venerdì, gennaio 31, 2020

SARDEGNA, ISOLA DOVE LA NATURA È UN VERO PARADISO! RITA E MASSIMO IN MONTAGNA A FONNI, AMMALIATI DA MONTI, FLORA E FAUNA.


ORISTANO 31 gennaio 2020

Cari amici,

L’ultimo post di questo mese lo voglio dedicare a due amici straordinari: Rita Piredda e Massimo Sanna, naturalisti con la Sardegna nel cuore! Si, la nostra Sardegna è tutta bella, meravigliosa, unica! Ma l’interno, il Supramonte, le sue montagne, sono oasi di assoluta libertà, dove l’uomo riesce a tornare indietro nel tempo: ad immaginare come poteva essere ieri il Paradiso terrestre! Montagne che possono essere definite “Il Tempio della LIBERTÀ”, come sostengono con convinzione i miei cari amici Rita e Massimo, che per essere più vicini a questo straordinario mondo hanno deciso di avere un punto di riferimento abitativo a Fonni, il paese sardo posto a oltre mille metri d’altezza.
Questo luogo (che io ben conosco per averci vissuto e lavorato per circa 3 anni) è così amato dai miei due amici da essere definito: Home sweet home”, ovvero la loro vera, dolce casa. In realtà non hanno tutti i torti, perché Fonni è posto in una stupenda località tutta da vivere; insomma, come sostengono ancora Rita e Massimo, Fonni è un “lucente Rifugio” per due Naturalisti come loro! Un rifugio che loro considerano non solo romantica dimora, ma capace di creare in loro una specie di “rigenerazione”, di disintossicazione dall’alienante stress dei grandi centri.
Una dimora, come la definisce Rita, “sicuro rifugio nel fuggente tempo, genuinamente ludicamente forgiata con festoso calore, solerte ottimismo e armonica semplicità”! Rita alla sua ormai proverbiale dote di naturalista abbina quella di scrittrice e poeta, e dopo le escursioni fatte con Massimo, si cimenta a raccontar poeticamente quanto gli occhi hanno potuto godere e apprezzare; Ella definisce questa natura selvaggia un “Natural Goder…, ove …il sensibil Cuor impera incontrastato, supremo padrone”.
Che la montagna possa scatenare la vena poetica è certamente vero, in quanto una vetta, un irto sentiero, un angolino riparato e coperto di fiori, dà a chi è presente un anelito di sfolgorante Libertà! Libertà di sentire la fresca brezza profumata, ascoltare il canto degli uccelli o il belato di un agnello che cerca la mamma, percorrendo sentieri invitanti e godendo di panorami straordinari e mozzafiato!
Questa cari amici è la nostra Sardegna che ancora oggi è così bella, godibile, unica, che noi dovremmo certamente apprezzare ben di più di come facciamo, ringraziando il Signore per questo dono meraviglioso, che potrebbe anche regalarci maggior reddito, occupazione, e fama. Con la natura intatta, ancora regina, godiamo di questo mondo che appare quasi una nicchia particolare, praticamente rara e forse unica, che noi potremo utilizzare al meglio, preservandola per poterla trasmettere alle nuove generazioni.
Rita e Massimo nel loro amoroso “Nido” di Fonni, da loro definito “un malioso nido, un celeste, inaspettato focolare”, capace di creare e ricreare gioia e serenità attraverso un qualsivoglia elemento, fotogramma o tratto pittorico, sono felici di fare quella vita da tanti desiderata e sognata.

