martedì, dicembre 18, 2012

IMMORTALATO NELLA LEGGENDA E NELLA STORIA L’ARCO HA TRIONFALMENTE ATTRAVERSATO I SECOLI. LA LUNGA STORIA DI UNO STRUMENTO DI CACCIA, GUERRA E SPORT.

Oristano 18 Dicembre 2012
Cari amici,
oggi voglio ripercorrere con Voi la lunga storia dell’arco. Questo desiderio mi è venuto da quando tutte le settimane accompagno mio figlio Santino agli allenamenti di tiro con l’arco. Spesso sto a lungo in osservazione e mi affascina non solo il meccanismo ma la potenza del tiro. La mia mente torna indietro nel tempo ed immagina l’uomo preistorico che con astuzia si confezionò il primo arco, capace di lanciare con forza frecce in grado di uccidere l'animale senza rischiare di morire con il “corpo a corpo” con la preda. Ecco ora la lunga storia di uno strumento straordinario che dopo millenni mantiene ancora intatta la sua vitalità.

Dopo la scoperta del fuoco e della ruota credo che nella storia umana l'invenzione dell’arco sia una delle scoperte più rilevanti. A partire dal Neolitico e fino all'avvento delle armi da fuoco nel XVI secolo, l'arco ha contribuito in modo determinante allo sviluppo ed al progresso dell’uomo, sia come efficace strumento da caccia che come arma da guerra. La scoperta dell’arco si è dimostrata fondamentale in tutte le culture delle varie parti del mondo: dall’Asia all’Europa, dall’Africa alle Americhe. I nomadi dell' Asia centrale grazie alla forza da combattimento dell’arco fondarono vasti imperi e giunsero a dominare la Cina; gli eserciti medievali combatterono efficacemente con l’arco in tutta Europa, gli Inglesi studiarono un efficace modello di “arco lungo”, mentre gli indiani d’America studiarono un modello corto per usarlo comodamente lanciati al galoppo con il cavallo. L’arco, introdotto da tutte le culture, nel corso dei secoli fu modificato profondamente e, da strumento rudimentale qual'era, costituito da un ramo e una corda, divenne nel tempo un dispositivo meccanico altamente sofisticato. 

Com’è fatto essenzialmente un arco? Fondamentalmente un arco è una molla a due bracci mantenuta in tensione da una corda che ne unisce le estremità. Quando lo si tende, il dorso (la parte esterna della curvatura) è sottoposto a uno sforzo di trazione mentre il ventre (la parte interna della curvatura) subisce una forza di compressione. L'arco deve adattarsi a queste forze per evitare di spezzarsi e per poter scagliare lontano la freccia. Nei flettenti di un arco completamente teso è immagazzinata una grande energia potenziale, che viene trasferita alla freccia e le dà impulso quando si lascia andare la corda. Dal semplice originario arco del Paleolitico una lenta evoluzione ha costantemente modificato lo strumento, seguendo due filoni distinti nella progettazione degli archi, uno europeo e uno asiatico. Nessuno dei due può essere considerato intrinsecamente migliore dell'altro; ciascun progetto di arco rappresenta invece una possibile soluzione al problema di scagliare con precisione un dardo piccolo e leggero imprimendogli forza di penetrazione. Questo processo graduale di miglioramento dell'arco ha richiesto millenni e ha coinvolto molte culture, a partire da quelle preistoriche. Basti un esempio: alcuni studiosi ritenevano che l'arco lungo inglese fosse stato inventato nel Medioevo dagli anglosassoni, dai normanni o dai gallesi, mentre in realtà se ne sono scoperti antecedenti che risalgono ad almeno 8000 anni fa. Alcuni dati fanno pensare che l'equipaggiamento per l'arciere sia apparso all'inizio del Paleolitico superiore (35 000-8000 a.C. circa).
Il legno preferibilmente utilizzato per i primi archi era il tasso. In questo legno sono facilmente distinguibili due strati: l'alburno, di colore biancastro, che è lo strato esterno dell'albero, fisiologicamente attivo, e il durame, di colore rosso-arancione, che è la parte morta centrale. L'alburno è elastico e ha una buona resistenza alla tensione, mentre il durame è più adatto a sopportare gli sforzi di compressione.

Al di fuori dell'Europa l'evoluzione dell'arco seguì una via abbastanza differente. Le sue varianti più complesse ebbero origine in Asia. Mentre in Europa si studiavano forme e tipi di legno, in Asia,  al contrario, i costruttori sembrarono concentrarsi non tanto sulla forma dei bracci, quanto su altri materiali di supporto da impiegare. In particolare, in Asia si utilizzarono adesivi ricavati da pelli e dalla vescica natatoria di pesci per incollare tendini di animali al dorso degli archi. Il tendine ha una elevata resistenza alla trazione, valutabile in circa 20 chilogrammi per millimetro quadrato, ossia più o meno quattro volte quella dei legni da arco. L'uso del tendine consente di costruire un arco notevolmente più corto senza sacrificare l'estensione della corda e senza aumentare il rischio di rottura. Facili da maneggiare stando in sella, questi archi corti rinforzati con tendine vennero utilizzati in Asia settentrionale e in Estremo Oriente, ma anche alcune tribù indiane delle pianure del Nord America svilupparono e usarono archi di questo tipo. Gli antichi costruttori di archi in Asia orientale e occidentale non si limitarono a rinforzare gli archi con tendine; alcuni si resero conto che in natura esistono materiali più resistenti del legno. Essi idearono, cosi, l'arco composto o a struttura mista, di maggiore complessità meccanica, la cui costruzione richiedeva una perizia notevole. Come indica il nome, questo tipo di arco combina materiali diversi: nella sua forma classica, è costituito da un sottile «cuore» in legno rinforzato con tendine sul dorso e corno, di solito di bufalo indiano, sul ventre. Modernamente questo tipo di arco è stato spesso definito laminato o rinforzato. L'arco composto sfrutta pienamente le proprietà dei materiali impiegati nella sua costruzione. Il tendine incollato al dorso sopporta bene lo sforzo di trazione; il corno, che ha una resistenza massima di circa 13 chilogrammi per millimetro quadrato, all'incirca il doppio di quella dei legni duri usati in precedenza. Prove effettuate dimostrano che un arco composto con una potenza di 27 chilogrammi può imprimere a una freccia la stessa velocità (circa 50 metri al secondo) di un arco lungo medievale in legno di tasso con una potenza di 36 chilogrammi.


