Oristano 3 Aprile 2018
Cari amici,
Premetto che non sono razzista, anzi credo di non esserlo mai stato. Credo anche che nella grande diversità che esiste al mondo, sia di genere che di razza e di lingua, usi e costumi, ci siano enormi potenzialità di interscambio, che possono arricchire tutti. Detto questo, è anche pur vero che non tutte le persone sono uguali, in quanto buoni e cattivi albergano in tutte le Comunità del mondo. Si, amici, questa affermazione vale anche per la grande massa di immigrati che quotidianamente lascia il proprio Paese per raggiungerne un altro, come il nostro, per esempio; c’è chi
emigra e si installa a casa nostra per cercare il riscatto da una vita di
stenti (oppure fugge da guerre e tribolazioni), e chi, invece, senza essere spinto dal bisogno, lo fa solo allettato dal miraggio di una vita facile, comoda, senza grande impegno sociale e lavorativo.
Vorrei, davvero, che questo mio
pensiero non venisse scambiato per intolleranza o per razzismo, in quanto la gran parte
di chi mi conosce sa che sono tollerante, accogliente e rispettoso di tutti,
anche di chi, spesso, non lo merita.
Il problema immigrazione, non sono certo solo io a sostenerlo, è diventato davvero drammatico: una fiumana di gente che continua ad arrivare senza che esista un serio piano di alto livello internazionale che cerchi di fronteggiarlo in modo adeguato. Da noi, Paese collocato di fronte e a poche miglia dalla fascia Nord Africana (da cui sopratutto arrivano gli sbarchi), arrivano settimanalmente migliaia di persone senza la predisposizione di un serio programma di accoglienza che preveda di dare “un seguito” ai tanti sbarchi quotidiani; una caotica presenza che appare impossibile tenere sotto controllo e che, a breve, potrebbe mettere in crisi l'intero sistema Paese, considerata anche la colpevole assenza decisionale di un'Europa che ricorda molto (siamo in periodo pasquale) Pilato.
Il problema immigrazione, non sono certo solo io a sostenerlo, è diventato davvero drammatico: una fiumana di gente che continua ad arrivare senza che esista un serio piano di alto livello internazionale che cerchi di fronteggiarlo in modo adeguato. Da noi, Paese collocato di fronte e a poche miglia dalla fascia Nord Africana (da cui sopratutto arrivano gli sbarchi), arrivano settimanalmente migliaia di persone senza la predisposizione di un serio programma di accoglienza che preveda di dare “un seguito” ai tanti sbarchi quotidiani; una caotica presenza che appare impossibile tenere sotto controllo e che, a breve, potrebbe mettere in crisi l'intero sistema Paese, considerata anche la colpevole assenza decisionale di un'Europa che ricorda molto (siamo in periodo pasquale) Pilato.
Chiarisco subito che la
mia riflessione di oggi non intende addentrarsi nei pericolosi meandri del
grande problema dell’accoglienza (che so benissimo che è difficilissimo da
risolvere), ma semplicemente ribadire che un'accoglienza selettiva può essere davvero più una risorsa che un problema.
Si, amici, voglio portare a Vostra conoscenza una bella storia, che merita un grande applauso da parte di tutti noi; è quella di un immigrato, uno dei tanti, ma che si differenzia alquanto dalla massa degli altri arrivi, in quanto è venuto in Italia non solo per soggiornarvi più o meno decentemente a spese della nostra Comunità, limitandosi a prendere il sole e stendere la mano per qualche spicciolo di elemosina, ma, per realizzare un suo sogno preciso: studiare, acculturarsi (cosa impossibile nel suo Paese d'origine) e laurearsi in ingegneria.
Si, amici, voglio portare a Vostra conoscenza una bella storia, che merita un grande applauso da parte di tutti noi; è quella di un immigrato, uno dei tanti, ma che si differenzia alquanto dalla massa degli altri arrivi, in quanto è venuto in Italia non solo per soggiornarvi più o meno decentemente a spese della nostra Comunità, limitandosi a prendere il sole e stendere la mano per qualche spicciolo di elemosina, ma, per realizzare un suo sogno preciso: studiare, acculturarsi (cosa impossibile nel suo Paese d'origine) e laurearsi in ingegneria.