Cari amici, una delle ultime escursioni fatte da Massimo e Rita, potete vederla dalle immagini da loro scattate e che sono disponibili per tutti Voi se siete curiosi nel sito fotonaturali.it. Sono immagini di “VITA vissuta in NATURA”, vita che tutti dobbiamo come detto preservare, altrimenti le nuove generazioni potranno conoscerla domani solo attraverso documenti da museo. Oggi, invece possiamo godere di un museo vivo, un “Museo della Naturalezza”!
Nelle straordinarie foto scattate da Rita e Massimo, potete vedere, per esempio, un’Amica Mucca che fa il “CAR WASH”, ovvero intenta, saporosamente, a rimuover dalla loro autovettura il sale antighiaccio, oppure il bellissimo safari fotografico sul muflone, che nel Supramonte vive squisitamente in libertà, anche se non è un’impresa facile catturare l’immagine della loro normale vita quotidiana (ci vuole un’esperienza pluriennale sul campo e un’intensa e passione), senza turbarli o infastidirli, mentre percorrono e si cibano nei loro territori.

Bisogna essere atleti leggeri come farfalle, muovendosi in modo felpato, come a caccia, anche se fotografica! Per farlo è necessario avere una perfetta e approfondita conoscenza dei luoghi, una spiccata o acuta intuizione, restando in perfetta sintonia con la natura circostante. Volontà, impegno a dismisura e spirito di avventura, sono le doti necessarie per percorrere arditamente sentieri talora inaccessibili o impervi, pronti sempre a cimentarsi con il gelo, il vento, il caldo o la pioggia, munendosi sempre dell’abbigliamento o equipaggiamento adeguato.
Con questi accorgimenti si possono fare foto eccezionali anche senza l’ausilio di capanni o treppiede, impavidi di fronte alle avversità, perché non dimentichiamo mai che gli animali in quell’ambiente non prevedono la presenza dell’uomo, che essi temono, in quanto essi vivono la loro vita in modo totalmente LIBERO! Un consiglio di Rita e Massimo? Vivete la natura in modo spontaneo, senza mai turbare l’ambiente, e se fate i fotografi naturalisti, una semplice raccomandazione: Emozionatevi per fare emozionare gli altri!
Grazie Rita, grazie Massimo della Vostra dedizione alla natura, parte di quel “Paradiso Terrestre”, che il Buon Dio ci ha donato!
A domani.
Mario

giovedì, gennaio 30, 2020

LA PRIMA PIANTAGIONE DI CAFFÈ “MADE IN ITALY” È SICILIANA! LA STRAORDINARIA TRASFORMAZIONE AGRARIA NELLA TRINACRIA: DALLE ARANCE AL CAFFÈ.


