mercoledì, marzo 21, 2012

“VENERDI CON IL ROTARY”: CONTINUANO, CON SUCCESSO, LE CONFERENZE DEL ROTARY APERTE ALLA CITTA'.


Oristano 21 Marzo 2012

Cari amici,

Venerdì 23 sarà presentata la quarta conferenza che il Club Rotary di Oristano ha programmato per discutere di un altro argomento caro agli oristanesi tutti: la storia della Casa di Riposo “Eleonora d’Arborea”.

Sarà il Prof. Vincenzo Falqui Cao, rotariano di lungo corso, a tenerla. Chi più di Lui, che da Presidente amministra con saggezza e competenza l’antica e nobile Istituzione, può portare a conoscenza della Città sia la sua lunga storia che lo stato attuale ?

Nato dalla lungimirante idea di Vandalino Casu il “ Ricovero di Mendicità “, come veniva a suo tempo chiamato, si sviluppò utilizzando la casa d’abitazione del magnanimo oristanese, estendendosi, poi, nell’ampio terreno circostante. Storia travagliata quella del Ricovero. Non poche vicissitudini, come potranno ascoltare quelli che parteciperanno alla conferenza, tormentarono la nascita ed il successivo consolidarsi della struttura, che avrebbe dovuto occuparsi dei vecchi poveri e senza assistenza. La solidarietà, ieri come oggi, non trovava e non trova terreno fertile.

Per il Rotary la solidarietà, la disponibilità verso gli altri, è uno dei suoi punti fondamentali: se nel mondo l’egoismo abbassasse le sue barriere, certamente il vivere comune avrebbe ben altro risultato e significato. “Servire gli altri” è il punto di partenza che ogni uomo dovrebbe avere e coltivare, e che il Rotary ha adottato come suo slogan.

L’invito per Venerdì 23 Marzo (Sala convegni HOTEL MISTRAL 2, alle ore 19,45) è ancora una volta rivolto a tutti: giovani e meno giovani; nella speranza che conoscere la nostra storia e gli uomini che l’hanno fatta contribuisca a costruire anche dentro di noi una maggiore coscienza civica ed una maggiore disponibilità al servizio.

Portiamo alla conferenza i nostri amici, invitiamo gli altri club di servizio Lions e Soroptimist, lavoriamo "tutti insieme" per dare un servizio migliore alla città.

Grazie dell'attenzione.

Mario


lunedì, marzo 19, 2012

LAB-OR: LABORATORIO URBANO PER ORISTANO. LA CITTA’ RITROVA UNO SPAZIO DOVE I CITTADINI SONO PROTAGONISTI.

Oristano 19 Marzo 2012

Cari amici,

debbo dirvi, in tutta franchezza, che Sabato 17, due giorni fa, quando ho partecipato alla prima riunione del Comitato Promotore che ha messo in piedi “LAB-OR”, una sorta di “Laboratorio” di discussione, una fucina di idee, sulle sorti di questa nostra città, negletta ed abbandonata, non ero granché convinto della sua bontà.

Pensavo alla solita solfa, alla ripetuta carrellata di personaggi desiderosi di mettersi in mostra che, in presenza di imminenti elezioni, riproponevano le solite lamentele, i soliti piagnistei, criticando il passato e cercando – come da tempo ormai avviene – di spacciarsi per “il nuovo”, portando ognuno l’acqua al proprio mulino. Cosi non è stato, a partire dalla qualità dei promotori e dei partecipanti. Credo, davvero, che il vento delle responsabilità stia cambiando anche per la sonnacchiosa Oristano.

Il Comitato Promotore (rappresentato da Maura Falchi, Andrea Vallebona, Daniela Pes e Gabriele Calvisi), coordinatore dell’iniziativa di un gruppo di cittadini desiderosi di far nascere anche ad Oristano un “Laboratorio Urbano”, che avesse “ l'ambizione di divenire un importante luogo di partecipazione di tutti i cittadini alla discussione sullo sviluppo e la qualità della vita ad Oristano”, si è trovato di fronte un attento e qualificato gruppo di cittadini.