Questo immigrato,
questo “vucumprà” marocchino, si chiama Rachid
Khadiri Abdelmoula, ha oggi 31 anni e da circa 20 è cittadino italiano,
essendo arrivato in Italia oltre 20 anni fa. Aveva 11 anni e proveniva da Gibilterra. Ultimo di cinque figli, la sua meta era
Torino, dove intendeva raggiungere i fratelli, emigrati prima di lui.
In tempi brevi ottenne di poter frequentare le scuole medie e successivamente l'Istituto
tecnico, studiando con determinazione e diplomandosi senza difficoltà. Per lui però, che cercava di mantenersi
vendendo accendini e altre cianfrusaglie ai semafori, non era il diploma il suo
traguardo: voleva laurearsi, diventare ingegnere.
Pur continuando il suo lavoro di 'vucumprà' si iscrisse al
Politecnico di Torino, dove nel 2013 conseguì la laurea triennale, ma a lui questo ancora
non bastava: il suo obiettivo era la laurea magistrale in Ingegneria Civile,
con specializzazione in strutture. La sua caparbietà e determinazione erano più forti delle difficoltà. Per preparare al meglio
la tesi di laurea, Rachid ottenne di fare lo stage presso la sede elvetica della Cemex, una multinazionale nel
campo dei materiali da costruzione, sperimentando le nuove
tecnologie che, aggiungendo al cemento e alla malta soprattutto i nano-materiali,
creano strutture più robuste ed elastiche. Ora Rachid ha concluso il suo difficile percorso, laureandosi
con una bella tesi sui nano-materiali di nuova generazione.
Felice come può esserlo
solo chi vince una sfida tanto ardua, con l’alloro in testa, è stato
festeggiato per primo dalla famiglia, venuta compatta ad applaudirlo: quattro
fratelli e anche la mamma Fatna, arrivata per la grande occasione dal Marocco.
A Kourigba, il suo paese natio, non era possibile vivere dignitosamente e fu
proprio questo il motivo della loro emigrazione. La sua caparbietà, la sua disponibilità
a sopravvivere per anni vendendo accendini, fazzoletti e cianfrusaglie al
semaforo, avevano fatto il miracolo: La laurea tanto sognata era arrivata,
frutto di tanto impegno e determinazione!
Ai tanti amici che si era
conquistato negli anni del corso e che lo attorniavano complimentandosi con lui
ha detto, con le lacrime agli occhi: "La dedico alla mia famiglia e alla
città di Torino che mi ha voluto bene e che io amo da ormai 20 anni".
A chi gli chiedeva se ora sperava di trovare lavoro a Torino, ha risposto: "Torino
è la mia città e mi ha dato tanto, ma in Marocco mi aspetta l'amore".
Peccato: non sarà uno dei nostri, perché la sua terra lo chiama, non solo attraverso
l’amore verso la sua donna, ma anche perché vuole impegnarsi in prima persona per
migliorarla, portando il suo contributo.
Amici, posso dirvi che
la storia mi ha un po’ commosso. La mia riflessione finale oggi è che alla fine
l'impegno e il sacrificio pagano sempre, riescono a dare il premio a chi, con
costanza, non si arrende mai. Credo che di persone come Rachid ne avremmo
volute molte di più nel nostro Pese, ben diverse dalle tante che incontriamo tutti i giorni ai
semafori, nei pressi dei carrelli del supermercato e nei piazzali delle chiese.
Volendo, si può cercare un futuro più degno di essere vissuto anche vendendo
per lungo tempo accendini per strada, ma con nel cuore uno obiettivo preciso:
quello di migliorarsi.
Si, amici l’importante
e cercare sempre di “Migliorarsi”: per restare nel Paese ospitante o anche per
tornare nel proprio Paese, ma sempre cercando di costruire per se stessi un
percorso dignitoso, dove l’assistenzialismo deve essere il mezzo per uscire
dalla miseria non il fine. Rachid, dopo i tanti anni di sacrifici, ha scelto di
tornare a casa. "Per un ingegnere ci sono tante prospettive in Marocco", ha
detto. Anche perché lì risiede la sua fidanzata, Fatim Sara, che sposerà
presto. Auguri Rachid!
A domani.
Mario
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