Oristano 30 gennaio 2020

Cari amici,

Già in passato si era tentato di coltivare il caffè in Sicilia. Nel 1912 il botanico Vincenzo Riccobono, in un articolo sul “Bullettino della Regia Società Toscana di Agricoltura” così evidenziava possibilità e criticità della coltura della preziosa pianta in Sicilia: “Il Direttore del Regio Orto Botanico di Palermo, nella possibilità di poter coltivare in Sicilia piante utili di regioni tropicali, ha sempre insistito sulla coltura del Caffè. Sebbene questa non abbia dato finora alcun affidamento di riuscita, non è escluso che si possa tentarne con speciali cure la coltura; o meglio trovare qualche ibrido che possa essere resistente al freddo”. E oggi si può dire che il miracolo è finalmente avvenuto.
È una bella storia quella che di recente ha raccontato il giornale Agro-Notizie. È la storia di un’azienda agricola di Terrasini, chiamata “L’orto di nonno Nino”, che, seppure nel rispetto della tradizione, ha deciso di puntare sull’innovazione. Rosolino Palazzolo, 40 anni, che, con il fratello Benedetto ha preso in mano le redini dell’azienda di famiglia, ha introdotto variazioni sostanziali nella precedente cultura millenaria: al posto delle arance (ormai poco redditizie) ha messo a dimora frutti tropicali: papaya, mango, avocado, banane, ma anche frutti della passione, guava, pitoya, carambole e altre varietà esotiche. Oggi l’azienda vanta 1.200 piante di papaya e 400 di banane che, grazie al clima, crescono in serre non riscaldate, e senza trattamenti che non siano naturali. 
Ebbene, in questa azienda dall’anno scorso si è aggiunta anche la coltivazione del caffè, che ha già dato buoni risultati, tanto da far pensare ad un possibile “mercato di nicchia”. Ciò per una semplice considerazione: il caffè più pregiato del mondo, il Kopi Luwak, è prodotto in Indonesia in quantità molto limitate (50 kg l’anno) e viene venduto a circa 500 euro al kg! Chi lo dice che il Caffè coltivato in Sicilia, possibilmente anche in quantitativi superiori al celebre Kopi Luwak, non debba trovare un’importante nicchia di mercato? Intanto le prima tazze di caffè prodotto con le piante coltivate in Sicilia iniziano ad essere gustate e a quanto pare con buona soddisfazione. 
Rosolino Palazzolo, a chi curiosamente gli chiede i motivi della trasformazione, risponde: “La nostra è un’azienda che ha deciso di cambiare: da ormai dieci anni produciamo frutti esotici in serra; avevamo anche alcune piante di caffè per motivi ornamentali, che però non producevano frutti a causa del clima locale, troppo freddo d’inverno. Tutti mi dicevano che era impossibile coltivare caffè in Sicilia e io ho deciso di dimostrare a tutti che si sbagliavano”.
“Certo non è stata una passeggiata - conferma Rosolino - ma ad essere caparbi si può vincere la sfida.  La pianta del Caffè ha bisogno di un clima caldo e umido, e, per certi versi, la Sicilia potrebbe anche andare bene, anche se l’inverno è troppo freddo e non permette la maturazione dei frutti. Da qui l’idea di provare la coltura del Caffè in serra, controllando la temperatura e l’umidità. Le prove in serra fredda hanno dimostrato che era la via giusta: abbiamo avuto sei fioriture nell’arco di un mese e mezzo, a partire da inizio aprile; la maturazione dei frutti ha impiegato quasi un anno e nel marzo del 2018 abbiamo raccolto, torrefatto e assaggiato, il primo caffè”.
Insomma, il primo caffè siciliano è realtà, grazie a Rosolino Palazzolo che è riuscito a portarlo in tazzina grazie alla collaborazione di Isidoro Stellino, la cui famiglia è titolare, da generazioni, di un’azienda di torrefazione locale. “La sfida sembra essere stata vinta – si legge su Agri-Notizie -, i primi chicchi sono stati macinati e con la polvere ottenuta si sono preparati i primi caffè 100 per cento siciliani, il cui sapore, a detta degli assaggiatori, è risultato eccellente”
La pianta del Caffè non richiede cure agronomiche particolari: non ci sono problemi di fertilizzazione e non presenta criticità dovute alla presenza di insetti o di fitopatologie. Com’era prevedibile le produzioni, in questa prima fase, sono state molto limitate, ma l’avvio è stato positivo. Il progetto è in crescita e l’azienda agricola L’orto di nonno Nino ha piantato oltre 400 piante di Caffè nella serra nella quale si coltivano le banane. “Il caffè non ama la luce diretta del sole, almeno alle nostre latitudini – dice sempre Rosolino Palazzolo -; è un arbusto di 2-2,5 metri che si trova a suo agio nel sottobosco, con luce non diretta e alta umidità. Per questo abbiamo deciso di consociarlo al banano”.
I costi di produzione del Caffè siciliano, pur non essendo elevati, non sono certo concorrenziali con i costi di produzione del Brasile, del Vietnam, della Colombia e dell’Indonesia, che sono i Paesi primi produttori al mondo di caffè. Del resto, la Sicilia non può certo concorrere con realtà dove la pianta di Caffè cresce in pieno campo e offre più raccolti all’anno grazie al clima favorevole. Però – e questa è la grande scommessa – esiste un segmento di mercato che ama i cibi esotici a Km zero, possibilmente coltivati in biologico. Ed è su questa particolare nicchia che potrebbe puntare l’azienda agricola di Terrasini. Il prezzo del caffè siciliano sarà sicuramente elevato, ma potrebbe trovare estimatori.
Cari amici, che il mondo del prossimo futuro sia fatto in particolare di continua innovazione è sicuro! Sarà così anche per il caffè siciliano? Chi lo sa! Magari sarà possibile effettuare un miglioramento genetico: la possibile selezione, nel corso degli anni, di piante di Caffè che potrebbero ambientarsi nel clima siciliano ed essere coltivate anche in pieno campo. Insomma la Sicilia marcia spedita verso il futuro: dall’isola delle arance potrebbe diventare l’isola del caffe!
A domani.
Mario

