Oristano 27 Dicembre
2013
Cari amici,
il periodo finale
dell’anno, tra Natale, Santo Stefano e Capodanno, si è sempre festeggiato in
tutta l’isola all’interno della propria Comunità di appartenenza. Festa
familiare e di vicinato, attraverso la quale si cercava ancor più di cementare
i vincoli sia familiari che di amicizia comunitaria. In Sardegna le diverse usanze,
che risalgono al passato remoto, pur nello loro apparente diversità, sono
legate da un unico filo conduttore: quello di rinsaldare l’amicizia, attraverso
una “condivisione” dei beni materiali
posseduti; un modo per riequilibrare, anche se per pochi giorni, le differenze
sociali tra ricchi e poveri e soddisfare, in modo abbondante, le esigenze
alimentari di tutti i componenti la Comunità in occasione delle festività
principali.
Tradizioni, quelle
sarde, esteriormente abbastanza diverse ma tutte ricche di fascino,
consuetudini che continuano ancora oggi, pur mancando molti dei presupposti che
nel passato le hanno create.
Nel Campidano di Oristano, per esempio, nei giorni
precedenti il capodanno si svolge la consueta distribuzione de “Su trigu cottu”, grano cotto con una
bollitura in acqua e successivamente imbevuto nella sapa (spesso di ficodindia
e non di mosto), offerto come auspicio per il Nuovo Anno. Tale usanza è ancora
presente in diversi centri dell’Oristanese, come a Seneghe, San Vero Milis e
Bauladu. In quest’ultimo centro quest’anno
la “Sagra de Su Trigu Cottu” è in calendario per il 28 e 29 Dicembre. La
stessa usanza si ripete nel Campidano di Cagliari, ma con dei dolci a base di
zucchero, mandorle e acqua di fior d’arancio, “Is candelaus”. A Fluminimaggiore, la mattina del 31 dicembre, i
bimbi, ancora oggi, vanno in giro per le case a chiedere is candeleris, una
manciata di grano bollito e un bicchiere di latte come simbolo augurale.
L’etimologia di tali consuetudini è da
attribuire indubbiamente agli antichi Romani, che solevano offrire in questa
data le Kalendae votive. Tradizioni
ancora più forti e radicate le troviamo nel mondo agro pastorale della
Barbagia, del Logudoro e dell’Ogliastra. Nel Nuorese, per lo
scambio degli auguri per il nuovo anno, si offrono delle focacce di pane bianco
chiamate “Arìna Càpute”. Grazia
Deledda, nei suoi scritti etnografici, osservava: “L’ultimo giorno dell’anno tutti
i ragazzini e le ragazzine del popolo nuorese si riuniscono a gruppi, a
compagnie e talvolta a vere processioni, e picchiano alle porte dei possidenti,
chiedendo a grandi voci il candelajo. Se in qualche casa si conservano ancora i
buoni costumi antichi, si apre la porta ai bambini poveri e si distribuiscono
loro delle mandorle, noci, castagne, fichi secchi e nocciole. Questo è il
candelarju. In alcune case si fa appositamente il pane chiamato con tal nome; è
piccolo, bianco, frastagliato, lucido, in forma di uccelli e di altri animali”.
A Orgosolo in
particolare, (ma anche in altri centri della Barbagia e del Logudoro) è
tradizione chiudere l’anno con la festa dei bambini, “Sa Candelarìa”. Si tratta di un’antica consuetudine che vedeva
grandi gruppi di bambini di Orgosolo girare tutte le case del paese, in
particolare quelle dei maggiori possidenti, per chiedere quei doni che invece
solitamente si chiedono alla Befana, in quanto riempire il sacco di leccornie
il 6 gennaio non è una tradizione in uso nel piccolo centro barbaricino. In
Ogliastra, sempre alle soglie del capodanno, si fa la strenna ai bimbi che si
presentano con una parola d’augurio o si distribuiscono doni a gruppi di
persone. Si parla per lo più di doni votivi, spesso materializzati in salsicce,
sanguinacci, frutta secca e vino.
Tra i tanti riti del
passato, che a causa della mia curiosità nel tempo ho potuto scoprire, uno di
questi mi ha attratto più di altri, forse anche per il suo maggior
coinvolgimento, ed è quello de “Sa
Candelarìa” di Orgosolo. In questo antico rituale, dove sono coinvolti
grandi e piccini, donne e uomini, famiglie consolidate e giovani coppie, c’è
qualcosa di particolarmente importante: un coinvolgimento, a vario titolo ed in
positivo, di tutta la Comunità. Stante questo ho pensato di farvi cosa gradita
esporre anche a Voi in questo blog i dettagli di questo antico e coinvolgente
rito. Rivediamolo insieme.
