lunedì, ottobre 03, 2011

UNA PIANTA APPARENTEMENTE POVERA E TRASCURATA: IL FICODINDIA ( SA FIGUMORISCA). UN’ANTICA RICCHEZZA, CHE POTREMMO ANCORA RISCOPRIRE.


Oristano 3 Ottobre 2011

Cari amici ed amiche di questo blog,

il mio recente ‘ripasso’ dei ricordi di quand’ero ragazzo mi ha riaperto non pochi file che, pur nascosti nelle parti più recondite della mia mente, a volte riappaiono all’improvviso come fantasmi di un passato che, nel bene e nel male, ne è parte integrante.

Mentre nei giorni scorsi mettevo per iscritto il mio lucido ricordo del ‘Banditore’, la mia mente rivedeva quei luoghi della mia infanzia com'erano allora: strade prive di asfalto, solo le più importanti in acciottolato, le altre in semplice terra battuta, ed i sentieri che portavano fuori dal Paese incorniciati ai lati da lunghe file di fichidindia che, oltre che essere utili come recinzione, davano sollievo anche alle esigenze alimentari dei meno abbienti. Anche se oggi pochi la utilizzano questa pianta era considerata in passato una vera miniera: produceva, senza fatica e senza coltivazione, succosi frutti che davano una mano alla magra economia del dopoguerra. Da questa pianta si ricavavano, e si possono ancora ricavare, una miriade di eccellenti prodotti alimentari e curativi.

Per chi poco ne conosce le sue grandi virtù ecco, ora, la sua storia e le sue lontane origini.

Il fico d'India o ficodindia (Opuntia ficus-indica) è una pianta succulenta della famiglia delle Cactacee, originaria del Messico ma naturalizzata in tutto il bacino del Mediterraneo e nelle zone temperate di America, Africa, Asia e Oceania. Ha trovato, in Italia, il suo habitat ideale in Sicilia, Sardegna, Campania, Calabria, Basilicata e Puglia.

L'Opuntia ficus-indica dal Messico si diffuse inizialmente tra le popolazioni del Centro America che la coltivavano e commerciavano già ai tempi degli Aztechi, presso i quali era considerata pianta sacra con forti valori simbolici. Una testimonianza dell'importanza di questa pianta negli scambi commerciali è fornita dal Codice Mendoza. Questo codice include una rappresentazione di tralci di Opuntia insieme ad altri tributi quali pelli di ocelot e di giaguaro. Il carminio, pregiato colorante naturale per la cui produzione è richiesta la coltivazione dell'Opuntia, è anch'esso elencato tra i beni commerciati dagli Aztechi.

La pianta arrivò in Europa verosimilmente intorno al 1493, anno del ritorno a Lisbona della spedizione di Cristoforo Colombo. La prima descrizione dettagliata risale comunque al 1535, ad opera dello spagnolo Gonzalo Fernández de Oviedo y Valdés nella sua Historia general y natural de las Indias. Linneo, nel suo Species Plantarum (1753), descrisse due differenti specie: Cactus opuntia e Cactus ficus-indica. Fu Miller, nel 1768, a definire la specie Opuntia ficus-indica, denominazione tuttora ufficialmente accettata.

È questa una pianta succulenta arborescente che può raggiungere i 3-5 m di altezza. Il fusto è composto da cladodi, comunemente denominati pale che, sviluppandosi e unendosi gli uni agli altri, formano delle ramificazioni. I cladodi assicurano la fotosintesi clorofilliana, sostituendo nella funzione le foglie. Sono ricoperti da una cuticola cerosa che limita la traspirazione e rappresenta una barriera contro i predatori. I cladodi basali, intorno al quarto anno di crescita, vanno incontro a lignificazione dando vita ad un vero e proprio tronco. Le vere foglie, invece, hanno una forma conica e sono lunghe appena qualche millimetro. Appaiono sui cladodi giovani e sono effimere. Ai lati dei cladodi si sviluppano i fiori e successivamente i frutti. Su entrambe le facce dei cladodi si sviluppano numerose spine di colore biancastro, sclerificate, solidamente impiantate, lunghe da 1 a 2 cm. Esistono anche varietà di Opuntia inermi, senza spine. L'apparato radicale è superficiale, non supera in genere i 30 cm di profondità nel suolo, ma di contro è molto esteso.

