomini e le donne, come pure la consuetudine gestuale di sputare, documentata in Sardegna persino in un manoscritto anonimo del settecento.  Oltre ai gesti hanno avuto diffusione tutta una serie di oggetti, che nel tempo hanno acquisito valore socio-culturale, definiti “amuleti”, tutti riconducibili al contrasto del malocchio, costituiti da materiali diversi, sia poveri che ricchi (abbinati spesso a metalli preziosi), diventando così amuleti/gioielli.

Come si riconosce un soggetto colpito da malocchio? La persona colpita dal maleficio viene identificata da una serie di eventi più o meno inspiegabili e insoliti: malessere improvviso, come uno svenimento, forte mal di testa, febbre alta non giustificata da cause patologiche, cattivo umore, sindrome depressiva, tutti sintomi spesso accompagnati da ulteriori episodi negativi, quali l’abbandono improvviso degli affetti, guasti ingiustificati ai suoi beni, oggetti che si rompono da soli, piante che si seccano, animali che si ammalano. Ad innescare il malocchio è spesso lo sguardo di ammirazione verso una persona o una cosa: uno sguardo di ammirazione/invidia, una lode per un successo ottenuto, lo sguardo pieno di desiderio rivolto verso qualcosa che piace ma non ci appartiene; sono attimi durante i quali lo sguardo lanciato, volontariamente o involontariamente, può causare il Malocchio. 
Anche in questi casi esistono semplici precauzioni per evitare che il malocchio possa essere “gettato” involontariamente; se ad esempio ad una lode fatta per strada si premette l’espressione “Chi Deus du mantengada” (che Dio lo protegga), la lode si dimostrerà sincera, priva di malizia e quindi non rivolta appositamente per mascherare il Malocchio. Se per caso ci si dovesse dimenticare di recitare tale premessa, per evitare il malocchio, il lodatore deve toccare l’oggetto del complimento, spesso un neonato, esclamando “po non ti ponni ogu!” (per non metterti l’occhio). Oltre all’atto del toccare, anche lo sputo possiede una buona valenza contro il Malocchio. Il momento durante il quale bisogna stare molto attenti perché propizio per lanciare il Malocchio è la presentazione del bambino appena nato. La madre, ancora a letto, teme gli iettatori, e, per evitare l’occhio, fa toccare il bambino a tutti i visitatori, magari con la scusa di tenerlo in braccio. Se poi ha motivo di credere che qualcuno abbia posto l’occhio sul suo bimbo, non appena questo le volta le spalle sputa tre volte verso di lui per annullare la sua azione. Per evitare l’azione malevola dell’occhio, la cultura popolare ha previsto, come detto prima, tutta una serie di azioni e studiato degli oggetti (definiti per la loro forza protettiva “amuleti”), capaci – in via preventiva – di annullare l’azione negativa messa in atto. Variegata la serie degli amuleti protettivi utilizzati, così come quella delle azioni messe in atto per contrastarlo, una volta lanciato, in particolare, forse la più importante, è quella de “sa mejina de s’ogu”.
Fra gli amuleti più utilizzati quelli a forma circolare, proprio per richiamare la forma dell’occhio; essi vengono chiamati “Sabegias” nel Campidano, Cocco in Gallura, Pinnadellu nel Logudoro e ad Orgosolo, Pinnadeddu nell’Oristanese, a Desulo e nella Barbagia di Belvì, e sono costituiti da pietre rotonde incastonate in argento (l’oro darebbe un influsso ridotto), per poter essere esibite ed utilizzate come gioielli. Is Sabegias simboleggiano l’occhio buono, che assorbe il flusso negativo del malocchio: essi non possono toccare la terra e nemmeno l’acqua pena la perdita dei loro poteri;  sono generalmente costituiti da ossidiana, basalto o corallo, e, in ogni caso, devono essere di colore nero o rosso e molto appariscenti. Secondo la tradizione popolare, infatti, più è ricco e vistoso l’amuleto più aumenta la sua efficacia contro il Malocchio. Uno altro degli amuleti più popolari e conosciuti contro il Malocchio è “l’Occhio di Santa Lucia”, ovvero l’opercolo di un mollusco marino, caratterizzato dalla forma ad occhio, che si trova facilmente sulle spiagge sarde. 
A differenza dei Sabegias, gli occhi di Santa Lucia possono essere sia indossati come gioielli che tenuti nascosti. Si tratta di una pratica molto diffusa tanto da spingere alcune persone a farne addirittura collezione. Anche i Nudus, dei particolari scapolari, sono efficacemente usati contro il malocchio.
I Nudus sono costituiti da piccoli sacchetti, degli “scapolari”, che al loro interno contengono  diversi oggetti: una composizione di tre grani di sale, tre semi di asfodelo, verbena o valeriana, oppure fiori di lavanda e ruta; possono contenere anche pezzetti di palma e di ulivo benedetti, unitamente a tre grani di carbone o di basalto. Questi particolari amuleti vengono chiusi da nastri verdi: questi hanno il potere universalmente riconosciuto di annullare l’occhio e di portare bene. Gli amuleti vengono tramandati generalmente seguendo la linea femminile, oppure vengono regalati dai nonni alla nascita del nipotino; una particolarità: non possono essere venduti ma solo offerti, altrimenti perderebbero le loro facoltà protettive. In Sardegna, patria del matriarcato, anche la pratica e l’insegnamento dei rituali contro il malocchio sono riservati alle donne: con il lento passaggio delle formule dalle più anziane alle più giovani, che vengono addestrate nelle pratiche, e potranno così tramandare, alle generazioni future, i segreti per togliere il Malocchio.