La mattina del 31
dicembre i bambini di Orgosolo, riuniti in gruppi, fin dalle prime luci
dell’alba, si recano di casa in casa per chiedere "Sa Candelarìa". Al
primo bussare le porte si aprono subito: le donne sono pronte ad accogliere
positivamente e con sollecitudine la richiesta: "A nolla dàzes sa candelarìa?" (ci date la candelarìa?), riempiendo
il sacco bianco (spesso una federa del cuscino) che i ragazzi portano sulle
spalle. La ricorrenza è attesa con grande ansia e trasporto dai bambini. Per l’importante
avvenimento indossano l’abito delle grandi occasioni, mettono in spalla il
piccolo sacco di tela bianca, preparato in precedenza e, lasciata velocemente
la propria casa, vanno a raggiungere gli amichetti per farsi vicendevolmente
compagnia visitando le case del paese; il gruppo, a piccolo trotto, infervorato
e allegro ama vivere quell’esperienza fantastica qual è sa “Candelarìa”. E’ un
evento che ogni bambino orgolese aspetta tutto l’anno: per vivere, la mattina
del 31 dicembre, una giornata diversa, in completa libertà, nella quale potrà entrare
in tutte le case del paese, dove riceverà una montagna di prelibatezze:
biscotti, frutta e “sos cocònes”,
uno squisito pane speciale che le massaie orgolesi preparono giusto per
l’occasione.
Sa Candelarìa è
un’usanza tramandata nei secoli, che ha un suo significato importante, se
collocata all’interno di una società dove pochi erano i mezzi di sussistenza:
era un modo per ridistribuire la ricchezza, un dono che apparentemente non era
un’elemosina dal più ricco al più povero, ma un semplice scambio augurale per festeggiare
l’anno nuovo in arrivo. “Una volta era una festa più sentita - dice
zia Nania Muscau, che di candalarìe a Orgosolo ne ha viste tante - c’era molta povertà e questa era una
giornata dove si aveva da mangiare in casa: coccones, frutta di stagione, in
genere mele cotogne, mandorle o fichi, qualche volta si riceveva un pezzo di
formaggio, erano tutte cose che ci facevano felici”.
“Su
Cocòne”, questo pane speciale di Fine Anno, era (e lo è
ancora oggi) approntato, per la massima parte, nei giorni immediatamente
precedenti il 31, in casa, da gruppetti di donne aventi rapporti di parentela e
di buon vicinato. E’ composto di farina di grano duro (sìmula) impastata con lievito, acqua tiepida, sale e strutto. Dopo
una lunga lavorazione, che in passato avveniva a mano, l'impasto viene diviso in pezzi grosso modo
sferici, della grandezza di un’arancia, che vengono lasciati a lievitare; si
procede quindi a spianarli col mattarello fino a ottenere una sfoglia di circa
35 cm di diametro, "Sa
Tundìna". Dopo un'ulteriore lievitazione tra teli di lana, di lino o
canapa (pànnos de ispica), si
procede all'infornata. Poco prima il disco di pasta viene profondamente segnato
a croce per tutto il suo diametro con una rotella mentre un' altra piccola
croce viene impressa nelle quattro parti uguali precedentemente segnate dalla
rotella. La cottura della
"tundìna" avviene in forno caldo, con fiamma leggera, senza che venga
voltata in modo che la faccia superiore rimanga bianca e lucida. Appena
sfornato, il pane viene accuratamente spazzolato e, quindi, ordinato a strati
nelle “corbule”, capienti
contenitori realizzati con steli di grano e asfodelo.
Ai bambini verrà donato
un quarto - ma talvolta anche due - dell'intera "Tundìna", vale a
dire un "Cocòne". Attualmente la gran parte delle famiglie destina a
"Sa Candelarìa" tres
"càrtos" di grano; poiché da ogni "càrtu", che equivale
a 20 kg, si ottengono mediamente 40 "tundìnas", ogni casa ne avrà a
disposizione 120 circa, ovvero 480"cocònes". Una famiglia con molti
bambini in età di "Candelarìa" in genere ne prepara di meno, in
quanto tiene conto che una notevole quantità di pane verrà raccolta attraverso
la questua. Durante la mattinata avviene lo scambio del pane e
dei doni. La questua dura fino a mezzogiorno, poi si fa la conta della
raccolta.
