Oristano 7 Dicembre
2013
Cari amici,
la recente mostra
regionale di pittura dei medici artisti sardi (aperta il 23 Novembre, chiuderà
domani 8 Dicembre), organizzata dall’associazione “Morsi d’Arte” e dall’Ordine
dei Medici di Oristano nelle vecchie carceri ecclesiastiche annesse alla Chiesa
Cattedrale, mi ha dato lo spunto per rifare con Voi la storia di questo antico
“luogo di sofferenza”, una sorta di carrellata sul passato, quando la Chiesa
lottava in modo forte contro i tentativi “diabolici” di contrastarla, usando
anche mezzi molto violenti contro chi
violava le regole. Ai tempi della dominazione spagnola in Sardegna era il
Tribunale dell’Inquisizione la struttura di controllo e repressione nei
confronti di chi violava o attentava alla fede. Il Tribunale dell’Inquisizione
operò in Sardegna a partire dal 1492, con sede prima a Cagliari e successivamente a Sassari dal 1563.
“Luogo
di sofferenze passate – ha osservato il presidente
dell’Ordine dei Medici Antonio Sulis, riferendosi agli antichi ed angusti
locali, il giorno dell’inaugurazione della mostra - che auspico diventi spazio culturale, dando atto e ringraziando la
Curia di Oristano, sensibile all’invito rivolto per l’utilizzo di questo luogo,
uno spazio che coinvolge”.
Apparentemente poco
visibili queste antiche prigioni (in tanti vi transitano davanti senza neppure notarle), che si trovano a
fianco al Palazzo Arcivescovile, poco prima delle scalinate che portano alla
Cattedrale di Santa Maria Assunta, sono uno spazio particolarmente
“coinvolgente”. L'ambiente è costituito di alcuni piccoli vani, dal soffitto
non molto alto, comunicanti tra loro e che si sviluppano nel sottosuolo. Ogni
stanza immette nell'altra, facendo pochi scalini. La stanza più grande è
l'ultima, dotata anche di una porta d'ingresso - ormai sbarrata - e di uno
spazio ricavato nella profondità del muro, che doveva essere una piccola cella.
Mentre
si scendono i ripidi scalini (praticamente esse sono sottostanti il piano
stradale e in parte sotto la Basilica), si nota una finestra posta all’altezza
della strada e sui muri scrostati sono visibili diverse scritte in greco,
latino e perfino arabo (lasciata, chissà, da qualche pirata berbero nel tempo).
Esaurito
il compito repressivo, negli anni successivi queste carceri restarono a lungo
chiuse e inutilizzate, anche se su di esse, storicamente, non si sa molto.
Forse nel periodo della guerra furono usate come rifugio. Oggi, però, sono certamente
un triste luogo di riflessione e di meditazione.
Le prigioni
ecclesiastiche, come già il nome fa capire, incarceravano le persone che
avevano commesso crimini religiosi, materia di diritto su cui la Chiesa
amministrava la giustizia. Esse sono state operative dal 1400 fino praticamente
all'Unità d'Italia (scarse le fonti ufficiali); esse si ricollegano con
certezza alla presenza in Sardegna dell'Inquisizione spagnola, che operò
nell’Isola a partire dal 1492 con Sede a Cagliari. Successivamente, nel 1563 l’Inquisitore
spagnolo Diego Calvo (arrivato in Sardegna nel 1562), trasferì la sede a
Sassari, forse perché nel capoluogo un fermento insurrezionale, a lungo covato,
stava per esplodere contro l’uso eccessivo della violenza esercitata da questo
tribunale. L’Inquisizione in Sardegna
svolgeva, infatti, oltre che un ruolo religioso anche funzioni collegate al
potere politico con il quale la Chiesa doveva convivere. Ecco una
carrellata sui fatti di quel periodo, riportati, in modo particolare, dallo
studioso Sergio Atzeni.