Oltre settanta persone hanno ascoltato dai promotori, con attenzione, i fini e gli scopi dell’innovativa iniziativa. La discussione che subito dopo si è aperta ha messo in evidenza il grande bisogno degli abitanti di questa nostra Città di “essere partecipi” del suo futuro. L’interessante dibattito che ne è seguito, a volte anche con toni accesi, ha evidenziato, con grande soddisfazione mia e di tutti, che i cittadini di Oristano sono stanchi di essere amministrati senza essere ascoltati! Che è ora che questa Città si riappropri del “potere di indirizzo” che spetta ai suoi concittadini.

La storia, cari amici, ci ha insegnato che chi governa lo fa in nome e per conto del “popolo” che rappresenta per delega. Non è il governante l’autorità sovrana che amministra la città ma il popolo che, nelle forme democratiche, da ai governanti la delega di rappresentanza. A volte questo concetto iniziale si è perso nel tempo.

Se con la memoria torniamo un istante alla storia della “Polis greca”, vedremo che questo concetto faceva già parte, da millenni, della vita politica e sociale dell’uomo. La polis fu un modello di struttura politica che prevedeva la partecipazione attiva degli abitanti alla vita della città.

L'attiva partecipazione del popolo al suo governo costituiva un “armonico trait d’union” fra chi amministrava per delega la “Polis” ed i cittadini che la componevano, in un feeling che potremo considerare simile a quello esistente in natura fra il tutto e le sue singole parti vitali. In sintesi il cittadino greco era portato a sentirsi organicamente inserito nella sua comunità di cui era parte attiva e non passiva.

Ognuno trovava la propria realizzazione nella partecipazione alla vita collettiva e nella costruzione del bene comune.

Un sentito grazie – di cuore – agli ideatori di questo nuovo strumento che, se ciascuno di noi dovesse mettere in gioco con convinzione, senza lasciarsi trascinare da individualismi e partigianeria, la propria esperienza e capacità professionale, potrebbe ridare ad Oristano il prestigioso ruolo che nei tempi passati ha avuto e che potrebbe ancora avere.

Dopo aver espresso il mio incondizionato gradimento a questa interessante iniziativa, ecco ora i termini in cui potrà svolgersi questa “attiva partecipazione”, le modalità con cui “LAB-OR” potrà realizzare i suoi scopi: quelli di ridare decoro, attenzione e dignità ad Oristano ed al suo territorio.

Riporto, dal sito già operativo della nuova istituzione, i dati più significativi.

Il laboratorio è:

a) autonomo rispetto alle forze politiche ed all’amministrazione pubblica locale;

b) aperto alla partecipazione di tutti, singoli cittadini e portatori di interessi collettivi;

c) opererà attraverso incontri pubblici e l’attivazione di spazi di partecipazione virtuali (sito web, pagina facebook, piattaforme di collaborazione e co-progettazione);

d) intende entrare in rete con tutti i soggetti che attualmente stanno portando avanti ad Oristano esperienze di partecipazione pubblica alla discussione dei temi della città;

e) intende favorire la condivisione delle migliori esperienze di cittadinanza attiva e partecipazione civile attivate nel territorio.

Questi gli obiettivi di breve periodo:

1) Il laboratorio intende, nelle sue prime settimane di operatività, attivare un processo di partecipazione e discussione pubblica sui temi della città che consenta di presentare alla città (ed a tutte le formazioni politiche che intendono partecipare alla prossime amministrative) elementi utili di riflessione ed un insieme di proposte sul governo della città e del territorio.

2) In questa prima fase, della durata massima di 3 mesi (e comunque entro la data di svolgimento delle consultazioni elettorali) gli ambiti tematici di discussione che ci si propone di affrontare sono i seguenti:

* l’innovazione, i giovani, la formazione e la cultura, gli spazi;

* la qualità della vita: aspetti sociali, abitativi e di servizi di base;

* riqualificazione della città e delle borgate: decoro urbano, trasporti, tutela dell’ambiente e sostenibilità, spazi pubblici… etc. ;

* la Governance;

* il ruolo della pubblica amministrazione: organizzazione, trasparenza, efficienza ed efficacia;

* il ruolo delle sistema economico e le possibili sinergie;

* lavoro e sviluppo economico (gruppi di lavoro);

* agricoltura, agroalimentare, commercio e i servizi, artigianato tradizionale/artistico, attività legate alla tradizione ed alle risorse locali turismo;

* sintesi delle proposte per la città;

* Metodo di lavoro.