mercoledì, gennaio 29, 2020

UNA MOSTRA PER NON DIMENTICARE! AL MUSEO DIOCESANO, "BREAKING FREE, VOCI E STORIE DEI BAMBINI NATI DALLA GUERRA".


Oristano 29 gennaio 2020

Cari amici,

Presso il Museo Diocesano Arborense lunedì 27 gennaio alle ore 18.00, in occasione della Giornata della Memoria, si è inaugurata la mostra “Breaking Free. Voci e storie dei bambini nati dalla guerra”, realizzata dell’artista franco-siriano Sakher Almonem. Organizzata in collaborazione con il Comune di Seneghe e l’Istituto d’Istruzione Superiore S.A. De Castro e con il patrocinio della Prefettura di Oristano, la mostra espositiva intendeva raccontare, attraverso le immagini, le terribili storie dei bambini e delle loro madri, vittime di violenza, durante il conflitto balcanico.
Una guerra tragica, che, oltre i danni diretti sofferti, continua manifestare ancora oggi conseguenze nefaste, in quanto le donne violentate e i bambini figli di questi stupri, vivono in Bosnia Erzegovina in condizioni di grande vulnerabilità sociale, doppiamente vittime del loro terribile passato; continuano infatti ad essere discriminate, perché i pregiudizi non muoiono. Sono donne senza un futuro, rifiutate socialmente con i loro bambini incolpevoli, private di un futuro di serenità e di quella dignità e accettazione sociale a cui avrebbero diritto.
La mostra di Sakher Almonem, prodotta da Iscos Emilia-Romagna e Forgotten children of War, ha raggiunto Oristano dopo essere stata esposta a Sarajevo, Vienna e Reggio Emilia, per poi riprendere il suo cammino e proseguire il suo tour in Europa. 
All’interno della mostra oristanese anche l’opera dell’artista Sabrina Oppo, Eroma, 2015, composta da leggeri fogli bianchi di carta dattilografica con impressi, in ciascuno, il nome di una donna, la sua età, la sua causa di morte violenta; un’opera capace, nella sua semplice nudità, di ricordare le vittime di ieri, di oggi e di domani. Inoltre, per commemorare la Shoah, nella sala San Pio X del Museo, è stata esposta un’opera di Mauro Staccioli, Olocausto (1962). L’opera sottolinea ai visitatori l’importanza della Memoria, monito per le generazioni future, affinché sia una eredità condivisa da tutti.
La serata è stata ampiamente partecipata dal pubblico, e, in particolare, animata dagli studenti del Liceo Classico S.A. De Castro con il reading “Ricordare: mettere di nuovo qualcosa dentro al cuore”. In prima fila il Prefetto Dr. Gennaro Capo, il Questore Dr.ssa Giusy Stellino, il Comandante provinciale dei Carabinieri Col. Domenico Cristaldi, il Comandante dei Vigili del fuoco Luca Manselli, il Preside del Liceo De castro Pino Tilocca, il Sindaco di Oristano Andrea Lutzu, il V. Sindaco Massimiliano Sanna, il Sindaco di Seneghe Gianni Oggianu, e altre autorità istituzionali. 
All’alternarsi delle letture fatte dai ragazzi, hanno fatto seguito la testimonianza di Ajna Jusic, Presidente dell'Associazione Forgotten children of war, che ha ricordato le conseguenze meno visibili del conflitto balcanico, mentre il critico e storico dell’arte Ivo Serafino Fenu, è intervenuto per parlare dell’artista realizzatore delle opere.
“Questa mostra ha un’importanza speciale per noi, bambini nati dalla guerra – ha sottolineato Ajna Jusic, la giovane attivista che da 4 anni guida l’associazione Forgotten Children of War per riconoscere i diritti dei bambini nati a causa dei conflitti – Questa è la prima volta che alcuni dei nostri membri parlano apertamente della loro storia, mostrando il loro volto dopo una vita vissuta nell’ombra e nelle discriminazioni. Allo stesso tempo, questo mostra la forza dei bambini nati a causa della guerra, che hanno deciso di affrontare la Comunità e compiere un passo in avanti verso una società equa e non discriminante, che vada al di là dell’invisibilità legale e sociale. Ciò che noi consideriamo davvero importante e significativo di questa mostra, è che le nostre madri, comprese le donne che sono sopravvissute agli stupri durante la guerra, parleranno ad alta voce e invieranno, insieme ai bambini nati a causa della guerra, un messaggio comune per una società di eguali valori e non una società delle discriminazioni”.