L’arco composto è stato ampiamente modificato nel tempo. Verso il XVII secolo, nuove varianti alla struttura di base dell'arco composto vennero introdotte dai turchi ottomani e dalle tribù turche dell'Iran. Si sperimentarono modifiche su archi lunghi solamente 111-116 centimetri: eliminando l'impugnatura arretrata e le montature di osso o corno che rinforzavano le parti terminali dei flettenti degli esemplari più antichi, si otteneva un arco dall'impugnatura rigida e dai bracci che formavano una curvatura aggraziata terminante con estremità leggermente ricurve. Questi archi corti avevano una grande estensione della corda ed erano straordinariamente potenti: la loro potenza andava da 36 a più di 45 chilogrammi, ed era quindi paragonabile a quello dell'arco lungo inglese, che ha dimensioni quasi doppie. Armata con l'arco turco, la cavalleria ottomana si dimostrò formidabile e fu la forza trainante della conquista dell'Europa orientale nel Medioevo. Il declino dell’arco come arma da guerra si ebbe con l’invenzione della polvere da sparo e dei fucili che resero obsoleto l’arco come strumento bellico, che però sopravvisse come strumento adatto all’attività sportiva: caccia e tiro al bersaglio.
Nel 1537, il re Enrico VIII promosse il tiro con l'arco sportivo in Inghilterra, incaricando Sir Christopher Morris di istituire una società arcieristica, la Guild of St. George. Società arcieristiche vennero fondate durante tutto il diciassettesimo secolo e l'indizione di frequenti tornei confermarono il tiro con l'arco come uno sport da competizione: il torneo "Ancien Scorton Silver Arrow" si tenne per la prima volta nel 1673 nello Yorkshire, in Inghilterra e si svolge ancora oggi. Anche le donne si unirono agli uomini nelle competizioni e nel 1787, per la prima volta, furono ammesse in una società arcieristica. La prima società arcieristica Nord Americana, gli United Bowmen di Filadelfia, fu istituita nel 1828; l'entusiasmo per il tiro di campagna, un tipo di competizione che simula la caccia, e la caccia vera e propria, portarono alla fondazione della National Field Artchery Association nel 1939; nel 1979 fu fondata la National Archery Association che iniziò a tenere tornei di tiro alla targa. Il tiro con l'arco fu presente alle Olimpiadi per la prima volta a Parigi, nel 1900; si tirò con l'arco anche nel 1904 a St. Louis, nel 1908 in Inghilterra, e nel 1920 in Belgio. Solo nel 1972 il tiro con l'arco fu di nuovo ammesso alla Olimpiadi. Per organizzare meglio il tiro con l'arco competitivo, gli arcieri polacchi si impegnarono negli anni 30, nella fondazione di un organismo internazionale, la Federation Internationale de Tir L'Arc, meglio conosciuta come FITA, che stabilì un regolamento universale e un tipo di torneo che con il tempo fu adottato sia dagli uomini che dalle donne nelle Olimpiadi moderne. In Italia questo sport è affiliato alla FITARCO, Federazione Italiana Tiro con l’Arco.

Naturalmente gli archi attuali sono ben diversi dagli archi usati nel tempo: il progresso tecnico nella struttura degli archi e delle frecce ha incrementato la loro precisione e la loro robustezza, quindi l'interesse nel tiro con l'arco.
Oggi sono organizzate gare con diversi tipi di arco:
-    arco Long Bow, il tipo di arco più simile all’arco tradizionale, anche se di solito realizzato in base a disegni studiati a fondo e con tecniche moderne: incollaggio di diversi strati di legni di essenze diverse, eventualmente rinforzati da lamine di materiale sintetico;
-    arco cosiddetto “Olimpico”, perché archi di questo tipo sono usati per le gare olimpiche; non più costruiti in legno ma in tre parti distinte, da montare prima del tiro: un riser centrale in metallo e due flettenti, realizzati con materiali sintetici; per il tiro questo arco è equipaggiato con mirino ed altri ausili per il tiro;
-    arco compound, inventato dall’americano H. W. Allen nel 1966: questo arco si serve di pulegge eccentriche o camme, montate alle estremità dei flettenti, e di una incordatura particolare per ridurre la forza necessaria per tenere aperto l’arco e poter usare così archi più potenti. Ideato per la caccia (per poter tirare frecce più lontano e con potere di penetrazione maggiore) questo arco, molto popolare nel Nord America, è usato anche per le gare di tiro, sia alla targa che nel tiro di campagna. Equipaggiato con diversi ausili ed usato con uno sgancio meccanico permette di effettuare tiri di notevole precisione.

La competizione olimpionica con l’arco, definita appunto "Divisione Olimpica", è limitata all'arco ricurvo, mentre le altre forme di arco sono praticate in numerose competizioni sportive in tutte le parti del mondo.
Voglio chiudere questa mia breve storia dell’arco ricordando a tutti Voi che l’arco, oltre che strumento potente di difesa ed offesa, ha sempre avuto per l’uomo un significato simbolico importante. L’arco, dunque, come simbolo che, unito alle frecce, è ovunque un simbolo d’amore. Il dio Amore, il Sole, Shiva hanno tutti l’arco, la faretra, le frecce. L’arco di Ulisse rappresenta il potere di re, in Giobbe è la forza (“nella mia mano l’arco riprenderà la forza”). Nel Sagittario è la sublimazione dei desideri. L’arcobaleno è il simbolo della speranza, del legame tra cielo e terra “E Dio disse, io ho messo il mio arco nella nuvola ed esso sarà per segno del patto tra me e la terra. Ed avverrà che quando io avrò coperto la terra di nuvole, l’arco apparirà nella nuvola” (Genesi 9, 13-14).


Cari amici, spero che la storia dell’arco e del suo cammino a fianco all’uomo abbia riaperto anche in Voi quei file che, spesso, restano dormienti nella nostra mente. In me questo è avvenuto e posso dirvi, senza retorica, che il tiro con l’arco è un vero e proprio allenamento non solo fisico ma mentale. La freccia che scagliata dall’arco vola dritta verso il bersaglio, identifica la nostra  determinazione al raggiungimento del risultato; il gesto fisico è parte integrante del gesto mentale,  gesto che richiede agilità, armonia, fermezza, costanza e determinazione insieme. In ognuno di noi c’è un bersaglio interiore da colpire, e a quello deve tendere il dardo scagliato, facendo in modo che esso colpisca nel segno e non si disperda, appagando il nostro Io e consentendo, alla nostra mente ed al nostro braccio, di raggiungere il risultato cercato. Il tiro con l’arco è una sfida continua, una gara tesa come la corda stessa dell’arco, giocata dall'arciere in lotta con se stesso! E’ proprio in questa gara continua, tra noi ed il nostro Io, che sta la vera essenza di questo nobile sport.
Alle soglie delle festività giunga a tutti Voi il mio più sincero augurio di
B U O N E   F E S T E !
Mario


lunedì, dicembre 17, 2012

SVILUPPO ED OCCUPAZIONE. POSSEDERE LE RISORSE E IGNORARLE E’ PEGGIO CHE NON AVERLE. UN CASO ECLATANTE: IL LAGO OMODEO E LA DIGA “ELEONORA”, RISORSE DI GRANDE RILIEVO ECONOMICO E TURISTICO CHE NON TROVANO LA GIUSTA VALORIZZAZIONE.

Oristano, 17 Dicembre 2012
Cari amici,
la Sardegna oggi rappresenta, nel panorama delle regioni italiane, una realtà economica di modesto valore, classificandosi nei posti più bassi della classifica, sia come Prodotto Interno Lordo che come redditi pro capite. Eppure esaminando i parametri base per il calcolo della ricchezza potenziale i dati non quadrano: c’è una abissale differenza tra ricchezza potenziale e ricchezza prodotta. La nostra Isola ha una dotazione naturale di grande spessore che, opportunamente utilizzata, potrebbe farci fare un salto di qualità di non poco conto. Questa mia affermazione non è così  campata in aria.
Il rapporto territorio/abitanti dimostra che abbiamo spazi a sufficienza, dove poter impostare attività sia turistiche che economiche di rilievo senza arrecare danni o modifiche irreversibili al territorio: nella nostra vasta regione siamo meno di 1.500mila abitanti. La nostra invidiabile posizione al centro del Mediterraneo ci consente di godere di un clima favorevole, con temperature mai esagerate, sia d’inverno che d’estate. Sole, clima, spazi e coste fra le più belle della nostra nazione, dovrebbero fare della nostra isola un potenziale paradiso. Un solo esempio: nei nostri campi da golf si può giocare 365 giorni all’anno! Sardegna regione-cartolina ma incapace di dare buon reddito ai suoi abitanti. Non basta, poi, la dotazione naturale prima riportata, c’è dell’altro. La straordinaria storia della nostra Isola, abitata fin dalle epoche più remote (forse l’ultima propaggine della mitica Atlantide), evidenzia un patrimonio culturale millenario, che spazia dai nuraghi alle tombe di giganti, dai villaggi nuragici del neolitico alle foreste fossili, per arrivare ai “Giganti di Mont’e Prama”, le enormi statue di arenaria rinvenute nel Sinis di Cabras, che hanno rivoluzionato la storia del Mediterraneo,  patrimonio che  dovrebbe costituire un richiamo turistico forte, sia turistico che culturale e commerciale. Eppure tutto questo patrimonio potenziale rimane dormiente, senza utilizzo economico, mentre i nostri giovani  migliori sono costretti, nonostante le capacità, ad emigrare per mendicare un posto di lavoro. La Sardegna le risorse le ha ma non le mette in opera. Sviluppo ed occupazione partono dall’utilizzo delle risorse, non vi sono alternative.