Questi temi verranno affrontati attraverso incontri tematici e territoriali (oltre che negli spazi di partecipazione virtuale) con le seguenti modalità:

1) presentazione del laboratorio, a cura di un membro del comitato;

2) presentazione del tema di discussione, 10 minuti (con un esperto o testimone locale);

3) discussione, domande interventi da parte dei cittadini, 1 ora;

4) conclusioni, 10 minuti da parte di un membro del team.

N.B. La presenza di esponenti politici è gradita ed auspicata ma i tempi a disposizione per gli interventi saranno equamente distribuiti tra i partecipanti, politici o cittadini. Orientativamente, i singoli interventi non dovranno superare i 5 minuti.

Buon lavoro a tutti noi! Facciamo, senza esitare, la nostra parte.

Ecco i link di LAB-OR:

1- Sito dedicato:

www.lab-or.it;

2- Pagina facebook:

http://www.facebook.com/pages/Lab-OR/320648337993901

Grazie, cari amici della Vostra attenzione! Questa è solo la prima puntata, ci sentiremo presto.

Mario

sabato, marzo 03, 2012

ORDINI PROFESSIONALI:"CORPORAZIONI" PROTETTIVE DEL PROFESSIONISTA O DEL CONSUMATORE? ABOLIRLI O TRASFORMARLI? LA LUNGA STRADA DELLE LIBERALIZZAZIONI.

Oristano 3 Marzo 2012,

Cari amici,

il lungo tira e molla sulle liberalizzazioni, con il continuo e defatigante arrabattarsi di Monti e della sua squadra, che cercano in tutti i modi di quadrare il cerchio, mi ha fatto pensare, con la mia solita ironia, ad una buffa storiella. Non sono uno scrittore di favole ma qualche volta ci provo! Ovviamente, come tutte le favole che si rispettino, anche questa inizia in modo “classico”.

C’era una volta un Capo Tribù, un Patriarca, che voleva molto bene alla tribù che governava. Come nelle migliori famiglie la pace non regnava sempre all’interno della comunità: diverbi, punti di vista diversi, egoismi, lotte di potere. C’erano quelli che gestivano un grosso gregge e quelli che, invece, dovevano – per pochi denari – occuparsene. Lunga la schiera anche dei servitori del Re, a partire dai gabellieri. Non mancavano i soprusi e a farne le spese erano sempre quelli più deboli: chi più aveva meno pagava per garantire i servizi a tutta la tribù. Uno dei problemi più spinosi era quello del lavoro: poco e mal retribuito. Sempre più grosse le file dei giovani in cerca di occupazione che, per quanto si ingegnassero, non trovavano sbocchi, neanche per un salario modesto e aleatorio. Il Patriarca cercava in continuazione di far capire a quelli che potevano, che possedevano ben più del necessario, di aumentare il sostegno alla Comunità con ulteriori e maggiori contribuzioni, ma ogni volta succedeva il finimondo! Minacce continue di mettere sul lastrico intere famiglie, che già facevano salti mortali per cucire il pranzo con la cena, ed erano già ai limiti della sopravvivenza, strangolate dalle tasse e dai bassi salari. Nessuno, però, nonostante i numerosi tentativi del Patriarca, voleva cedere sui privilegi che col tempo si erano formati, a scapito ovviamente dei meno abbienti. Il braccio di ferro continuava, mettendo in crisi l’intera struttura organizzativa della Comunità, ferocemente ed egoisticamente divisa. Dopo una meditata riflessione il Patriarca andò dal Re.