Gli amuleti, come detto sono solo una parte del problema: essi sono una specie di “medicina preventiva” per contrastare il verificarsi del malocchio: ma è necessario anche provvedere ad annullarlo, il malocchio, quando questo risulta posto in essere. I rimedi a scopo “curativo” sono costituiti da tutta una serie di rituali e preghiere specifiche. La preghiera, l’invocazione ai Santi, è parte integrante di entrambe le medicine, sia preventive che curative. Se i Nudus, mezzo curativo di natura preventiva, sono anch’essi, impregnati di preghiere ed invocazioni, svolte durante la preparazione, queste sono, invece, la parte centrale nella classica preparazione de “sa mejina de s’ogu” (la medicina dell’occhio), rimedio principe per combattere i danni causati dagli strali malefici dell’occhio malvagio.
Ogni paese della Sardegna aveva in passato almeno una donna che praticava il rito de “sa mejina de s’ogu”; rito questo che veniva praticato più o meno segretamente in quanto avversato dai preti (perché lo ritenevano un rito blasfemo), ma ciò non impediva alla quasi totalità della popolazione, all’occorrenza, di farvi ricorso. Come peri Nudus, le donne che praticavano questo rito non potevano accettare dei soldi per il loro servizio, pena l’inefficacia dello stesso. In entrambi i casi, sia quando si consegnava l’amuleto sia dopo aver fatto “sa mejina de s’ogu”, essi venivano dati con la formula “ti srebada  po saludi” (ti serva per salute), e il destinatario rispondeva “Deus ti du paghidi” (Dio ti ripaghi). Se questo rituale non veniva rispettato l’efficacia dell’amuleto era nulla.