Nella primavera scorsa con un gruppo di amici provenienti dal nord Italia abbiamo fatto una piccola escursione sul lago Omodeo. La richiesta di visitare il lago fu fatta da loro, considerando che avevano saputo che questo nostro lago è oggi il lago artificiale più grande d’Europa. Nella breve e piacevole gita ci recammo a visitare i piccoli paesi che si affacciano su questo lago: Zuri, Tadasuni, Boroneddu, Sorradile, Soddì ed altri. Questi amici rimasero estasiati sia della bellezza dei luoghi che dei piccoli borghi, apprezzandone tutta la loro bellezza e la serenità che ispiravano. Quando ci affacciammo sulla riva del lago mi dissero che era bellissimo, che non aveva niente ha da invidiare agli altri laghi sia italiani che europei, ben più famosi e conosciuti.  Era fine primavera e la tiepida giornata invitava a passeggiare nel verde, respirando, con un senso di pace, il profumo primaverile. Un silenzio rilassante ci avvolgeva: intorno a noi piccoli boschi di querce, chiesette e villaggi campestri e piccoli greggi al pascolo. Una bellezza semplice e maestosa allo stesso tempo. Difficile da descrivere perché indefinibile: si può apprezzare ed ammirare solo immergendosi al suo interno. 

Al rientro, stanchi ma appagati, felici, la discussione sulla giornata e sui luoghi riprese. In sostanza la domanda, pur espressa in mille modi, era una sola: com’è  che possedendo tesori di questo tipo, vivendo in un mondo meraviglioso, quasi unico, non siete capaci di valorizzare questo patrimonio? Perché non utilizzate queste risorse per creare lavoro ai giovani che, disperati, “fuggono”, cercando lavoro in altre  parti d’Europa? Le risposte, purtroppo mancavano ed ancora mancano. Certo, qualcuno ci prova anche se i risultati non sono concreti.
I sindaci di questi minuscoli paesi continuano a provarci. Il Sindaco di Sorradile, Pietro Arca, ha provato ad attivarsi cercando aiuto e sostegno negli altri sindaci del territorio. La sua idea è quella di promuovere ed elaborare un “Unico sistema turistico” che unisca i sessanta comuni dell’isola che si affacciano sui laghi. L’adesione degli altri c’è stata, anche se la realizzazione richiede investimenti importanti. Questo limita i progetti ed i passi in avanti saranno a dir poco lenti. Rilanciare le zone interne e favorire lo sviluppo turistico dei piccolo comuni, questo è l’imperativo, perché la Sardegna non può essere solo vacanza al mare per due o tre mesi! Tutta l’Isola deve attivarsi, facendo squadra, perché da soli non si fa molta strada. Le poche iniziative messe in atto sino ad oggi sono state portate avanti da piccoli consorzi, incapaci di dare risposte ad un mercato turistico internazionale che si sta sviluppando sempre di più. I piccoli centri, i borghi, le zone interne, la cultura, la gastronomia, l’ospitalità della nostra isola sono elementi importanti per far decollare un nuovo turismo, ma il tutto supportato da strutture portanti forti, pubbliche e private.
Il sardo è notoriamente un soggetto che non si associa facilmente. Retaggio questo, certamente, di millenni di dominazioni e vessazioni subite nei secoli dai conquistatori, ma che oggi costituisce un grosso handicap. Oggi è tempo che le ‘nuove generazioni’ rompano questo schema arcaico che ha fortemente limitato lo sviluppo di tutta l’Isola. Timidamente, forse, qualcosa comincia a cambiare. Pochi giorni fa, il 9 Dicembre, ho letto su l’Unione Sarda che dopo vent’anni di attesa è imminente l’apertura del primo albergo che si affaccia sul lago Omodeo. Buone notizie, dunque, che si spera non restino isolate. La nuova struttura di media dimensione (una settantina di posti letto, ampio ristorante e grande sala convegni, oltre che piscina, campi da tennis e bocce ed escursioni in canoa) potrebbe soddisfare le esigenze sia del turismo estivo che di quello pre-estivo e congressuale, coprendo anche quei mesi fuori dal turismo di massa.
La Sardegna con iniziative rivolte non solo sulle coste ma su tutto il suo territorio potrebbe,  davvero, dare vita a quel decollo che da tempo si attende. Il vasto lago e la sua grande ed impressionante diga che lo ha creato potrebbero essere proprio il punto di partenza di un ‘nuovo corso”, capace di darci quel ritorno economico tanto atteso, fatto di agricoltura d’avanguardia, allevamento (valorizzando il cavallo), turismo culturale, sportivo e ricreativo, indirettamente trainanti verso molti altri settori dipendenti, come artigianato, piccola industria, commercio e servizi.
Abbiamo parlato del lago e della sua diga,  studiandole il potenziale, ma per molti sardi i “numeri” di queste due grandezze non sono molto noti. Ecco, per la curiosità di molti, la storia del più grande lago artificiale d’Europa, la cui costruzione iniziò nel 1919.

La diga che possiamo ammirare attualmente porta il nobile nome di ‘Eleonora d’Arborea’ ma essa non è  il primo sbarramento costruito su questo fiume (il Tirso). Il primo bacino artificiale fu realizzato con la costruzione della diga di Santa Chiara, presso Ula Tirso, i cui lavori, iniziati nel 1919, furono completati nel 1924. Fu inaugurata il 28 aprile dello stesso anno alla presenza del re Vittorio Emanuele III, dando origine al più grande lago artificiale d'Europa, con una capacità massima di 403 milioni di metri cubi d'acqua. Per la sua costruzione furono impiegati 16.000 operai che realizzarono l’opera su progetto dell'ingegnere Angelo Omodeo, tecnico di vaglia, che partecipò anche alla costruzione delle grandi dighe sul Nilo. I lavori durarono cinque anni e si svolsero sotto la direzione dell'ingegnere Giulio Dolcetta. Per dare alloggio ai numerosi lavoratori fu costruito il villaggio di Santa Chiara, costituito da alloggiamenti per operai e per il personale tecnico. Il villaggio funzionò come una vero e proprio borgo, con al centro anche una piccola chiesa. Il villaggio, attualmente abbandonato, si trova in un totale stato di degrado,  mentre potrebbe essere, invece, interessante pensare ad un suo “riutilizzo” in campo turistico. Il primo bacino realizzato era lungo più di 22 km e la sua creazione determinò la sommersione di alcuni siti archeologici: nuraghi, tombe di giganti, l’antichissima foresta fossile, l'insediamento prenuragico di “Serra Linta”, come anche il piccolo villaggio abitato di Zuri, che venne riedificato su un'altura poco distante dal lago, scomparvero sotto le sue acque. L'antica chiesa del villaggio, dedicata a San Pietro Apostolo, venne smontata concio per concio e ricostruita nell'attuale posizione. L’obiettivo principale della realizzazione della diga era l’immagazzinamento delle piene del fiume Tirso al fine di derivarne una portata costante di 20 mc/sec, da utilizzare principalmente per irrigare circa 20.000 ha di terreno nel Campidano di Oristano e produrre energia elettrica e, in via secondaria, per uso potabile”.  