Nel 1492 il tribunale
spagnolo dell’inquisizione, autorizzato dal papa Sisto IV con il compito di
perseguire e giudicare i reati di fede, si stabilisce anche in Sardegna, a
Cagliari. Da subito questo insediamento suscita non poco timore nella
cittadinanza. L’inquisitore per la Sardegna, Sancho Marin, nominato dal supremo
inquisitore generale Tomas de Torquemada, stabilì la sua sede in una zona
chiamata “ Is stelladas” nei pressi dell’attuale viale Ciusa, occupandosi dei
giudizi contro i cittadini accusati di deviazioni di fede, di bigamia e
stregoneria. I sospettati dopo l’arresto subivano un interrogatorio da parte
dell’inquisitore, teso, anche attraverso “pressioni” a ricavare una piena ammissione
delle colpe; l’invito a nominarsi un difensore, era spesso difficile a trovarsi,
per la paura di incappare, anche costui, a sua volta, in accuse di eresia,
nell’esercizio del proprio ufficio. Nei casi più fortunati l’impegno dell’avvocato
era quello di convincere il suo assistito alla piena confessione. Per coloro
invece che non riconoscevano i propri reati scattava la tortura, che era una
prassi consueta ed applicata anche dai tribunali penali normali. Tortura che
consisteva nello stiramento degli arti, nell’uso del ferro rovente, nello
strappo delle unghie, questi i sistemi di convinzione più usati. Dopo
l’inevitabile confessione del malcapitato scattava la condanna per eresia:
l’esecuzione era preceduta da una cerimonia chiamata “autodafé” che iniziava
con una lunga messa dopo la quale il condannato passava tra la folla preceduto
dalla croce che recava il segno del lutto. Il morituro, scalzo e rivestito da
un grezzo saio, apriva il lungo corteo seguito da soldati, religiosi e dagli
appartenenti alla confraternita della buonamorte. Giunti sul luogo della
sentenza il reo “obtorto collo” veniva consegnato al carnefice con una
preghiera da parte dell’inquisitore che era formulata come segue: “Ti preghiamo
di non far del male all’anima e al corpo di questo fratello peccatore”.
Nei casi più fortunati il
reo veniva condannato “al remo” nelle galere, e questa era considerata una pena
clemente; i religiosi colpevoli, invece, venivano con buona frequenza condannati
al lavoro coatto presso un ospedale o un lazzaretto. Essere accusati era molto
semplice, bastava anche una sussurrata denuncia anonima, anche senza prove
certe. Con questo sistema anche a Cagliari la delazione e la denuncia anonima
diventarono un mezzo per eliminare nemici o contendenti alle cariche più
importanti: persino la mogli del viceré Antonio de Carbona fu accusata di
eresia e portata in giudizio dall’inquisitore Andrea Sanna che, davanti a
persone così potenti, preferì investire del fatto il supremo consiglio
dell’inquisizione di Spagna. Il Viceré dimostrò l’infondatezza delle accuse rivolte
alla moglie che fu assolta, mentre i suoi accusatori, rei di conseguenza di
falsa testimonianza, furono condannati inesorabilmente.
Le divergenze tra
inquisizione e poteri pubblici diventarono man mano sempre più aspre e in
Sardegna fu inviato, nel 1562, un nuovo inquisitore, Diego Calvo, che operò in
modo alquanto repressivo. Famoso fu il procedimento contro i fratelli Gallo di
Iglesias accusati di calvinismo, che però riuscirono a fuggire all’estero e
quello contro il francescano Arcangelo Bellit, reo di aver negato l’esistenza
del purgatorio e della presenza di Cristo nell’ostia; quest’ultimo avendo
riconosciuto i suoi delitti, fu condannato al carcere avita. Il Bellit fu uno
degli accusatori di Sigismondo Arquer, avvocato fiscale di Cagliari, che in
seguito ottenne la diminuzione della pena a 3 anni trasformati poi in un
rilievo di biasimo. Il libro “Sardiniae Brevis Historia et Descriptio”, scritto
dall’Arquer e sfortunatamente inserito dal luterano Sebastiano Munster nella
sua “Cosmographia Universalis”, fu il colpo decisivo per la sua incriminazione:
arrestato, fu trasferito in Spagna dove fu condannato e giustiziato a Toledo
nel 1571.
Diego Calvo, dopo aver
stabilito di trasferire il Tribunale da Cagliari a Sassari nel 1563, forse sentendosi
a Cagliari anche personalmente in pericolo, allocò la struttura inquisitoria
nel castello aragonese di costruzione trecentesca, oggi non più esistente,
essendo andato distrutto nel secolo diciannovesimo. Nel
castello vi era la residenza degli inquisitori, le carceri del “Santo Officio”,
la sala di tortura e la sala dove avveniva lo svolgimento del processo. Il
tribunale dell'inquisizione aveva competenza esclusiva in materia di ortodossia
della fede e, all’epoca, oltre a combattere contro le infiltrazioni dell’ebraismo
e dell’islamismo, aveva anche intrapreso una “lotta senza quartiere” contro l’avanzante
eresia protestante. Un’altra delle motivazioni del trasferimento del tribunale
dell'inquisizione da Cagliari a Sassari va ricercata anche nella necessità di
contrastare l'ingresso, dai porti della Sardegna settentrionale, di eresie
protestanti. Da una relazione del gesuita spagnolo Cristoforo Truxillo si apprende
che nel 1566 l'inquisitore era riuscito ad incutere un indescrivibile terrore a
tutta la Sardegna con un "feroce e ferale spettacolo durato due
intere giornate", durante il quale, come osserva Raimondo Turtas, "oltre
a condanne più o meno gravi contro 70 "poenitentiati", il pezzo forte
era stato fornito da ben 13 condannati al rogo".