I fiori,dislocati nelle parti superiori dei cladodi, sono a ovario infero e uniloculare. Il pistillo è sormontato da uno stimma multiplo. Gli stami sono molto numerosi. I sepali sono poco vistosi mentre i petali sono ben visibili e di colore giallo-arancio. Variamente colorati sono ricercati con particolare gradimento dalle api che in cambiano dell'impollinazione ne ottengono in cambio un pregiatissimo nettare.



Il frutto è una bacca carnosa, uniloculare, con numerosi semi (polispermica), il cui peso può variare da 150 a 400 g. Il colore è differente a seconda delle varietà: giallo-arancione nella varietà sulfarina, rosso porpora nella varietà sanguigna e bianco nella muscaredda. La forma è anch'essa molto variabile, non solo secondo le varietà ma anche in rapporto all'epoca di formazione: i primi frutti sono tondeggianti, quelli più tardivi hanno una forma allungata e peduncolata. Ogni frutto contiene un gran numero di semi, nell'ordine di 300 per un frutto di 160 g. Molto dolci, i frutti sono commestibili e hanno un ottimo sapore. Una volta sbucciati e privati delle punte si possono tenere in frigorifero e mangiare freddi.

La pianta possiede una grande resistenza alla siccità e ciò nonostante è dotata di una grande produttività in termini di biomassa. La resistenza alla siccità è determinata dal fatto che i cladodi sono ricoperti da una spessa cuticola cerosa e che il parenchima è costituito da strati di cellule che fungono da riserva d’acqua. Anche la presenza di radici superficiali e disposte su ampia superficie è un adattamento che consente la sopravvivenza anche in zone con precipitazioni piovose di modesta entità. La pianta inoltre, analogamente alle altre Cactacee, è dotata di un particolare metabolismo fotosintetico, denominato fotosintesi CAM (Crassulacean Acid Metabolism), che consente l’assimilazione dell’anidride carbonica e la traspirazione durante la notte, quando la temperatura è più bassa e l’umidità più alta. Le perdite di acqua per traspirazione sono conseguentemente molto ridotte, mentre la quantità di anidride carbonica assorbita è, in rapporto all’acqua disponibile, elevata. Ciò determina una maggiore efficienza d’uso dell’acqua, cioè un costo in termini di acqua necessaria per fissare una molecola di carbonio, da tre a cinque volte più basso di quello che si registra nelle altre specie agricole. L' Opuntia ficus-indica, per la sua capacità di svilupparsi anche in presenza di poca acqua, si rivela una pianta di enormi potenzialità per l'agricoltura e l'alimentazione dei paesi aridi. Ha un notevole valore nutrizionale essendo ricca di minerali, soprattutto calcio e fosforo, oltreché di vitamina C. La risorsa alimentare più pregiata è rappresentata dai frutti, chiamati fichi d'India, che oltre ad essere consumati freschi, possono essere utilizzati per la produzione di succhi, liquori, gelatine, marmellate, dolcificanti ed altro.

In Italia il 90% della superficie coltivata a fico d'India è localizzata in Sicilia, il rimanente 10% in Puglia, in Calabria ed in Sardegna.

Fatta questa necessaria premessa “botanica” ecco ora il racconto dei miei ricordi e di come, in passato, veniva utilizzata questa splendida pianta nel mio paese ed in casa mia.