Oltre a Ajna Jusic, già testimone il 25 novembre scorso alle Nazioni Unite a New York in occasione della celebrazione della giornata internazionale contro la violenza alle donne, hanno portato la loro testimonianza anche Mirna Omercausevic, dell’Associazione Forgotten children of war, Elma Hodzic, curatrice del Museo di Storia della Bosnia Erzegovina e Marina Pregernik, psicologa presso la Katolicki Scolski Centar “Sv, Josip” di Sarajevo (una scuola cattolica che ospita diverse etnie e religioni che convivono in armonia).














Negli intervalli tra un reading e l’altro, il gruppo musicale degli studenti del De Castro ha eseguito dei brani musicali che hanno avuto il merito di rendere la giusta atmosfera; in particolare la flautista Eleonora Padovan ha eseguito dei pezzi straordinariamente efficaci e commoventi, molto applauditi dal pubblico.    
La mostra sarà visitabile fino al 23 marzo 2020: il giovedì e il venerdì dalle 17 alle 20, il sabato e la domenica dalle 10 alle 13 e dalle 17 alle 20.
Facciamo conoscere ai giovani la storia, perché le guerre e le violenze del passato non abbiano a ripetersi.
A domani.
Mario



martedì, gennaio 28, 2020

RIPARTONO LE CONFERENZE DEGLI “AMICI DEL ROMANICO" AL MUSEO DIOCESANO. IL PROGRAMMA È RIPRESO IL 24 GENNAIO.