Negli anni Sessanta e Settanta, a seguito delle lesioni che ne limitavano fortemente l’utilizzo, si studiò la possibilità di creare una nuova diga, in quanto quella esistente non dava sufficienti garanzie di sicurezza. I lavori di costruzione iniziarono nel 1982 e la nuova diga ‘Eleonora d’Arborea’ fu inaugurata il 23 gennaio 1997 dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Il nuovo bacino, che è lungo 25 km, raggiunge una larghezza massima di circa 5 km ed una profondità media di 19,6 metri (massima di 55 metri), ha una superficie totale di 29,5 kmq; lentamente ma inesorabilmente il nuovo invaso sta ormai sommergendo altri terreni, siti nuragici, abitazioni ormai disabitate ed anche la vecchia diga di Santa Chiara, di cui tra poco tempo non rimarrà che il ricordo. Il nuovo sbarramento è alto 120 m. e lungo 582 metri. A pieno regime l’invaso raggiungerà una capacità di 748 milioni di metri cubi, capaci di fornire l’acqua per irrigare 52.525 ha, contro i 20.000 del precedente.

 Il territorio su cui sorge la diga ed il lago artificiale da essa creato è un importante “sito di interesse comunitario”, per via della sua rilevante importanza sia dal punto di vista paesaggistico che ambientale. Dal punto di vista floristico-vegetazionale le sponde del lago Omodeo sono caratterizzate principalmente da formazioni boschive di leccio (Quercus ilex) e dalla macchia mediterranea, alle quali, spesso, si sostituisce la roverella (Quercus pubescens). Sono inoltre presenti specie caratteristiche della vegetazione riparia come il pioppo bianco (Populus alba), il salice fragile (Salix fragilis), l'olmo campestre (Ulmus minor), il frassino (Fraxinus ornus), il tamericio (Tamarix gallica e Tamarix africana) e l'alloro (Laurus nobilis).
La fauna è maggiormente rappresentata dagli uccelli, sia stanziali sia migratori. Le specie più comuni sono la ghiandaia marina (Coracias garrulus), l'occhione comune (Burhinus oedicnemus), il falco pellegrino (Falco peregrinus), il falco pescatore (Pandion haliaetus) ed il piro piro piccolo (Actitis hypoleucos). Tra gli uccelli acquatici sono presenti il codone comune (Anas acuta), il moriglione (Aythya ferina), il mestolone comune (Anas clypeata), l'alzavola (Anas crecca), il fischione (Anas penelope), la folaga (Fulica atra), la gallinella d'acqua (Gallinula chloropus), il germano reale (Anas platyrhynchos), la canapiglia (Anas strepera), l'oca selvatica (Anser anser), la garzetta (Egretta garzetta), l'airone bianco (Egretta alba) e l'airone cenerino (Ardea cinerea). Gli anfibi ed i rettili più comuni sono il discoglosso sardo (Discoglossus sardus), il tarantolino (Phyllodactylus europaeus), la testuggine palustre (Emys orbicularis) e la tartaruga di terra (Testudo hermanni). Tra i vari pesci presenti (carpa,  trota, persico, latterino) va segnalata la presenza dell'agone (Alosa fallax lacustris).

Cari amici, secondo il mio punto di vista, il lago Omodeo ed il suo territorio circostante, opportunamente valorizzato, possono fare da volano a numerose iniziative turistiche di prim’ordine. La sistemazione ad “albergo diffuso” dei piccoli comuni, la rinascita degli antichi borghi, delle botteghe artigiane può essere un modo innovativo per rivitalizzare un territorio ormai in coma profondo. Investendo e facendo investire in queste “segrete oasi di pace” (diversi stranieri hanno già iniziato a comprare a prezzi bassissimi case-vacanze in questi paesini del lago) possiamo dare vita ad un turismo che abbracci non solo le coste e non solo i classici mesi di Luglio e Agosto. Nei centri dell’interno la vita può davvero riprendere a scorrere, rivitalizzando borghi e campagne, offrendo turisticamente la nostra tranquillità, la nostra genuinità e soprattutto la nostra proverbiale ospitalità. 

Il nostro lago, se vogliamo, può davvero calamitare flussi turistici di ogni tipo: da quelli della terza età a quelli sportivi, da quelli della pesca a quelli delle gare su lago, da quelli culturali a quelli del sano riposo, lontano dalla infernale ed alienante vita delle grandi città. Dare futuro ai giovani, dare nuova vita alla Sardegna, soprattutto a quella dell’interno, dipende solo da noi e dalla nostra capacità di farlo. Solo noi possiamo farlo! Gli altri, quelli che sono da sempre venuti in Sardegna solo per “sottometterci” non lo faranno, perché continueranno a considerare la Sardegna colonia e gli abitanti loro sudditi.
Noi sardi è tempo che ci svegliamo, o saremo sempre come gli spagnoli ci definirono secoli fa:
“Pocos, locos y male unidos”
Auguri a tutti!
Mario


mercoledì, dicembre 12, 2012

I PRIMI 50 ANNI DELLA COOPERATIVA ALLEVATRICI SARDE. UNA CHIARA DIMOSTRAZIONE DELLA CAPACITA’ IMPRENDITORIALE DELLE DONNE, IN PARTICOLARE DI QUELLE SARDE. FORTI, CAPACI E “BARROSAS”, DETERMINATE NEL COMPETERE A PIENO TITOLO CON GLI UOMINI.

Oristano, 12 Dicembre 2012,
Cari amici,
ho partecipato con gioia e curiosità insieme, al Teatro Garau, alla celebrazione dei primi 50 anni della C.A.S.
La presenza di tante persone conosciute, dei tanti amici, mi ha riportato col pensiero indietro nel tempo. Si è riaperto il file dei ricordi, quelli giovanili, e mi sono rivisto nella casa dei miei genitori, ancora giovane studente, ad osservare il sorriso di mia madre che con grande gioia acquistava una nidiata di pulcini vocianti dall’auto che reclamizzava ed offriva un “servizio” nuovo e straordinario per allora: la vendita di pulcini appena svezzati da mettere subito in cortile per essere allevati. Erano gli anni sessanta, quelli della difficile ricostruzione dalle macerie della seconda guerra mondiale, e la vita riprendeva a scorrere. Questo “servizio nuovo”, offerto dalla neonata Cooperativa Allevatrici Sarde, nata nell’estate del 1962, consentiva un congruo risparmio di tempo alle casalinghe che negli ampi cortili che circondavano le case provvedevano sia alla coltivazione degli ortaggi necessari al fabbisogno familiare che all’allevamento degli animali da cortile. L’acquisto dei pulcini, anziché provvedere direttamente alla riproduzione “fatta in casa”, con uova da covare, gallo e cosi via, consentiva di poter disporre, senza perdite di tempo ed in qualsiasi periodo dell’anno, dei pulcini già pronti da allevare e portare in breve tempo a maturazione.