La Sardegna tra la primavera e l’estate si veste di fiori e frutti di fichi d’india. Tra aprile e luglio la pianta dà il meglio di sé con una profusione di splendidi fiori. Quand’ero ragazzo le nostre campagne erano tutte praticamente recintate con siepi di ficodindia. Le strette stradine rurali che portavano alle campagne che circondavano il paese erano tutte con un duplice filare spinoso di fichidindia (sa cresura). Da Aprile in poi una immensità di fiori tra il bianco il rosa ed il giallo inondava ed abbelliva i sentieri e le recinzioni dei campi. Presto una gran parte di quei fiori si sarebbe trasformata in succosi frutti che avrebbero ricoperto la gran parte delle sommità della pianta con vivacissimi colori, varianti verso il rosso intenso in piena maturazione.

Allora poco o niente di quel ben di Dio andava perduto. I suoi frutti erano una vera ricchezza. Essi, molto dolci, zuccherini, nutrienti , erano un ottimo cibo per gli animali e soprattutto per i maiali che, con i fichi d'india ingrassavano molto bene. I frutti erano utilizzati anche per l'alimentazione umana ,soprattutto nelle famiglie più povere. D'estate si mangiavano freschi e poi si essiccavano per l'inverno. Essiccati si chiamavano ‘Pibadras’. Con essi si preparava anche la marmellata e ‘sa Saba’ una melassa utile per i dolci. Questa melassa si poteva ricavare anche dall'uva ma era più costosa. Cogliere i frutti non era tanto facile per via delle spine . Si usava ‘sa Cannuga’ ,una canna spaccata in punta con tre tagli tenuti aperti da un tappo di sughero e ‘sa Scovitta’ , una piccola scopa di cisto o di lentischio che serviva per mondare i frutti, appena colti, dalle spine. Per il trasporto si usavano i carretti oppure i cesti poggiati sulla testa delle massaie che si proteggevano con su ‘Tidibi’, un pezzo di stoffa arrotolato.

Oltre al consumo del frutto fresco, le massaie lavoravano con grande maestria il dolce contenuto dei fichi d’india sapientemente sbucciati e lo trasformavano in gustose confetture, ne ottenevano un ottimo liquore e una 'sapa' (concentrato di succo e polpa) di eccellente qualità con la quale confezionavano dolci di squisito ed indimenticabile sapore. La sapa di fico d’india era ed è un prodotto sostitutivo della sapa di mosto d’uva, sotto certi aspetti anche più gustosa. Un tempo, essa era preparata in particolare dalla popolazione povera che, non possedendo vigne e quindi mosto, poteva in tal modo realizzare senza grossa spesa quei dolci tradizionali come “su pan’e saba”.

Oggi le qualità e la bontà della “Sapa di ficodindia” sono state formalmente riconosciute dalla Comunità Europea. La sapa ha ottenuto il riconoscimento comunitario come “Prodotto Tradizionale”, meritevole di menzione in quanto per ottenerlo vengono utilizzate materie prime di particolare pregio e rientra tra i prodotti tipici del luogo. Con il termine “Prodotti Tradizionali” si intendono quei prodotti agroalimentari le cui metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura risultino consolidate nel tempo, omogenee per tutto il territorio interessato, secondo regole tradizionali, per un periodo non inferiore ai venticinque anni. Il sistema dei prodotti tradizionali è regolamentato dal decreto del 18 luglio 2000. “Prodotto Tradizionale” è un marchio di proprietà del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali.






I pregi di questa pianta, però, non si limitano alla bontà dei suoi frutti. Negli anni passati il ficodindia veniva usato come recinzione per i terreni, soprattutto nelle zone dove non vi era grande disponibilità di pietre, come il campidano. Essendo spinoso era utile a scoraggiare i malintenzionati e anche gli animali predatori. I suoi cespugli offrivano riparo sicuro agli animaletti selvatici che nelle loro vicinanze sistemavano la loro tana. Le parti che venivano staccate dalla pianta con la potatura erano talvolta usate come fertilizzante naturale e le parti che con gli anni, invece, erano diventate legnose, una volta secche erano un ottimo combustibile che alimentava sia i caminetti che il forno per la cottura del pane e dei dolci. I fiori erano poi una grande attrazione per le api che con il nettare ricavato producevano uno squisito miele. Con i fiori e le foglie si preparavano anche dei medicamenti secondo antiche ricette. Quando allora le farmacie non erano diffuse come oggi si ricorreva abbastanza spesso alla medicina popolare. Ecco alcune ricette di allora:

i frutti, considerati ‘astringenti’ per la loro ricchezza in vitamina C, erano indicati nelle diarree ed in particolare per la prevenzione dello scorbuto;