Il rito de “sa mejina de s’ogu”, che aveva diverse varianti nelle diverse zone della Sardegna, aveva però sempre – in comune - la presenza dell’acqua sulla quale, con ripetuti segni di croce sopra il recipiente che la conteneva, veniva ripetuta per tre volte una formula del tipo “Eo, abba, ti battizzo in nomine de Deus e Santu Juanne Battista” (io, acqua, ti battezzo in nome di Dio e di S. Giovanni Battista). Seguivano, da parte della celebrante il rito, la recita di formule segrete dette “oraziones” o “pregadorias” (o anche "brebos"). Nel Campidano l’uso più frequente era quello dell’utilizzo di un bicchiere d’acqua santa, oppure non benedetta ma con sciolti dentro tre grani di sale per purificarla, sostituendo cosi quella benedetta dal prete. Successivamente, dopo ogni segno di croce, venivano gettati, uno ad uno, i tre chicchi di grano nel bicchiere, facendosi tre volte il segno della croce;  se i chicchi si gonfiavano o presentavano delle bollicine (in alcuni casi contavano solo le bollicine che si formavano sulle punte dei chicchi) era il segno che era presente il malocchio sul malcapitato. In questo caso era necessario che il colpito bevesse tutta l’acqua, o la buttasse alle spalle; il malocchio poteva essere annullato anche immergendo nel bicchiere un occhio di Santa Lucia. Un’altra versione prevedeva l’uso, anziché del bicchiere d’acqua, dell’olio, che veniva versato lentamente, tracciando una croce, su un piatto o un recipiente pieno d’acqua salata: tre gocce d’olio cadevano dall’indice destro dell’esecutrice e dal comportamento delle gocce si comprendeva il grado di malocchio che aveva colpito il malcapitato. Usi e costumi, analizzati anche da importanti studiosi che visitarono l’Isola.
Il grande studioso della nostra isola, Max Leopoldo Wagner, nella sua opera "Il Malocchio e Credenze affini in Sardegna", scrisse che il malocchio poteva essere trasmesso sia da uno iettatore che da una iettatrice, ma che la qualità di iettatore è congenita, in quanto non si può acquisire. In genere uno iettatore ha gli occhi fatti a punta come per ferire...infatti  una persona colpita da malocchio, in sardo si dice che è "ferta de ogu". Chi invece, sempre secondo Wagner, è predisposto ad essere colpito dal malocchio, è di belle forme, di bel viso, con gli occhi splendidi, e perciò, quando una persona è bella in Sardegna si dice scherzando "e ita timisi, de ti pigai  ogu”?

Cari amici, la credenza dell’influsso malefico chiamato “Malocchio”, ha radici antiche, che affondano nella mitologia classica: lo sguardo delle donne dell’Illiria uccideva, nella leggenda celtica il gigante Balor poteva trasformare l’unico occhio in un’arma mortale e Medusa tramutava in pietra chiunque incontrava il suo sguardo. Nella tradizione popolare sarda questo “potere nefasto” fa parte dei diversi “malefici”, capaci di nuocere a persone o animali, influenzando spesso anche la sfera affettiva ed economica dei colpiti; questo potere malefico risulta affondare le radici nel nostro passato più remoto. I soggetti attivi, particolarmente predisposti a trasmettere questi “strali malefici”, capaci di trasferire attraverso gli occhi la carica negativa interiore, sono soprattutto preti, storpi, guerci, orbi da un occhio e le donne sospettate di stregoneria. La causa scatenante è sempre l’invidia, il desiderio o l’ammirazione invidiosa per le persone o le cose altrui; da notare che questo sentimento malevolo può essere trasmesso, da parte del soggetto predisposto, anche inconsapevolmente, col semplice atto di guardare una persona.
Cari lettori, i sardi, da tempo immemorabile, si sono cautelati contro questi eventi negativi o con gli amuleti, in via preventiva, o una volta colpiti, con diversi rituali curativi, tipo “sa mejina de s’ogu”. Di questo rito, pensate, sono state contate ben 24 varianti: tutte terapie mirate, studiate per la guarigione dal malocchio!
 Medicina efficace o solo placebo? Difficile rispondere. Le tradizioni popolari in Sardegna riescono indubbiamente a mantenere inalterato nei secoli un sapore misterioso, mistico e seducente. 

Grazie, cari amici, della Vostra attenzione.

Mario

venerdì, novembre 29, 2013

L’ARGIA, LA “VEDOVA NERA” MEDITERRANEA, NON E’ MAI SCOMPARSA DALLA SARDEGNA: E’ PRESENTE NELL’ORISTANESE, IN PARTICOLARE NELL’ISOLA DI MAL DI VENTRE.



Oristano 29 Novembre 2013

Cari amici,
una recente notizia di cronaca mi da oggi l’opportunità di parlarvi di un pericoloso aracnide da sempre presente in Sardegna: l’Argia. La notizia di cui Vi parlo  è questa: l’Argia, il ragno cugino primo della più famosa “Vedova Nera”, ben conosciuta e temuta in Sardegna, non si è del tutto estinta, come era convinzione comune, ma, anzi, prolifera in maniera eccellente in provincia di Oristano, in particolare nell'isola di Mal di Ventre, nel sottobosco alle pendici del Monte Arci e nella zona di Siscu, nelle campagne di Santa Giusta. La conferma da parte degli zoologi dell'Università di Cagliari e degli agenti del Corpo forestale della stazione di Marrubiu non lascia spazio a dubbi, e il fatto che gli stessi ne abbiano incontrato decine di esemplari non fa che confermare quanto appena detto. Tutti gli esemplari sono stati censiti e alcuni sono stati prelevati e fatti riprodurre in laboratorio.