Lo stesso padre
Truxillo specifica che l'inquisitore "fece severe dimostrazioni contro
persone supersticiose et fatuchiare". Ad onta di tutto ciò il
rigoroso esame condotto da Angelo Rundine e da Tommaso Pinna sui processi per
stregoneria tenutisi in Sardegna dal Tribunale della Santa Inquisizione
nell'arco di circa un secolo e mezzo tra la metà del16° secolo e la fine del
17° secolo dimostra che nei 165 casi di stregoneria e magia, relativi a 105
streghe e a 60 stregoni, non si irrogò mai il rilascio del condannato al
braccio secolare per la conseguente esecuzione col rogo o con altra pena
capitale. Le sanzioni furono sempre mitissime e consistenti prevalentemente
nella confisca dei beni o nella condanna a qualche anno di carcere o all'esilio
perpetuo dal proprio paese.
Un processo di estremo
interesse fu quello intentato nel 1577 dall'Arcivescovo turritano Lorca, in
veste di inquisitore, nei confronti di Caterina Curcas di Castel Aragonès, i
cui Atti sono contenuti nel lib. 782, Inquisiciòn dell'Archivo Historico
Nacional di Madrid. Nel corso delle udienze Caterina Curcas confessò di aver
conosciuto il diavolo, apparsole in varie ore della notte, nelle vesti di un
nobiluomo vestito ora di rosso, ora di giallo, ora di nero, e di avere giaciuto
con lui. Il diavolo la condusse nella "valle dell'inferno", un bosco
misterioso forse tra Castelsardo e Sedini, dove si adunavano più di duecento persone
e diavoli sia maschili, sia femminili, che ammannivano un gran banchetto e si
davano a danze e bagordi. Il diavolo invaghitosi di Caterina Curcas si chiamava
Furfureddo e le impose di rinnegare la fede cattolica. La Curcas venne
riconosciuta colpevole e condannata ad un anno di carcere nell'ospedale di
Sassari e all'esilio perpetuo dalla diocesi di Civita-Ampurias.
Un'altra persona della
zona, riconosciuta strega, fu Angela Calvia di Sedini che, nel 1578, fu
sottoposta a processo. Essa confessò i suoi turpi rapporti con il diavolo Corbareddu,
gentiluomo vestito di verde e di nero, ma talora “ignudo”. Si ebbe dal
tribunale dell'inquisizione tre anni di detenzione, la confisca dei beni e
l'esilio a vita da Sedini. In quello stesso anno 1578 ebbe luogo a Sassari,
presso il medesimo tribunale dell'inquisizione, il processo ad una strega di
Oristano, tale Anna Collu. La Collu fu accusata dall'inquisitore Corita di aver
effettuato ricerche di tesori con l'ausilio del diavolo. Il reiterato diniego
dell'imputata cedette il passo, nella "camara
del tormento", ad un'ampia confessione: con alcune invocazioni Anna
Collu aveva ottenuto, insieme a due chierici, e ad un'altra donna, che
all'interno di una fossa appositamente scavata comparisse un'ombra. L'ombra
pretese allora il "digiuno del
diavolo". Dopo questa pratica le due donne, stavolta spogliate, si
portarono con i chierici presso la fossa. Qui il diavolo in persona pretese di
giacere con le due oristanesi, per ottenere in cambio sette "ollas"
piene zeppe di soldi. La strega fu condannata alla riconciliazione con la fede
cristiana, alla confisca dei beni e a tre anni di carcere.
Ma le pratiche di stregoneria
non erano appannaggio solo delle donne, benché queste ultime fossero la grande
maggioranza (circa il 65% dei casi). Nel 1577 nella stessa Oristano incontriamo
uno strano personaggio, Formezino Atzeni che finì denunziato pure Lui alla
Santa Inquisizione. L'inquisitore, Arcivescovo Lorca, poté appurare che
l'Atzeni in combutta con altre persone, sia laiche, sia religiose, effettuava
la ricerca di tesori con l'ausilio del diavolo. Una volta un frate che
s'accompagnava con l'Atzeni seguendo le indicazioni di un libro, evidentemente
magico, impugnò tre verghe che lo avrebbero condotto al tesoro. Individuato il
sito, il gruppo dell'Atzeni ebbe la sorpresa di veder sbucare fuori dalla terra
il diavolo in persona, in forma di corvo, armato di spada, che gli servì per
segnare il punto del tesoro. Tutti vendevano la propria anima al maligno ed
egli in cambio cedeva loro le "dodici parole" per trovare i tesori. L'oristanese
fu condannato ad abiurare al patto scellerato col diavolo ed ebbe irrogata una
pena in denaro e pene spirituali.