Oristano 28 gennaio 2020

Cari amici,

Hanno preso il via anche quest’anno le interessanti conferenze organizzate da “Itinera Romanica”, l’associazione Amici del Romanico, guidata dal presidente, il sindaco di S. Giusta, Antonello Figus. Quest’anno il nutrito programma è dedicato in particolare alle straordinarie donne sarde del Medioevo, vere “protagoniste” di quel periodo storico. Come negli anni scorsi le conferenze si svolgeranno al Museo diocesano di Oristano. 
Si è partiti venerdì 24 gennaio mettendo a fuoco una figura enigmatica, quella di Benedetta di Cagliari, detta anche Benedetta di Massa (Santa Igia, 1194 – Massa, 1233), che fu giudicessa regnante di Cagliari dal 1214 al 1233. A presentarla in modo preciso ed eccellente la professoressa Rossana Martorelli, la cui relazione, dal titolo “Atti e misfatti di Benedetta, giudicessa di Cagliari”, ha entusiasmato non poco il numeroso pubblico presente. 
A questa prima conferenza seguiranno le diverse altre in programma; da quella di venerdì, 31 gennaio, con la relazione di Valeria Carta su un’altra donna importante: Adelasia di Torres, che porta, per titolo, “Un’effimera regina di Sardegna. Storia di Adelasia, giudicessa di Torres”.
Nel prossimo mese di febbraio sono previste ben 3 conferenze: la prima venerdì 7, dedicata a “Eleonora, giudicessa di Arborea e il suo tempo, tra immaginario e realtà”. Tre i relatori: Francesca Carrada, Giovanni Serrelli e Gabriella Uccheddu. Venerdì, 14 febbraio Nicoletta Usai nella sua conferenza parlerà di: “Timbors di Rocabertì e Sibilla de Montcada. Nobili della Sardegna del Trecento”. L’ultimo appuntamento, quello di venerdì 28 febbraio, invece, vedrà protagonista “Massimilla, Badessa di San Pietro di Silki”, raccontata da Giovanni Strinna.
Cari amici, è indubbiamente eccellente il lavoro che continua a svolgere l’associazione Amici del Romanico, nell’intento di far conoscere nel modo migliore possibile la nostra antica storia, che, tra l’altro, ha avuto proprio ad Oristano, allora Giudicato d’Arborea, esponenti di altissimo livello, in particolare al femminile. Da notare anche che, oltre le conferenze, l’associazione organizza dei tour per andare a vedere e toccare con mano i meravigliosi monumenti realizzati in quel periodo. Ma vediamo ora insieme la figura della protagonista della prima conferenza: Benedetta di Cagliari. 
Benedetta di Cagliari fu giudicessa regnante di Cagliari (1214-1233). Era la primogenita del giudice Guglielmo I Salusio IV di Lacon-Massa e di Adelaide Malaspina. Fu la seconda donna, dopo Elena di Gallura, ad occupare un trono sardo per proprio diritto, ed una delle prime in Europa. Nel 1214, all'età di vent'anni, prestò giuramento nelle mani dell'arcivescovo Ricco di Cagliari, alla presenza dei nobili maggiori e dei prelati, assicurando di non diminuire i territori del giudicato, di non alienare nessun castello e di non stringere alleanze senza il loro consenso. 
Andò in sposa a Barisone II d’Arborea, figlio del giudice Pietro I di Arborea, che era stato in precedenza imprigionato dal padre. Egli prese il nome dinastico di "Torchitorio IV" ed i due coniugi governarono congiuntamente i rispettivi regni, venendo entrambi citati nei corrispettivi atti giudicali. Benedetta, infine, fece omaggio di vassallaggio alla Santa Sede.