«Le ultime ricerche erano state curate da alcuni studiosi svizzeri, che erano arrivati alla conclusione che questi artropodi in Sardegna si fossero estinti - spiega Anna Maria Deiana, direttore del dipartimento di Biologia animale dell’Università di Cagliari - I ritrovamenti ci stanno aiutando a conoscere meglio il loro stile di vita, a capire con quali altri animali si associano e come si accoppiano». Tra i cespugli di Mal di Ventre le vedove nere hanno costruito le loro tane, dentro ci passano la vita, ma qualche volta si incontrano mentre si spostano per costruire la tela, cibarsi e riprodursi. Hanno trovato casa anche nella zona di Siscu, nelle campagne di Santa Giusta, tra i cespugli secchi, in mezzo alle legnaie e sotto le pietre». «Le più pericolose sono le femmine, i maschi sono gracili e non hanno i cheliceri, gli organi usati per pungere, molto robusti - aggiunge Francesco Fois, dell’Istituto zooprofilattico sperimentale della Sardegna - Comunque non sono animali aggressivi, mordono solo quando sono in pericolo e non hanno possibilità di fuggire».
S'argia è sempre stato un temibile animale velenoso, avvolto da leggende e mille misteri: pronunciarne solo il nome, Argia, incuteva un sacro timore, tanto che questo ragno è stato l’ispiratore di un intero apparato di riti e rimedi per combatterne la presenza e gli effetti. Secondo una nostra antica leggenda, quando Dio ordinò lo sterminio degli animali velenosi per liberare le campagne della Sardegna, soltanto l’argia riuscì a sopravvivere e i contadini ne avevano un sacro timore, come se essa fosse una maledizione. Nella civiltà contadina del passato, in particolare nei racconti popolari, l’aggressività di questo temibile ragno era sicuramente considerata esagerata, anche se, in ogni caso, non possiamo dimenticare che il veleno dell’argia è quindici volte più potente di quello del serpente a sonagli!  Le più pericolose sono le femmine, i maschi sono gracili e con minori capacità di pungere; Questo ragno pur poco aggressivo è pericoloso perchè poco individuabile. Essendo, infatti, grande solo pochi millimetri, quindi poco visibile, in aperta campagna, era facile venirne a contatto ed essere quindi punti. I sardi di qualche secolo fa, considerato il timore che suscitava la sua puntura, cercavano di esorcizzare la malcapitata vittima con particolari rituali e danze tribali, come se sul questa fosse caduta una possessione demoniaca! 
Prima di portare a Vostra conoscenza le curiosità storiche ed i rituali sardi su questo temibile aracnide, vorrei prima descriverlo scientificamente questo piccolo ma terribile ragno.

La Malmignatta, o vedova nera mediterranea, detta anche ragno volterrano (Latrodectus tredecimguttatus Rossi, 1790) è un aracnide del genere Latrodectus (vedove nere) del sottordine Araneomorfi. In Italia è, assieme al Loxosceles rufescens, una delle poche specie italiane il cui morso può rivelarsi molto pericoloso per gli umani. Prende anche il nome di arza o argia in Sardegna e in Liguria, falange volterrana, bottone nell'alto Lazio e a nord di Roma. Il corpo di questo aracnide, che nella femmina può raggiungere i 15 mm, è contraddistinto dalla presenza di 13 macchie rosse. Questa colorazione, esibita a scopo di avvertimento contro i predatori, rappresenta un chiaro esempio di aposematismo nel mondo animale. È diffuso in tutto il centro e sud Italia tirrenico (Liguria, Toscana, Lazio, Campania, Basilicata, Calabria, Sicilia) è inoltre presente in Puglia e in Sardegna. Vive in tele molto resistenti e dalla forma irregolare in zone a macchia mediterranea bassa, spesso aride e pietrose, fra sassi e muretti; molto raramente lo si può trovare nelle vicinanze delle case di campagna.  
Le loro più comuni prede sono gli scarafaggi o altri tipi di artropodi, che dopo essere stati imprigionati vengono punti e risucchiati del loro liquido. Anche loro hanno dei nemici: a loro volta vengono depredate da alcuni tipi di vespe. I maschi adulti di solito vagano alla ricerca delle femmine ma solitamente non pungono. Comunque non li si vede molto spesso perché vengono mangiati dalle femmine dopo l'accoppiamento. Queste ultime depongono circa 750 uova ogni anno e le lasciano sospese alle ragnatele avvolte in un involucro che sembra carta. Normalmente solo una esigua parte riesce a vedere la luce e la loro completa crescita richiede da 2 a 4 mesi. Le femmine riescono a vivere anche 1 anno e mezzo mentre i maschi hanno vita più breve.