Chi pensava che l’iniziativa portata avanti da un primo pugno di donne fosse un fatto estemporaneo, si sarebbe, forse a malincuore, dovuto ricredere. L’iniziativa avrebbe ben presto preso piede e si sarebbe affermata, non come altre portate avanti in precedenza magari dagli uomini: le donne sarde hanno capacità incredibilmente valide e forte determinazione, riuscendo a ben “lavorare insieme”. La Cooperativa che portò avanti questa iniziativa nacque ufficialmente l'8 agosto del 1962 dall'intraprendenza e lungimiranza di un gruppo di donne rurali dell'Oristanese che misero insieme le loro forze per razionalizzare l'allevamento di piccoli animali da cortile destinato all'autoconsumo. Era una iniziativa tutta artigianale, con l’utilizzo di piccole incubatrici e tanto lavoro manuale, fatto però con incredibile passione. In questo mezzo secolo la C.A.S. si è evoluta, trasformata, senza però mai dimenticare quello spirito solidaristico ed ingegnoso che l’accompagnava fin dalle origini. Evoluzione, lo sappiamo bene, significa migliorarsi senza rinnegare le radici ed in questo caso ha significato capire ed anticipare “ in continuazione” i bisogni della gente, trovando di volta in volta le giuste soluzioni. La donna, questo lo dico con convinzione,  ha spesso un “fiuto” ed una visione dei bisogni, anticipati rispetto all’uomo anche se quest’ultimo difficilmente è capace di ammetterlo. Dall’allevamento dei pulcini all’ingresso prima nel settore alimentare e poi in quello della grande distribuzione e dell’agriturismo, per questo agguerrito gruppo di donne, il passo non è stato brevissimo ma lento e determinato. Oggi, cinquant’anni dopo la fondazione, i risultati sono evidenti ed alla luce del sole: una crescita esponenziale che ha portata la società a sviluppare numeri, competenze ed attività, diventando un esempio da copiare e da imitare. I numeri sono tutti di primo piano. Oggi questa Cooperativa, tutta al femminile, è in Europa un numero uno.
La C.A.S., questa cooperativa di consumo, ora conta ventidue punti vendita, un fatturato annuo di circa undici milioni di euro ed oltre 10.800 socie, figlie e nipoti di quel gruppo originario di casalinghe che sono state capaci di trasformarsi in brave amministratrici e imprenditrici. Una bella “storia di donne” (sono ancora attive circa 15 socie fondatrici) che con ostinazione e caparbietà hanno saputo costruire un'impresa dove, forse, gli uomini non avrebbero avuto tanto successo. Quella brillante idea che cinquant'anni fa poteva essere definita “rivoluzionaria”, ha avuto un effetto moltiplicatore incredibile come i numeri prima citati hanno dimostrato. Nel 1962 pensare, infatti, che un gruppo di casalinghe dell'Oristanese potessero unirsi per fare impresa era al fuori dall'immaginazione. Eppure, grazie alla volontà e al coraggio di quelle donne, la bella realtà di oggi è sotto gli occhi di tutti. Anche la crescita importante che l’agriturismo ha avuto in Sardegna deve molto alla loro intraprendenza: furono Loro a mettere in atto, quella calda ospitalità tutta sarda, sotto quelle domestiche ed amichevoli forme di ricettività oggi sempre più diffuse in tutta la Sardegna. Come sostiene l’attuale Presidente Maria Brai. «La nascita e il consolidamento della società sono dovuti all'iniziativa e al lavoro delle operatrici rurali e sociali impegnate nel “Progetto Sardegna”, programmato dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico; le operatrici continuano il loro lavoro nell'ambito degli enti di sviluppo agricolo dell'isola. Punto di partenza di queste attività è rappresentato dall'opera di valorizzazione delle industrie domestiche femminili tradizionali già avviate al Progetto Sardegna che si indirizzano prevalentemente alla tessitura, alla cestineria e all'allevamento domestico di animali di bassa corte».
L'allevamento dei pulcini, che rappresentò lo scopo iniziale dell'associazione, oggi non è più un elemento dell'attività della C.A.S., è scomparso con l'arrivo dell'aviaria. L'EVOLUZIONE «Grazie alla filosofia diffusa attraverso il Piano di rinascita e agli strumenti messi a disposizione dal Progetto Sardegna» spiega Antonella Casula, archivista e autrice di un'opera sulla Cooperativa, «le socie fondatrici prendono parte a corsi di formazione professionale organizzati nei comuni di residenza dove apprendono le nozioni ma soprattutto imparano a prendere coscienza della loro dimensione di donne economicamente attive in una società in rapida trasformazione. L'evoluzione in cooperativa di consumo avviene come risultato delle mutate condizioni economiche generali della società e dell'azienda attribuibili in particolare alla crescente concorrenza ad opera degli allevamenti industriali».
La scommessa “vincente” di queste donne “BARROSAS”, come orgogliosamente si sono volute definire, non è stata sempre una passeggiata. In cinquant'anni non tutto è filato liscio: un grosso incendio doloso nel 1992 mise a dura prova la volontà e la determinazione di queste donne che non si piegarono. «Quel rogo causò grossi danni, tutte le nostre scorte di prodotti vennero ridotte in cenere» racconta Maria Brai. «Eppure non riuscì a fermarci: tanto che nel giro di due settimane riuscimmo a riavere le merci in deposito pronte per partire nei vari punti vendita. Tutto questo grazie a una mobilitazione corale delle socie ancor più determinate a riprendere l'attività». Una reazione straordinaria che suscitò anche la solidarietà delle banche che offrirono la copertura, poi non necessaria. Questi tempi li ricordo anche per esperienza “personale”, avendo svolto all’epoca la mia mansione di manager bancario, mentre la Presidente Maria Brai, allora, era il direttore della Cooperativa.
  
Ora è tempo di festeggiamenti. Per brindare ai primi cinquant'anni di vita, la C.A.S., con il patrocinio di Provincia e Comune di Oristano, Fondazione Banco di Sardegna, GAL Terre Shardana, FidiCoop Sardegna, LegaCoop e Camera di Commercio di Oristano, ha organizzato, lunedì scorso 10 dicembre ad Oristano, un convegno al Teatro Garau e una mostra concepita e allestita ad hoc all'Hospitalis Sancti Antoni” che, attraverso video e fotografie racconta la storia tutta al femminile della cooperativa Una storia di donne ostinate e caparbie, come suggerisce il titolo dell'iniziativa: "Mancai barrosas".



La partecipazione a questa bella manifestazione ha rivitalizzato i miei ricordi. Un giornale questi giorni, riportando l’avvenimento ha cosi scritto: si usa “Non chiedere mai l’età alle donne”, ma alle 10.800 socie della Cooperativa allevatrici sarde che festeggiano i primi cinquant’anni del sodalizio, non è indelicato chiedere l’età. Perché mezzo secolo trascorso a crescere, mettendo assieme conoscenza, idee, passione e soprattutto, obiettivi, diventa un traguardo, ancor più se si pensa che il cinquantenario cade negli anni della grande crisi economica.
Salutando Maria Brai, una vita intera trascorsa all’interno di questa splendida realtà, mi è scappato da dire che Lei impersona in modo straordinario la caparbietà delle donne sarde: Barrosa, ieri, oggi e certamente anche domani!  Auguri, Maria, di vero cuore, a Te e tutte le undimila socie”! A chent’annos!
Mario


lunedì, dicembre 10, 2012

BERLUSCONI E L’IMPOSSIBILE RITORNO AL PASSATO. COSTRUIRE IL FUTURO SIGNIFICA ANCHE ESSERE CAPACI DI “PASSARE LA MANO”, NON ARROCARSI NELLA ERRATA CONVINZIONE DI ESSERE INDISPENSABILI.