Raccontò, per filo e per segno, quanto succedeva nella sua comunità e, soprattutto, parlò del grande pericolo che avrebbe corso la tribù se non si fosse trovata una soluzione immediata, costringendo le grandi e potenti famiglie a pagare. Il Re lo incoraggiò ad andare avanti, assicurandogli tutto il suo sostegno. Tornato a casa, dopo una ulteriore riflessione il Patriarca si decise ad affrontare di petto il problema, prima che la situazione gli sfuggisse di mano. Era necessario operare subito, senza fare sconti a nessuno, ne andava della sopravvivenza del suo popolo. Preparò un editto con il quale tutti i privilegi, tutte le situazioni di favore venivano abolite: non vi sarebbero stati più figli e figliastri, buoni e cattivi. Con la soluzione in mano tornò dal Re. Il sovrano, lesse l’editto, lo trovò giusto e con la sua firma diede il suo assenso rendendolo operativo. Lo riconsegnò, così, al Capo tribù, ordinando nel contempo che fosse messo immediatamente in esecuzione. La notizia fece, in breve, il giro di tutto il regno: il bando reale stabiliva la validità dell’editto in tutto il territorio del regno e veniva ordinato di rispettarlo e di farlo rispettare: le violazioni sarebbero state severamente punite.

Era questa la mossa giusta. Pur macinando fiele, i vecchi potenti si adeguarono. In poco tempo le attività ripresero fiato; i giovani trovarono, finalmente, diverse possibilità di lavoro e diedero entusiasticamente il loro forte contributo al risanamento della Comunità. La tribù era riuscita a superare il momento negativo con grande determinazione. La vita riprese operosa e, come si dice sempre in conclusione,” tutti vissero, infine, felici e contenti”.

Mi perdonerete se ho voluto usare dell’ironia per raccontarvi il terribile momento che stiamo vivendo.

La crisi economica che si sta cercando in tutti i modi di combattere, al momento tamponata mediante una ulteriore pesante richiesta di sacrifici economici di grande spessore, potrà trovare conforto solo se accompagnata da un buon aumento sia della produttività che di nuove iniziative economiche. Per fare questo bisogna incentivare la creazione di posti di lavoro: senza crescita non si esce dalla crisi. Un terzo dei giovani, pur qualificati, in Italia è privo di lavoro. E’, quindi, necessario liberalizzare il mercato del lavoro attraverso una maggiore flessibilità ed una maggiore concorrenza . Per mettere in atto tutto questo è indispensabile creare una “maggiore libertà” nel mercato del lavoro, incoraggiando un sistema di libera concorrenza in grado di favorire sia le aziende che i consumatori. Per realizzare questo una delle vie proposte è l'abolizione degli Ordini Professionali.

Gli Ordini Professionali oggi in Italia sono considerati, da tanti, delle piccole “Caste” che tutelano i propri privilegi a scapito del consumatore e della meritocrazia. In particolare si fa riferimento all'imposizione di massimi e minimi tariffari, all'assenza sostanziale di concorrenza fra professionisti dello stesso ordine, al divieto di pubblicità ed, infine, alla difficoltà per i neolaureati di esercitare entro breve tempo la professione. Chi chiede l’abolizione di questi Ordini è convinto che non vi siano altre soluzioni. Sulla stessa lunghezza d’onda appare anche l’Antitrust che, pur non affermando che è necessario abolirli, sostiene che gli Ordini vanno riformati. Per fare questo, sostiene l’Antitrust, occorre intervenire per legge sugli Ordini professionali, modificandone la normativa.

La precisa raccomandazione è arrivata dall'Antitrust, che ha diffuso anche gli esiti dell'indagine conoscitiva sugli Albi Professionali, avviata nel 2007 a seguito delle liberalizzazioni introdotte dall'allora ministro dello Sviluppo economico, Pier Luigi Bersani. Dalla ricerca - che ha riguardato i codici deontologici di tredici Ordini (architetti, avvocati, consulenti del lavoro, farmacisti, geologi, geometri, giornalisti, ingegneri, medici e odontoiatri, notai, periti industriali, psicologi, dottori commercialisti ed esperti contabili) - è emerso che la maggior parte degli Albi sta facendo forte resistenza alle liberalizzazioni.