Il morso della femmina dell’argia, pur se meno pericoloso di quello della cugina americana (la famigerata Vedova nera - Latrodectus mactans), non è doloroso al momento ma successivamente provoca sudorazione, nausea, conati di vomito, febbre, cefalea, forti crampi addominali e nei casi più gravi perdita di sensi e talvolta morte; i casi mortali sono tuttavia veramente molto rari. Si segnalano 4 possibili episodi di morte in seguito ai morsi (due in provincia di Genova), avvenuti nel 1987. Il veleno di questo ragno resta ovviamente pericoloso per i bambini, perché la quantità iniettata va proporzionata alla corporatura e per il corpo di un bambino tale quantità può essere letale. In pericolo sono anche gli anziani, e gli adulti che siano indeboliti da malattia al momento del morso, in quanto un soggetto adulto non pienamente sano può non riuscire a salvarsi dagli effetti del veleno che anche in questi casi può essere letale. Inoltre il veleno può provocare nei soli soggetti allergici shock anafilattico, come d'altronde molte altre punture di insetti ritenuti praticamente innocui (come ad es. i vespidi).

La credenza popolare sarda considerava la persona punta dall’argia la vittima di una sorta di possessione demoniaca che richiedeva per la guarigione dei rituali particolari, dei riti magici: i Riti Argiatici. In effetti l’antica cultura sarda ha sempre cercato di inventare rimedi naturali ai mali poco conosciuti, soprattutto a causa dell’assenza di medicine adeguate. Per combattere un terribile nemico come l’argia, che a loro avviso impersonava una forza demoniaca, non bastavano certo i soliti accorgimenti umani ma si doveva ricorrere alla magia; gli effetti della puntura dell’argia potevano essere combattuti solo esorcizzando il soggetto attraverso determinati rituali, che si traducevano quasi sempre in balli e travestimenti. Dopo la puntura dell'argia, infatti, la vittima non era più la stessa persona: subiva una vera e propria possessione da parte dell'animale. L'unica speranza di salvezza era scoprire le caratteristiche dell'argia colpevole. Tutto il paese si impegnava in questa indagine, suonando e danzando per scoprire le preferenze dell'argia. Si facevano indossare al malato abiti femminili dai diversi colori per poter capire se l'argia era nubile, sposa o vedova. Si cercava anche di interrogare il malato stesso per ottenere altre informazioni. Il risultato di questo complesso rituale era una festa ricca di suoni, balli e colori. L'argia doveva essere messa allo scoperto entro tre giorni esatti: solo dopo essere stata individuata e accontentata si sarebbe allontanata e avrebbe permesso al malato di ritrovare la sua identità e la sua dignità.

Il rituale magico prevedeva che il malcapitato colpito dalla puntura dell’argia venisse messo al centro di un cortile o di un loggiato e tutto il vicinato gli ruotava intorno ballando, cercando in questo modo di interessarlo, di distrarlo dal suo dolore; solo quando si riusciva a strappargli un sorriso si poteva essere certi di averlo salvato! "Su ballu de s’argia" era accompagnato dal suono dei campanacci delle capre poiché in questo modo si riteneva fosse possibile allontanare gli spiriti maligni; in casi estremi, quando la situazione sembrava essere critica, in qualche paese usavano persino infilare il malato dentro un forno riscaldato. Lo avvolgevano in fasce calde e lo tenevano per almeno dieci minuti, fino a quando i più esperti non ne diagnosticavano la guarigione. Esistevano, ovviamente, anche altri accorgimenti: nel sassarese l'infortunato veniva avvolto in un sacco e seppellito fino al collo nel letame.