La storia più
importante, però, è certamente quella di Julia
Carta, nativa di Mores ma residente a Siligo nel periodo del tardo
cinquecento, che venne accusata di stregoneria. Negli Atti processuali, fortunatamente
ritrovati integralmente a Madrid, si narra per filo e per segno la storia di questa
strega, che costituiva presso la comunità dei silighesi, un punto di riferimento
temuto e ricercato. Poiché Julia Carta era una "hechizera ", una fattucchiera, in possesso di una sapienza
eterodossa per quanto attiene alle cure delle malattie, e anche per
la produzione di amuleti destinati ad assicurare protezione dal male e dalla
giustizia degli uomini, ossia dalle forze dell’ordine, l’accusa era per Lei di grande
spessore. Con la dettagliata confessione di Julia Carta, estorta dopo una breve
permanenza nella camera della tortura, senza che effettivamente le venisse
irrogato il tormento, noi, leggendo gli atti processuali dell’epoca, riusciamo
ad entrare nel mondo delle “pratiche magiche” che una donna sarda considerata strega
praticava nel millecinquecento. E’ curioso sapere come questa Julia, mettendo a
frutto le conoscenze magiche e medico-terapeutiche apprese e tramandate dalla
nonna materna, riusciva a guadagnarsi la fiducia delle persone che curava. Nella
confessione Lei riconosceva di aver messo in atto pratiche di medicina
naturale, mescolate a credenze magiche e a comportamenti eterodossi in campo
religioso e sociale.
E’ una figura davvero
straordinaria questa donna intelligente e colta, apprezzata per le sue capacità
non solo magiche, che cadde, forse per invidia, sotto la lente di osservazione
del parroco di Siligo, Baltassar Serra Y Manca, commissario del Santo Officio. Julia
Carta venne arrestata il 18 ottobre 1596 a Mores, in casa del padre e venne
tradotta nelle carceri della Santa Inquisizione nel castello di Sassari. Julia fu
inizialmente accusata di aver fabbricato amuleti (pungas) benefici, ma aver di
aver provocato la morte di una persona, Maria Virde, di Siligo con un
malefizio. Inoltre, cosa ben grave, la strega era anche accusata di eresia
luterana, per aver espresso opinioni eterodosse sulla confessione. Il parroco
di Siligo, anche dopo l’arresto, continuò la ricerca di testimonianze avverse a
Julia con buon successo, tant'è che il 21 novembre venne formulata nei
confronti della strega una nuova accusa, suddivisa in diversi punti.
Il
procuratore fiscale del Santo Officio Thomàs Pitigado tra gli altri capi
d'accusa dichiarò: “la accuso e le imputo (a Julia Carta) come colpa principale il fatto
che una volta andò a praticare suffumigi a un'ammalata e, avendole portato
alcune braci ben accese, la detta Julia Carta gettò su quelle braci una certa
cosa che le spense di colpo”. (notizie assunte dal libro: "Majàrza, ossia libro sopra le streghe
di Sardegna a partire dalla villa di Bidonì, sulle rive del fiume Tirso".
- Di Annarita Agus e Raimondo Zucca-). Julia Carta, nonostante le richieste dell’accusa
non finì sul rogo: ebbe una condanna mite, a tre anni, dopo aver dichiarato di essersi
pentita.
Che dire, cari amici,
il passato è certamente fonte di riflessione e motivo di meditazione. Passato
che, visto con gli occhi di oggi, sembra un libro di favore tristi. Sono
verità, invece, legate alle situazioni dell’epoca e rapportate ad un mondo ben
lontano da quello di oggi, e che nel mondo odierno non troverebbero la stessa collocazione.
Anche oggi, però, non siamo immuni da tribunali fondamentalisti di questo tipo,
se pensiamo agli effetti nefasti dei “Nuovi Fondamentalismi”, operanti sia nel
mondo religioso (in particolare islamico ed ebraico) che in quello civile.
Ogni
tempo, cari amici, ha i suoi “Inquisitori”, Torquemada, forse, è stato solo il
primo!
Ciao!
Mario
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