• i giovani cladodi, riscaldati al forno, venivano utilizzati come emollienti ed applicati in forma di cataplasma;

• l'applicazione diretta della "polpa" dei cladodi su ferite e piaghe costituiva un ottimo rimedio antiflogistico, riepitelizzante e cicatrizzante su ferite e ulcere cutanee;

il decotto di fiori era utilizzato per le sue proprietà diuretiche.

Anche oggi alle antiche proprietà medicinali se ne aggiungono altre. Eccole:

i frutti del ficodindia hanno marcate proprietà antiossidanti;

l'efficacia di un estratto di Opunzia ficus-indica, nella cura dei postumi della intossicazione alcolica è stata dimostrata in uno studio clinico controllato randomizzato;

la notevole concentrazione della frazione polisaccaridica presente nei cladodi del ficodindia, così come in altre specie di Opuntia, costituita prevalentemente da un polimero di galattosio,arabinosio e altri zuccheri denominato opuntiamannano, comporta la capacità di legare i grassi e gli zuccheri ingeriti (resi pertanto non assorbibili) con risultati positivi sul metabolismo glico-lipidico e nella sindrome metabolica;

• le mucillagini e le pectine presenti nei cladodi di Opunzia ficus-indica hanno dimostrato un effetto gastroprotettivo negli animali da esperimento.

Quali grandi virtù sono contenute in questa pianta dal corpo spinoso, poco elegante, oggi assolutamente ignorata, nella nostra terra sarda, e che invece avrebbe potuto dare una piccola mano d’aiuto ad un’economia non solo magra, stagnante, ma in continuo decadimento!

Credo che noi sardi, abituati da millenni a “servire” i conquistatori che da sempre hanno calpestato il nostro suolo, abbiamo perso ogni grinta, ogni velleità, in una parola ci siamo arresi. Non è cosi che possiamo, anzi dobbiamo, costruire il nostro futuro e, soprattutto quello nostri dei giovani che, in particolare, ci accusano di non aver predisposto e conservato quelle risorse a Loro necessarie. Riprendiamoci la costruzione del “Futuro”, non aspettiamo che siano gli altri a darcelo! Riprendiamocelo anche riscoprendo il passato, quando, e lo abbiamo toccato con mano, siamo riusciti a vivere con poco, pochissimo, rispetto all’oggi. Un’ultima considerazione riferita all’odierna società dello spreco.

Oggi siamo costantemente bombardati e ci preoccupiamo molto della “raccolta differenziata”. Quand'ero ragazzo questo tipo di raccolta non c’era. Anzi non c’era proprio nessuna raccolta! Eppure le strade erano pulite, ordinate, senza quel caos alla napoletana che oggi è noto in tutto il mondo. Allora di quanto veniva utilizzato per la vita quotidiana, in particolare nella cucina di casa, poco o niente andava perduto e non costituiva certo motivo di inquinamento. Ogni casa era una piccola ma efficiente ‘fattoria’, dove ogni cosa veniva utilizzata saggiamente. Nel grande cortile annesso alla casa veniva allevato il maiale, le galline ed i conigli; la restante parte dell’orto veniva sapientemente coltivata per ricavarne patate, cipolle, aglio, sedano, carote, basilico e quant'altro necessario e di quotidiano utilizzo in cucina. A completare il numero dei componenti la ‘fattoria casalinga’ cani e gatti, anch'essi con un compito preciso: sorvegliare e custodire la casa, difenderla dai topi o da altri intrusi.