Con l'arcivescovo Ricco, il vescovo sulcitano ed il marito, fece numerose donazioni alle chiese di San Giorgio di Suelle e del Sulcis; ben disposta verso i suoi sudditi non li aggravò di pesanti oneri, favorendo anche l'economia locale a discapito dei pisani, attirandosi perciò, già nel 1215, l'ostilità della repubblica di Pisa. Nello stesso anno 1215, Lamberto Visconti, giudice del Giudicato di Gallura, approfittando della debolezza di Benedetta, riunì una grande flotta e sbarcò a Cagliari, occupando col suo esercito la collina di Santa Gilla, che dominava la città e la fortificò. Quindi lasciò al fratello Ubaldo I il compito di conquistare il resto del territorio. La giudicessa fu quindi costretta a fuggire dalla sua "capitale" e rifugiarsi nell'interno del giudicato.
Nel 1216 Benedetta fece una donazione alla cattedrale di Pisa, nella speranza di guadagnare l'appoggio della città, ma nel 1217 Ubaldo I la costrinse a trattare. Di conseguenza la signora dovette accettare che il giudicato divenisse vassallo della Repubblica di Pisa. A Cagliari però scoppiarono dei tumulti tra i sardi ed i pisani, perciò Benedetta e il suo consorte, si allearono con il giudice Comita III di Torres e con la repubblica di Genova nella speranza di eliminare l'influenza pisana.
Per rafforzare la sua opposizione a Pisa, Benedetta ottenne aiuto dal papa Onorio III, il quale nel 1217 annullò la nomina del pisano Mariano ad arcivescovo di Cagliari, e lo sostituì con Ugolino di Anagni, cardinale vescovo di Ostia e legato apostolico in Corsica e Sardegna. Inoltre riuscì a convincere a sostenere Benedetta anche i Visconti di Milano ed il giudice Mariano II di Torres. In quella stessa primavera però morì il marito di Benedetta, Barisone, e nel 1218 Ubaldo I combinò il secondo matrimonio della giudicessa con suo fratello Lamberto (rimasto anch'egli vedovo di Elena di Gallura) nella speranza di concludere la pace. I due si sposarono nel 1220, ma il Papa invalidò immediatamente le nozze.
Nel dicembre 1224 Benedetta rinnovò il suo omaggio alla Santa Sede tramite il legato Goffredo, accettando di corrispondere un tributo annuale di venti libbre di argento e di non risposarsi ancora senza il consenso papale. Inoltre, se fosse morta senza eredi, il suo giudicato sarebbe stato ereditato dalla Chiesa. Il 1225 e 1226 furono anni pacifici e Benedetta coinvolse suo figlio Guglielmo II di Cagliari in numerose donazioni a varie chiese. Ma in seguito riprese la guerra con Ubaldo Visconti di Gallura erede di Lamberto.
Nel tentativo di proteggersi dalle mire di Ubaldo, Benedetta si risposò altre due volte, e sempre senza l'assenso pontificio. Il suo terzo marito fu Enrico di Ceola, un pisano della nobile famiglia dei Capraia, che seppe guadagnarsi il favore del Papa. Il quarto marito fu Rinaldo de Glandis e la loro unione alla fine fu ritenuta conforme alla norma. Nonostante questi tentativi però, la violenza scoppiò nuovamente a Cagliari e la giudicessa fu costretta a rifugiarsi prima nel castello di Santa Igia e poi a Massa, terra d'origine dei suoi avi, dove morì nel 1233 ancora abbastanza giovane: aveva trentanove anni.
Amici, Indubbiamente una donna straordinaria, protagonista di vicende sotto certi aspetti anche romanzesche! Ecco, ora date uno sguardo al calendario delle prossime conferenze prima evidenziato.
A domani.
Mario
Il pubblico alla conferenza del 24 gennaio al Museo Diocesano