Oggi, malgrado la notizia riportata in apertura, l’argia fa sicuramente meno paura di ieri e questi rituali sono soltanto un antico ricordo che è confluito in tradizionali feste e balli di paese, molto seguite dai turisti e con una forte partecipazione emotiva, segno che il ricordo è comunque ancora vivo e la paura ha sempre bisogno di essere in qualche modo esorcizzata. I rimedi di oggi sono più semplici ed efficaci: in caso di puntura, dopo aver lavato bene la parte colpita applicare del ghiaccio e rivolgersi immediatamente ad un centro specializzato. Quando si lavora in campagna o in ogni caso si opera intorno a zone nelle quali si possono trovare questi micidiali ragni occorre prendere ogni tipo di precauzione indossando indumenti specifici. Tenere anche presente che questi aracnidi sono ormai resistenti a molti insetticidi.
Cari amici, oggi il pericolo dell’argia ci angoscia meno di ieri: altre “punture” ci preoccupano molto di più! Senza entrare nei dettagli parlo delle punture causate dalle “grosse siringhe” che ogni giorno ci prelevano il sangue con tasse esagerate e ruberie di ogni tipo, senza dimenticare i tanti giovani, ancora forzatamente parcheggiati in casa, che a causa dell’assenza di lavoro e di serie politiche per l’occupazione, anziché essere messi in grado di produrre ricchezza sono costretti a consumarla.
Grazie dell’attenzione.
Mario

giovedì, novembre 28, 2013

APPROVATA, CON MAGGIORANZA RISICATA, LA LEGGE DI STABILITA’ AL SENATO. CREDO CHE PER I GIOVANI CHE CERCANO LAVORO, ANCHE CON QUESTA LEGGE, LE COSE CAMBIERANNO POCO! SENZA IL CORAGGIO DI “INNOVARE” , NON SI TROVERA’ LA STRADA CHE APPARENTEMENTE TUTTI CERCHIAMO.



Oristano 28 Novembre 2013
Cari amici,
a promettere e “far finta di provarci”  sono stati bravi tutti: l’ultimo governo Berlusconi, che con grandi fanfare aveva promesso almeno un milione di posti di lavoro, il successivo governo Monti, che, pur con una solenne “ulteriore spremitura” dei soliti italiani che da sempre pagano le tasse (quelli che non le pagavano ieri non le pagano oggi e sarà difficile che le pagheranno anche domani), aveva  promesso soluzioni che avrebbero ampiamente dato lavoro ai giovani, e ci prova pure l’attuale governo Letta, che fin dal primo giorno di governo disse che la priorità era quella di far lavorare i giovani, unica via da dove può passare la vera ripresa che tutti aspettano.

L’ultimo atto di questo governo, il “Documento di Programmazione Economica”, meglio noto anche come Legge di Stabilità, pur con mille paroloni non garantisce quella ripresa tanto sbandierata (che il governo non può fare direttamente ma solo incentivando, con appropriati provvedimenti, le aziende che creano i posti di lavoro). Le parole non hanno mai dato ne pane ne lavoro: ci vogliono i fatti – a seguire –, quei provvedimenti che creano strutture aziendali produttive. Lo Stato si dovrebbe muovere come una grande famiglia, e proprio come questa dovrebbe operare: come una famiglia saggia e risparmiosa, dove tutti diano il proprio contributo, consentendo così di affrontare anche i momenti di maggiore difficoltà senza traumi. Nelle antiche famiglie patriarcali, oltre il capofamiglia, tutti davano il proprio contributo: lo stesso discorso vale per lo Stato, che deve garantire, come un buon padre di famiglia, innanzitutto la possibilità di lavoro a tutti, perché tutti hanno diritto ad una vita dignitosa, possibilmente senza pesare sugli altri. In questo momento difficile, senza provvedimenti anche molto dolorosi, che debbono partire proprio da quella “spending review” che dovrebbe – sul serio – tagliare tutte quelle spese improduttive, eliminare tutti quei “parassiti” che vivono a spese della Comunità, per proseguire poi con una lotta più ferma e forte all’evasione, per finire con misure drastiche contro la corruzione imperante in tutti i livelli della pubblica amministrazione.