In questa piccola fabbrica, che albergava in ogni famiglia, ogni cosa era riciclata senza sprechi. I resti del pranzo o della cena, venivano destinati all’alimentazione animale: cani, gatti o galline. I resti delle lavorazioni domestiche bucce di fichidindia, di verdure, scorze di patate, crusca, frutta guasta, etc. erano destinati all'alimentazione degli animali da cortile, a partire dal maiale. Un ciclo completo che evitava il pessimo spettacolo di oggi con centinaia di recipienti fuori dalla porta, inquinanti e maleodoranti. Anche tutto il resto, che costituiva arredi ed attrezzatura della casa-fattoria, era seguito da artigiani che non applicavano “l’usa e getta” ma sostituivano solo le parti usurate garantendo la funzionalità del prodotto. In ogni paese dal falegname al ciabattino, dal sarto muratore, dall'idraulico al meccanico tutti erano impegnati, ognuno nel proprio campo.

Forse è riscoprendo il passato che potremo garantire ai nostri giovani quel futuro che oggi non hanno. Non tornando indietro, ma utilizzando saggiamente l’antica esperienza. Non tornando al passato, ma utilizzando il passato per costruire l’avvenire. Non con la semplice “Globalizzazione”, che fa di tutt’erba un fascio, ma con il razionale mix della “Glocalizzazione”, che dimostra che è possibile mettere insieme ‘globale’ e ‘locale’. Applichiamo concretamente ma saggiamente la globalizzazione. Il detto “ Think Global, act Local”, ovvero "Pensa globale ma…agisci Locale", espresso da Zygmunt Bauman, che per primo ha saputo cogliere l’inadeguatezza del termine globalizzazione per definire le nuove dinamiche dei mercati e dell’economia, ha il merito di essere riuscito a sintetizzare questa nuova filosofia, questo nuovo approccio ai mercati, in sole quattro parole, particolarmente evocative e, non a caso, in poco tempo sulla bocca di tutti, perché facili da ricordare e da interiorizzare.

Recita Wikipedia: “Think global, act local”, sintesi tra il pensiero globale, che tiene conto delle dinamiche planetarie di interrelazione tra i popoli, le loro culture e i loro mercati e l’agire locale, che tiene conto delle peculiarità e delle particolarità storiche dell’ambito in cui si vuole operare.

Noi sardi riflettiamo con attenzione su questo concetto e facciamolo nostro! Daremo cosi ai nostri giovani quello che si meritano, altrimenti andranno via....irrimediabilmente e per sempre!








Per la gioia di qualche lettrice che vuole…cimentarsi, ecco una delle ricette per fare un’ottima Sapa (sa Saba).

Sapa di fico d'india (saba de figu morisca).

Ingredienti:

kg 5 di fichi d'india

gr 250 di semola fine

1 bicchiere di acqua

buccia di 1 arancia grattugiata

Esecuzione.

Sbucciare i fichi d'india , schiacciarli con una forchetta e metterli in una pentola con mezzo bicchiere di acqua. Cuocere a fuoco dolce per una mezzoretta. La polpa deve sciogliersi. Filtrarla con un passino, rimetterla sul fuoco e farla sobbollire a fiamma bassissima fino a ridurlo 1 litro circa di succo denso e sciropposo. Ci vorranno 1ora e 30 minuti. Il prodotto è pronto per essere conservato. Per l’utilizzo immediato, o successivo, se si vogliono fare le famose ‘ziriccas’ o l’altrettanto noto ‘pan’e saba’ , procedere cosi:

- si allunga il liquido con un bicchiere di acqua, si porta a bollore e si versa nel composto la semola e la buccia d'arancia. Non smettete di mescolare fino a quando l'impasto non si stacca dalla pareti della pentola. Ci vorranno 30 minuti circa. La sapa è pronta per realizzare le famosissime ‘zilicas’, o per preparare, con aggiunta di mandorle sbucciate e tritate, buccia d’arancia e miele, su pan’e saba!!

Grazie della Vostra sempre splendida attenzione.

Mario


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