Negli ultimi anni
questa tradizione ha perso un po’ della sua centralità in quanto spesso i
bambini sono più interessati ad altri doni, ai biscotti e ai soldi, ma mantiene
la sua importanza in quanto “segna” la crescita del bambino. Partecipando alla
“Candelarìa”, infatti, il bambino comincia a muoversi anche all’esterno del
mondo familiare, acquisendo una certa autonomia. La partecipazione alla questua
è riservata ai bambini e alle bambine dai 4 ai 12 anni circa; si ha perciò
un'età compresa tra due momenti di passaggio: il primo sancisce l'acquisizione
di un'autonomia motoria extra familiare e
una capacità autonoma di raccolta e trasporto: la prova diventa in
pratica il superamento della prima infanzia e l'ingresso nella fanciullezza; il
secondo passaggio, quello dei 12-13 anni, segna, invece, la fine dell’età della
fanciullezza e l’ingresso nella fase dell’adolescenza. A 12-13 anni i bambini
di Orgosolo svolgono già attività lavorative ben definite, i maschietti in
campagna, specie se figli di pastori, le bambine a casa.
La Candelarìa,
comunque, non è riservata solo ai bambini e non finisce certo a mezzogiorno! Essa
avrà infatti un'importante appendice notturna, questa volta effettuata da
gruppi di adulti, donne e uomini, e interesserà soltanto le case dei novelli
sposi, quelli che si sono sposati nell’anno che sta per finire. Dopo
quella dei bambini al mattino, i giovani sposi dovranno, pertanto, prepararsi a
ricevere una serie di visite ancor più ampia e variegata. A
partire dalle nove di sera fino alle due o le tre del mattino, dunque, gruppi
delle dimensioni e componenti più svariate, che, talvolta, nei pressi delle
case degli sposi, divengono una vera e propria folla, attraversano le strade e
i vicoli del paese. Ciascun gruppo si ferma davanti
all'uscio della casa degli sposi e leva un canto che è insieme augurale e di
richiesta del pane:
Più direttamente
connesso con la condizione degli sposi e, quindi, incentrato sull'augurio di
prosperità e di ingrandire presto lo famiglia appena costituita, è il testo del
canto seguente:
AI termine del canto,
il gruppo, che spesso chiede "vi basta?", viene invitato ad entrare
in casa dagli sposi e dai parenti. Ricevuti ancora gli auguri di felicità e
prosperità, gli sposi offrono "su
cumbidu", ovvero vino, liquori, dolci. I più anziani
ricordano che la "candelarìa" notturna veniva nel passato frequentata
anche da gente povera del circondario (Oliena, Mamoiada, Fonni) che
evidentemente non poteva permettersi di rinunciare alla possibilità, certamente
assai rara, di ricevere gratuitamente alimenti preziosi. Le parole del canto
che si riporta di seguito, tuttora eseguito, parrebbero indicare che il dono
della "candelarìa" venisse consapevolmente vissuto come un'operazione
di ridistribuzione di beni tendente a ricostituire uno stato di eguaglianza tra
gli abitanti del paese:
Nel nome di Gesù
Bambino i ricchi e i poveri diventavano uguali; un rifiuto alla contribuzione,
e dunque ad accogliere il messaggio del canto, veniva mal tollerato: una
risposta negativa (a perdonare), magari mandata attraverso una porta chiusa,
provocava nei questuanti imprecazioni e parole di malaugurio.
Il perdurare nel tempo
dell’antica tradizione de Sa Candelarìa, la partecipazione alla manifestazione,
con la preparazione del pane e
l'accoglienza dei bambini, anche da parte delle famiglie colpite da lutti e da
disgrazie recenti (situazioni che impongono normalmente l'astensione dalle
feste), sancisce quasi un rito di comunione tra il mondo dei vivi e quello dei
morti: si dice, infatti, a Orgosolo, che il pane si fa per le anime: "Est
pro sas animas"; attraverso i bambini, dunque, si trasmette un dono ai
defunti. Va infine supposto che, nella lunga storia attraverso i secoli di
questa tradizione, la Comunità abbia voluto sempre esternare, pur
nell’apparenza e per un periodo abbastanza breve, quell’utopica società di
eguali.
Cari amici che dire di
più? Solo augurare, di vero cuore, a tutti Voi uno splendido Nuovo Anno!
Mario
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