lunedì, gennaio 27, 2020

CIVILTÀ NURAGICA: A SUNI IL NURAGHE NURADDEO E' UN ESEMPIO DELLE ALTE CAPACITÀ COSTRUTTIVE DEI NOSTRI ANTENATI: ERA ISOLATO CON DEL SUGHERO.


Oristano 27 gennaio 2020

Cari amici,

Il nuraghe Nuraddeo, è uno dei nuraghi meglio conservati della nostra isola; posto tra il Montiferru e il mare della nostra costa occidentale, oltre la torre centrale ha intorno anche tre torri laterali. Il complesso nuragico si trova nel Comune di Suni (Oristano) e domina l’altopiano di Pedrasenta, che ha un’altezza di 335 metri slm. Seppure in parte interrato, svetta ancora oggi maestoso sul suggestivo paesaggio circostante, con il mare da una parte e il Montiferru dall’altra con in mezzo la vallata del fiume Temo.
Sicuramente un complesso nuragico importante, come confermano studi recenti, che fanno ritenere che fosse una struttura capofila, al centro d’un gruppo di altri nuraghi, di cui il più vicino è il Nuraghe Assi (o Nuragassi), in direzione Nord-Est. I nuraghi a tholos, ma trilobati come il Nuraddeo, presentano una struttura complessa. Il nuraghe trilobato in realtà rappresenta un’evoluzione del nuraghe monotorre a tholos. Costruiti a sezione ogivale da una serie più o meno ordinata di cerchi di pietra del diametro progressivamente minore che si reggono da soli, sono privi di copertura, non esistendo all’apice una “chiave di volta”; è la volta stessa che, dopo l’ultimo ristrettissimo cerchio di pietre è chiusa da una lastra di pietra piatta.
L’ingresso del Nuraghe Nuraddeo si trova stretto tra il mastio centrale e le due torri marginali di facciata dove si trova il cortile. Il mastio misura all’esterno circa 14 m d’altezza residua su 27 filari in evidenza, costituiti da blocchi di basalto di forme poliedriche e sub-squadrate, di media grandezza, che vanno rimpicciolendosi nelle file alte dove anche si presentano di taglio più regolare, in pezzi a sagoma di cuneo. La circonferenza è di 29 m misurata circa all’altezza del primo piano.
La torre principale si conserva per circa 12 metri ed è realizzata con blocchi di basalto; in questo nuraghe si ha un cambio originale di inclinazione della parete che, nella parte alta, diventa verticale. Di questa struttura complessa, le tre torri risultano ancora in gran parte interrate; sono a pianta circolare (hanno una camera centrale) e risultano unite da un‘imponente cortina muraria realizzata con grandi blocchi di basalto, ancora visibili in alcuni tratti. Tutto intorno al nuraghe vi sono resti di muri che potrebbero appartenere a delle capanne. Gli scavi hanno messo in luce ceramiche di età nuragica e romana a confermare che la fortezza sia stata usata per diversi secoli.
È durante gli studi più recenti che gli scavi hanno messo in luce la presenza di frammenti di sughero disposti lungo le pareti, cosa che ha fatto pensare ad un possibile isolamento termico. Curioso e allo stesso eccezionale questo ritrovamento, che dà l’idea della competenza e delle capacità di un popolo mai studiato nella sua interezza, e da tanti ritenuto poco acculturato. Se l’ipotesi ora fatta sarà confermata dall’esame del carbonio-14, questo ritrovamento verrebbe a confermare l’ipotesi che i nuragici usavano il sughero come isolante termico non solo nelle capanne, ma anche nei nuraghi. Un esempio già reso evidente nel villaggio di S’Urbale a Teti (Nuoro).
Cari amici, che l’antica civiltà del popolo sardo non sia mai stata studiata con attenzione in campo nazionale è una triste realtà. Nei libri di testo, a partire dai primi stampati dopo l’unità d’Italia, la Sardegna con la sua antica civiltà, la sua cultura, la sua arte, la sua lingua, praticamente non è mai esistita, quasi che ci fosse una ragione per nasconderla! E se è colpevole lo Stato italiano per aver volutamente ignorato la nostra cultura, a maggior ragione lo è la nostra Regione, i cui rappresentanti non hanno mai fatto quanto necessario per porvi rimedio!
Non sono molto lontani dalla realtà quelli che continuano a sostenere che i sardi sono cittadini di serie B! Ci manca la conoscenza del passato, viviamo trascurati nel presente e ci attende, credo, un futuro ancora più buio! Dalla mancata continuità territoriale ai trasporti interni, dai costi per l’energia, alla dispersione scolastica, oltre mille altre manchevolezze che fanno dei sardi un popolo di sudditi e non di cittadini. Riflettiamo seriamente, è tempo che usciamo dalla sudditanza che ormai è entrata nel nostro DNA, risalendo purtroppo a molti secoli fa. Impariamo allora a riprenderci la nostra autonomia, quella vera, non quella finta che continuano a propinarci.
Tornando al tema di oggi, che evidenzia l’importanza del nuraghe NURADDEO, ci auguriamo che possano presto riprendere gli scavi archeologici, e che questo complesso nuragico, che dimostra quanto il nostro popolo fosse già allora culturalmente avanti rispetto ad altri popoli, possa essere messo nella giusta evidenza e valorizzato nel vero senso della parola come merita.
A domani.
Mario
Ricostruzione virtuale del complesso