Oristano, 9 Dicembre 2012
Cari amici,
credo che solo qualche giorno fa nessuno pensasse ad una incombente crisi di governo. 
Invece, con un gran botto, in poche ore questo è avvenuto. La bomba delle imminenti ed ormai decise dimissioni del Presidente del Consiglio Mario Monti, uomo certamente oggi tra i più stimati in Europa, scuote e fa impensierire non solo l’Italia ma l’intera Europa, oltre che buona parte del resto del mondo.  Gli equilibri instabili, lo sappiamo, hanno il difetto di poter vacillare e precipitare in qualsiasi momento, e che il governo italiano si reggesse su equilibri alquanto instabili (il sostegno dato al governo tecnico dai due partiti avversi, PD e PDL non era certo frutto d’amore ma di convenienza), era cosa nota. Il Presidente del Consiglio Monti ha assunto l’inaspettata decisione di lasciare l’incarico dopo aver rilevato dalle  dichiarazioni rese in Parlamento dal Segretario del PDL on. Angelino Alfano, conseguenti all’astensione del suo partito su alcuni provvedimenti governativi, che l’appoggio finora dato al Governo era terminato.

Dichiarazioni, quelle di Alfano, che esprimendo un giudizio negativo sull’operato del Governo ne determinavano “la sfiducia” sulle sue linee d’azione. Il Presidente del Consiglio di un “governo tecnico” come il suo non poteva certamente restare indifferente a questo giudizio e ne ha tratto le conseguenti conclusioni: considerare esaurito il compito del governo tecnico, comunicandone prontamente  la decisione  al Capo dello Stato. Così è stato ed ora la palla passa nelle mani del “grande vecchio”, il Presidente Napolitano. Monti, con coerenza, ha ufficializzato che si dimetterà dopo l’approvazione della Legge di Stabilità.  Dimissioni, quindi,  una volta approvata la legge di stabilità, sempre che non si voglia andare all'esercizio provvisorio. La contromossa di Mario Monti allo 'strappo' di Silvio Berlusconi ha spiazzato persino Giorgio Napolitano che, ora, pare pensi già ad una accelerazione della data del voto, previsto per Marzo. Le urne potrebbero aprirsi in anticipo a febbraio. Un'evoluzione inattesa, quella generata da PDL, che ha portato il Premier a fare una mossa rapida e forse imprevista,  dettata dalla volontà di non farsi "impallinare" né "logorare" in Parlamento, da un partito che, accusandolo di aver danneggiato l'economia del Paese, lo ha di fatto "sfiduciato", prima della conclusione concordata del programma di risanamento, avviato circa un anno fa.

Chi non ricorda la travagliata nascita di questo governo che veniva chiamato ad operare in un momento cosi drammatico per la vita democratica del nostro Paese? Chi non ricorda i terribili momenti di tensione derivati dalle dichiarate ma non  presentate “dimissioni” di Berlusconi rimaste in “forse”…per giorni? Decisione certo sofferta, quella di Berlusconi, ma poi arrivata con grande sollievo e formalmente da Lui annunciata come “un passo indietro per il bene del Paese”. Non sta a me, che non sono un esperto politologo, entrare nel merito delle alchimie della politica. Certamente il Paese risentirà di questo improvviso cambiamento. Forse tanti provvedimenti portati avanti con grande sacrificio e pronti per essere approvati, andranno in fumo. I decreti, pronti da trasformare in legge e giacenti in Parlamento, sono numerosi. Il primo che non vedrà la luce è il decreto sulla crescita ribattezzato anche ‘Crescitalia’. Senza dimenticare il ripetuto decreto ‘milleproroghe’, quello per la ‘delega fiscale’, quello sulla legge sulla concorrenza, quello per l’abolizione delle Province ed, infine, il decreto sulla presentazione di ‘liste pulite’, ovvero sulla incandidabilità dei condannati per reati importanti.  Che dire, poi, del tormentato iter per modificare la legge elettorale attuale ben nota come “Porcellum” ?

Cari amici, faccio da “cittadino” questa riflessione con Voi, senza astio e partigianeria, da persona che ‘da sempre’ ha avuto la convinzione che ognuno di noi, piccolo o grande che sia, è nei confronti della Società a cui appartiene uno strumento utile ma non indispensabile. Utilità quella fornita sia dal cittadino-amministratore che dal cittadino-amministrato, nella logica altruistica e mai egoistica; collaborazione e “servizio” prestati da ciascuno, nella logica dell'apporto "utile" alla Società, senza mai considerarsi "indispensabili"! Nessuno, dal più importante al più umile, può arrogarsi il diritto di ritenersi indispensabile! Il mondo esisteva prima di noi ed esisterà, certamente anche dopo, quando noi non ci saremo. Credo che ognuno di noi sia tenuto a fare la sua parte, per il periodo giusto, passando poi necessariamente il testimone ad altri. Questo mio concetto, però, non è condiviso da tutti. C’è chi pensa invece di essere “unico”, considerando gli altri incapaci di sostituirlo.

Sono convinto che Berlusconi ha nei confronti di se stesso questa convinzione. Un anno fa dopo aver “fatto finta” di passare la mano, dopo aver consegnato il partito al “giovane” Angelino Alfano, aveva ufficialmente dichiarato di voler staccare la spina, di essere per il suo partito solo un buon “consigliere”, un po’ come avviene nelle aziende con la figura del “Presidente Onorario”. Così non è stato. Silvio Berlusconi, dopo aver fatto finta di ‘mettersi in pensione’ ha deciso di tornare in campo, per rimettersi a giocare davvero “sul serio”. Nel corso di un recente incontro ad Arcore con Angelino Alfano e Gianni Letta, l’ex premier ha spiegato che la sua “fase di attesa” era terminata. Arringando il suo “segretario” Alfano lo ha così apostrofato: “Angelino, adesso basta con questa farsa delle primarie. Io a metà dicembre faccio saltare tutto: governo, primarie e pure Pdl. E mi candido premier. E non ho intenzione di chiedere il permesso a un partito che ho fondato io”.  Sono parole che, credo, non abbiano bisogno di commenti.
Un ritorno, quello di Berlusconi che ha spiazzato non pochi, per primi quelli del suo partito. Tutti da Bersani a Grillo, da Casini a Fini sono sconcertati.  Berlusconi è tornato in campo come un carro armato: non per sedere ancora in Parlamento come deputato, ma per insediarsi nuovamente come Premier. "Io non entro in gara per avere un buon posizionamento, entro per vincere. L'opinione di tutti era che ci volesse un leader come un Berlusconi del 1994 ma non c'era. E non è che non l'abbiamo cercato. L'abbiamo cercato". Così si è espresso l'ex premier parlando nei giorni scorsi con i cronisti a Milanello dove era andato a seguire l'allenamento del Milan. 