Far riprendere fiato a questo nostro Paese non sarà facile, se non garantiamo lavoro ai giovani (ce ne sono tanti seri e capaci), se non troviamo loro una collocazione lavorativa nella nostra nazione. Lo vediamo e tocchiamo con mano tutti i giorni: i cervelli migliori emigrano, portano sapere e innovazione all’estero, dove sono accolti e apprezzati. Un Paese incapace di innovare e di utilizzare i giovani migliori, è un Paese senza futuro.

Ricerca e Innovazione, questi sono questi gli strumenti chiave che consentirebbero la ripresa e la crescita, strumenti che le aziende, opportunamente supportate e incentivate, potrebbero mettere sul campo ed in grado di fare la differenza, ma in Italia così non è! Il Presidente di Confindustria Squinzi ha fatto ai politici una serie di proposte (non sono tante sono solo 5), indispensabili per uscire dal guado, per cercare di far ripartire l’Italia: Semplificazione, taglio «drastico» dei costi per le imprese, pagamento al più presto di tutti i debiti della p.a., mercato del lavoro «meno vischioso ed inefficiente», detassazione degli investimenti in ricerca e innovazione. Questo il manifesto di Confindustria per il rilancio economico, industriale e sociale del Paese. Le proposte partono da una realtà che non ammette più ritardi: l’industria manifatturiera italiana è un malato grave.
Il recente studio fatto dal Centro Studi di Confindustria traccia un quadro preoccupante sulla nostra industria manifatturiera. La crisi, in circa sei anni, «ha causato la distruzione» di una buona fetta «del potenziale manifatturiero italiano», pari a circa il 15%. Il settore «è in condizioni molto critiche» anche se il Paese ha ancora «ottime carte da giocare». Dal 2007 al 2012 poco meno di 540 mila persone impiegate nel manifatturiero hanno perso il posto di lavoro. In quattro anni, dal 2009 al 2012, in Italia hanno cessato l’attività 54.474 aziende del settore, il 19,3% del totale. Dal 2007, anno della prima delle due recessioni che si sono abbattute sul Paese, il numero totale delle imprese manifatturiere è diminuito di oltre 32mila unità. Le più colpite sono state le P.M.I. A causa della crisi ogni giorno chiudono 40 imprese, avverte il vice presidente Confindustria per il Centro Studi, Fulvio Conti. Sono dati che non abbisognano di commenti.
«Il Paese deve agire perché non può perdere il treno della ripresa. Abbiamo fatto cose straordinarie in questo dopoguerra e non possiamo arretrare», sostiene il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi. Tra i capitoli su cui agire in fretta, cita quello dei giovani. «I loro problemi sono i problemi del Paese, l’ultimo dato sulla disoccupazione è agghiacciante e inconcepibile», conclude.

Se l’Italia è malata la Sardegna pare addirittura in coma. Il tasso di disoccupazione giovanile in Sardegna è più alto che in tutte le altre regioni e tocca il 44,7 per cento, contro la media nazionale che è del 25. L’unico dato certo (però di valenza assistenziale) rispetto all’occupazione, sono gli oltre 140 mila lavoratori che a diverso titolo beneficiano di ammortizzatori sociali, di cui oltre 30 mila in deroga, su richiesta di oltre 2000 aziende in crisi! Una realtà che senza mezzi termini fa dire che in Sardegna lavora solamente un giovane su due.  Non si vedono, neanche lontanamente, significativi segnali di ripresa: la crisi è generalizzata in tutti i territori come testimoniano le vertenze sindacali aperte con Palazzo Chigi, Regione  ed Enti locali.  Il dramma vero, il dramma nel dramma, è, però, il fenomeno dello “scoraggiamento”. 
In Sardegna  ci sono 456 mila persone in età lavorativa che non lavorano, cercano lavoro  non attivamente, non cercano ma sono disponibili a lavorare; ecco il vero dramma  sta in questo lasciarsi andare, in questo arrendersi senza voler continuare a combattere. Questo è il dato davvero agghiacciante!
Cosa comporti tutto questo per la nostra fragile economia sarda è facile da capire ma difficile da contrastare. Senza una seria politica di “ricostruzione” non ce la potremo mai fare. Solo “insieme”, Stato (che significa anche Europa), Regione, Imprenditori e lavoratori possono, “remando insieme” verso un unico obiettivo, uscire dal guado e superare una crisi che sembra senza fine. Col concorso di tutti, nessuno escluso.

Grazie dell’attenzione.
Mario