I commenti acidi si sprecano. Grillo, portatore di una grossa fetta del malessere che serpeggia tra gli italiani ed accreditato per un forte successo alle prossime elezioni politiche, dopo le dichiarazioni di Berlusconi si è così espresso: "Aveva fatto un passo indietro per il bene della Nazione, ma adesso tre in avanti per la condanna a 4 anni di reclusione per frode fiscale perché 'Obbligato' a rimanere per riformare il pianeta giustizia". Nel suo contatto Facebook e sul sito web, Grillo ha così commentato il ritorno in campo di Berlusconi: “Condannato e resuscitato. Ancora tu? Non dovevamo vederci più?”; aggiungendo, poi, “”Non sono passati neppure i tre giorni canonici ed è già uscito dalla tomba prima che la Santanché e Bugs Bunny Alfano potessero avvolgerlo nel sudario e levarselo dalle palle per sempre, è già risorto!”. I commenti caustici non sono limitati a quelli di Grillo. Pier Luigi Bersani così commenta: «Sono preoccupato di questa posizione di Berlusconi, perché di populismi ne abbiamo già un bel po’...». Casini, invece sostiene che: «Berlusconi ha devastato, in questi anni, l’unità dei moderati. Ieri ha dimostrato che su quella base si può creare un partito populista di destra che non ha nulla a che fare con il partito popolare europeo e con i moderati». Potrei citarne altre ma credo sia superfluo, inutile.

Cari amici, la situazione che vive il nostro Paese è davvero molto seria. Non è più tempo di individualismi  e di egoismi personali che possono portare la Nazione e tutti noi verso un baratro da cui sarebbe molto difficile risollevarsi. Non è tempo, soprattutto, di “ritorni al passato”. Io non sono un antiberlusconiano, non lo sono mai stato. Berlusconi ha certamente fatto negli anni la sua parte, ma il suo compito, per mille ragioni, è ora terminato. E’ tempo che lasci il campo ad altri: non faccia il padre-padrone, perché perderebbe anche quel poco credito che gli è rimasto. Non dimentichi mai che gli avversari, che lui ben conosce, sono sempre più agguerriti e pronti a fargli pagare le antiche colpe. Un ritiro dignitoso sarebbe certamente preferibile ad una cocente senile sconfitta. Lasciare il campo necessita di lungimiranza, altruismo, acume, intelligenza e saggezza. Questo non è riferibile solo a Berlusconi ma anche ai tanti dinosauri della politica: sia a destra che a sinistra, senza dimenticare Bersani e  D’Alema. Il cambio generazionale è possibile basta volerlo.
Mi viene in mente, prima di chiudere questa mia riflessione, una delle favole di Fedro (Gaio Giulio Fedro, 20 a.C. circa – 51 d.C. ca., è stato uno scrittore romano, autore di celebri favole) che, da saggio osservatore della sua epoca, utilizzava gli animali per mettere a nudo i vizi degli uomini: quella del vecchio leone morente, validissima anche oggi. Eccola, per gli appassionati, sia in latino che in italiano.
Testo latino:
“Quicumque amisit dignitatem pristinam, ignavis etiam iocus est in casu gravi”.
Defectus annis et desertus viribus leo cum iaceret spiritum extremum trahens, aper fulmineis spumans venit dentibus, et vindicavit ictu veterem iniuriam. Infestis taurus mox confodit cornibus hostile corpus. Asinus, ut vidit ferum inpune laedi, calcibus frontem extudit.
At ille exspirans  «Fortis indigne tuli mihi insultare: te, naturae dedecus, quod ferre certe cogor bis videor mori».

Libera traduzione in italiano:

“Chi perde il suo potere, anche il più vile si prende gioco della sua rovina”.
Tradito dalle forze e dall'età il leone covava la sua fine. A vendicarsi d'un'antica offesa venne il cinghiale dal fulmineo dente. Poi venne il toro, e le sue corna ostili scavarono in quel corpo di nemico. L'asino vide i colpi non puniti e gli sferrò il suo calcio nella fronte.
Il leone spirò. Ma prima disse: «Amaro fu l'assalto di quei forti. Ma dopo il tuo, viltà della natura, mi sembra di morire anche due volte».

Credo che anche Berlusconi dovrebbe temere non solo l’assalto dei “forti” ma anche quello dei “deboli”, oggi rappresentati da quella vasta platea di scontenti che si ritrovano sotto un cielo a “Cinque stelle”…!
Grazie a tutti Voi dell’attenzione.
Mario


venerdì, dicembre 07, 2012

ORISTANO. LA PARROCCHIA DELLA BEATA VERGINE MARIA IMMACOLATA DEI FRATI CAPPUCCINI CELEBRA I 40 ANNI DELLA SUA FONDAZIONE.

Oristano 7 Dicembre 2012
Cari amici,
domani nella mia Parrocchia, la chiesa dedicata alla Beata Vergine Maria Immacolata in Viale  San Martino, sarà festa grande: verrà celebrato il quarantesimo anniversario della sua fondazione, avvenuta l’8 Dicembre del 1972. Fu Sua Ecc. Rev.ma Mons. Sebastiano Fraghì, Arcivescovo di Oristano all’epoca, a volerla istituire affidandola al cappuccino Padre Felice Pinna.
Era allora, questa, la settima parrocchia della città di Oristano che in quegli anni sviluppava una buona crescita; essa nacque sottraendo una parte del territorio urbano alla parrocchia della Cattedrale ed a quella del Sacro Cuore.  L’arcivescovo Fraghì, come si legge nella sua Bolla Arcivescovile, “data a Oristano, dalla nostra Curia Arcivescovile, il giorno otto dicembre millenovecento settantadue..” cosi motivava la nuova parrocchia: “…Noi Sebastiano Fraghì, Per grazia di Dio e della Sede Apostolica Arcivescovo di Oristano, per poter provvedere più facilmente e più efficacemente alla salvezza eterna delle anime…abbiamo deciso di smembrare le due parrocchie della Cattedrale e del S. Cuore ed erigere una parrocchia nuova…: la chiesa sotto il titolo della B. Maria V. Immacolata, sita in viale S. Martino, officiata dai PP: Cappuccini… la erigiamo in parrocchia…”.
Chiesa importante quella dei frati cappuccini, da sempre dedicata alla Madonna, di antiche origini, che prima di essere eretta in parrocchia aveva già una sua grande e bella storia alle spalle. Eccola.

La chiesa dei cappuccini fu edificata fuori dalle antiche mura, non distante dal Palazzo giudicale e dalla “Piazza de sa Majoria”, l’attuale Piazza Manno. Fu eretta agli inizi del XVII secolo (nel Martini leggiamo che la chiesa ed il Convento furono eretti nel 1608, secondo il Vico e le carte provinciali; secondo il Bollario, invece, nel 1609), grazie alla munificenza del nobile oristanese Domenico Paderi. Famiglia importante quella dei Paderi, la cui austera abitazione (palazzo Paderi) è ancora oggi visibile, affacciata in piazza Eleonora e costruita tutta in conci di arenaria. Famiglia nobile ed anche devota quella di Domenico Paderi: un suo omonimo e parente successivamente migliorò ed ampliò i locali del complesso monastico.  La struttura conventuale fu  dunque costruita al di fuori del circuito delle antiche mura medioevali, all’altezza della torre di “Porta a mari”, sulla strada che uscendo dalla città si avviava verso il mare; l’ampia area di edificazione, come hanno dimostrato successivamente le analisi archeologiche, non era stata interessata da costruzioni precedenti riferibili ad edifici di culto preesistenti. I fabbricati edificati erano inizialmente costituiti, oltre che dalla chiesa, da un ampio convento e da un grande orto. L’edificio ecclesiastico fu eretto, come possiamo ancora oggi vedere, su un piccolo terrapieno, in posizione rialzata rispetto al piano stradale. La chiesa originariamente era composta dalla navata centrale, dalla sacrestia, dal coro e da un minuscolo coretto. Essa fu inizialmente dedicata alla Vergine della Speranza, ma già dal 1686 la chiesa e il convento furono definiti "della Purissima Conception". Nel tempo la chiesa originaria fu ingrandita: le tre cappelle laterali furono aggiunte in tempi diversi. Nel 1688 venne edificata quella dedicata a San Felice da Cantalice, successivamente, nella prima metà del 1700 quella attualmente chiamata di San Francesco, e, per ultima, la cappella di Sant'Anna. Dopo la soppressione delle proprietà ecclesiastiche del 1866 e l’incameramento dei beni al patrimonio dello Stato, la proprietà di questi immobili fu riscattata, all'asta pubblica del 2 luglio 1874, dal P. Luigi Maria da Ghilarza.

La chiesa esternamente presenta semplicità di forme, con la facciata che culmina con un terminale a doppio spiovente con un unico elemento decorativo, un oculo di forma ottagonale sopra il portale d’accesso. Internamente l'edificio mostra un impianto a navata unica, con volta a botte completamente decorata e sul  lato destro dell’aula le tre cappelle, nell’ultima delle quali è possibile ammirare un prestigioso altare ligneo; l’area presbiteriale è di forma quadrata con copertura a crociera. Retaggio degli arredi sacri la chiesa, oltre un prezioso altare in legno, conserva un prezioso calice d’argento del 1609 e, collocato sulla parete disinistra, un maestoso quadro, copia di un famoso originale eseguito nel 1626 dal laico cappuccino spagnolo fra' Vitale da Algesiras. La riproduzione di detto quadro fu fatta nel 1653 dall'oristanese don Gaspare Pira, uno dei vincitori nella battaglia del Tirso del 26 febbraio 1637. Il grande dipinto eseguito dal Pira rappresenta l’albero genealogico dell’intera famiglia francescana e raffigura San Francesco, ai piedi di una maestosa quercia, circondato dai suoi primi compagni inginocchiati. Il chiostro del convento, luogo di meditazione e di preghiera, ha una forma quadrangolare e negli anni è stato ripetutamente ristrutturato.  Al centro esiste ancora la cisterna che anticamente raccoglieva le acque piovane utilizzate per irrigazione dell’ampio orto. Questo, dove albergano ancora numerosi alberi da frutta, occupava in precedenza anche l’area dell’attuale campo sportivo; i frati un tempo lo coltivavano per ricavarne tutto ciò che occorreva al loro sostentamento. Negli spazi verdi circostanti la chiesa ed il convento nel 2005 furono posizionate, in apposite nicchie di mattoni, le stazioni della Via Crucis donate da un benefattore di Cagliari. Interessante e dotata di antichi e rari libri la biblioteca del convento.

Domani  8 Dicembre 2012, festa dell’Immacolata, si festeggerà dunque il quarantennale della erezione della antica chiesa in Parrocchia. I preparativi fervono e sono in dirittura d’arrivo. Padre Franco ha fatto le cose in grande. Da ieri sul sagrato della Chiesa troneggia una bella statua della Madonna, dono dell’affezionato e devoto scultore ed intagliatore Alfio Sulis. Quarant’anni, quelli trascorsi, che non sono passati invano! Anni nei quali questa chiesa, elevata in parrocchia, ha dimostrato tutta la sua validità e vitalità, a concreta dimostrazione della lungimiranza dell’arcivescovo Fraghì che la istituì. Parrocchia che per maturità e  senso di responsabilità, ha sempre dimostrato di avere quella necessaria capacità di essere Chiesa che accoglie, santifica, redime e perdona; di avere la giusta sensibilità verso chi soffre, piange e implora dal Signore aiuto e conforto; di avere la “capacità di accoglienza” verso chiunque sia animato dalla volontà di lavorare nella vigna del Signore.  Le parole di elogio verso quegli uomini di Chiesa che l’anno retta in questi anni vogliono essere  non solo un  riconoscimento ma un ringraziamento per aver saputo gestire quel “popolo di Dio”, quale è la parrocchia,  come sa fare il “Buon Pastore” con il suo gregge. Riconoscimento, quello odierno, destinato non solo ai parroci di questi quarant’anni, ma alla Comunità intera che ha visto e vede sacerdoti, laici, uomini, donne, giovani, adulti e persino bambini coinvolti “tutti insieme” nell’opera di carità e di evangelizzazione.
Credo doveroso ricordare in questa mia riflessione il parroci di questi splendidi 40 anni. La bella avventura di questa Parrocchia dedicata alla Beata V. Maria, iniziata con P. Felice Pinna l’8 Dicembre del 1972 continuò, dopo la morte improvvisa di P. Felice, avvenuta l’11 luglio 1975, con il Suo Vicario, P. Giuseppe Carrucciu, nominato al Suo posto. Nel 1977 venne nominato parroco P. Silvio Atzeni: svolgerà il suo lavoro apostolico ininterrottamente fino al 1992 quando il Capitolo lo eleggerà Ministro Provinciale. Gli successe nella responsabilità del  ministero  P. Giorgio Piras  fino al 2001. Da quella data P. Giorgio venne nuovamente avvicendato da P. Silvio, chiamato nuovamente a ricoprire  l’incarico di responsabile della parrocchia. Fino al 1° febbraio del 2004, quando chiamato da sorella morte che bussa alla sua porta, P. Silvio abbandona la vita terrena ed il suo incarico, lasciando nei suoi fedeli un vuoto incolmabile. L’11 settembre del 2004 viene nominato Parroco P. Salvatore Murgia. Anche il suo mandato durò poco: terminò nel 2007 perché pure Lui fu eletto Ministro Provinciale. Il resto è ancora attualità: a P. Salvatore succede P. Franco Murgia, attuale parroco. Il reale e concreto successo di questi 40 anni dimostra che è stata la “capacità di comunione col popolo di Dio” il segreto utilizzato dai nostri Parroci, che hanno saputo ben operare sotto  la protezione di Maria Immacolata.
Domani ci riuniremo tutti sotto la grande e celeste ala protettrice di Maria; la sentiremo vicina, al nostro fianco, non ci stancheremo di guardarla e contemplarla. Salendo gli scalini prima di entrare in Chiesa vedremo già il suo nuovo simulacro sorriderci ed accoglierci, invitarci a visitare la sua casa, la casa di Dio. Lei sarà davvero capace di confortarci, di lenire le delusioni del nostro tempo, di donarci quella cercata serenità.  Maria, solo Lei saprà davvero farci ritrovare la gioia e la serenità. La nuova statua collocata nella piazza della Chiesa, sarà il segno ancora più visibile della Sua presenza e del Suo immenso amore per tutti noi. 


Ecco gli orari della grande festa di domani:
8 dicembre
festa dell’immacolata 
S. Messe secondo l’orario festivo
Ore 9,30:
- Raduno presso la chiesa di San Martino
- Processione verso la parrocchia
- Omaggio floreale dei bambini
- Affidamento delle famiglie alla Vergine
Immacolata
- Incoronazione dell’Immacolata.
Ore 10,00 - - Solenne concelebrazione eucaristica presieduta da S.E. Mons. Ignazio Sanna, Arcivescovo di Oristano
-Benedizione della Statua Monumento della           Madonna Incoronata
Ore 17,00 - Rosario meditato
Ore 17,30 - Vespri solenni
Ore 18,00 – S. Messa Solenne
Ore 19,00 (al termine della Messa) - concerto polifonico in onore di Maria Immacolata

Mario