Abolire o no gli ordini ? Questo è il vero dilemma. L’abolizione degli ordini professionali, a detta di chi vuole eliminarli, riduce la spesa pubblica, fa crescere il paese, allarga il mercato del lavoro favorendo l’ingresso di giovani e precari nelle professioni. E’ vero? La verità sta spesso nel mezzo. Ovviamente non è esattamente cosi. Per allargare il mercato del lavoro trovare un posto di lavoro ai disoccupati ed ai precari occorre favorire la nascita di nuove imprese, debellare la inutile ricerca del posto fisso, motivare al risveglio del rischio d’impresa, potenziare la responsabilità dei singoli, favorire la produttività del lavoro (in Italia la più bassa) per creare nuovi posti di lavoro.

Certo, aprire le “forche caudine”, gli sbarramenti, costruiti dagli Ordini contribuisce certamente ad aprirsi alla concorrenza, ma da solo non risolve il problema. Gli Ordini svolgono certamente una funzione che non può essere, di colpo, eliminata. La loro funzione va migliorata, questo si. Infatti, gli ordini professionali, debbono essere considerati, a tutti gli effetti, garanti sia dei propri associati che dei loro clienti: in una parola debbono diventare una vera e propria “Autority” come quelle già operative: come l’Antitrust, l’Agcom, l’Autorità per energia e gas, l’Autorità lavori pubblici, il CNIPA, la Consob, il Garante privacy, l’ISVAP, la Commissione diritto di sciopero, il Covip, la Trasparenza della P.A. ecc. Le Authority, non dimentichiamolo, sono nate per tutelarci dai monopoli di mercato, dalle irregolarità che grandi gruppi economici attuano a discapito dei consumatori, o dalle violazioni della nostra privacy. Ci proteggono da attività truffaldine, sorvegliano la correttezza e la deontologia di coloro che prestano un servizio. Insomma costituiscono un sistema capace di far funzionare meglio un paese democratico.

In questa direzione si possono e si debbono evolvere gli attuali Ordini Professionali. Credo che anche buona parte dei professionisti lo abbia capito che “il futuro” non può che passare per questa strada.

Due giorni fa, il primo Marzo, si è svolto il «Professional Day», la giornata dell'orgoglio professionale, alla quale anno partecipato oltre settecentomila persone. Un dibattito a più voci che si è concluso sul palco dell'Auditorium romano della Conciliazione. “Possiamo dire di avere raggiunto un risultato importante”, hanno risposto tutte le categorie e le rappresentanze della politica: “ma soprattutto la nostra non è stata tanto una giornata di protesta, quanto di riflessione e di impegno per il futuro». E per chi il futuro lo ha davanti: i giovani, che rappresentano la metà dei 2,3 milioni di professionisti italiani.

Credo davvero che, ormai, sia giunta l’ora di trovare la giusta soluzione. Ne va del bene del Paese. Credo proprio che gli Ordini, trasformati in Autority, siano la via più praticabile: nell’interesse degli associati e, soprattutto, nell’interesse dei clienti. Perché se si fa l’interesse del cliente, indirettamente si fa anche il proprio: nessuno ama uccidere la gallina(cliente) dalle uova d’oro!

Chiudo rivolgendo un virtuale invito a Monti, che dall’alto della sua professionalità non ha certo bisogno di molti consigli o di aiuto: “ Non si faccia fermare da nessuna lobby o potentato. Non avrebbe senso. Gli italiani tutti lo guardano e lo giudicano. Porti avanti il suo pensiero e la sua ricetta, ad ogni costo. Domani potranno dire che la medicina era anche amara, però, sono le medicine amare quelle che salvano il malato”.


Grazie a tutti Voi dell’attenzione.

Mario

domenica, febbraio 26, 2012

ORISTANO: IL FUTURO DI PIAZZA MANNO E DELL’ANTICO PALAZZO GIUDICALE. L’APPELLO DI MOMO ZUCCA: “NIENTE PASTROCCHI”.

Oristano26 Febbraio 2012

Cari amici,

leggevo avant’ieri sull’Unione Sarda, nella pagina della nostra cronaca regionale, l’articolo sul prossimo trasferimento della struttura carceraria circondariale da Piazza Manno al nuovo carcere di Massama, ormai praticamente terminato.

A parte la soddisfazione per la realizzazione di una struttura che consentirà condizioni abitative certamente più adeguate sia ai detenuti che al personale, è arrivato il momento di dare alla struttura attuale, l'antico palazzo dei giudici del Giudicato d'Arborea, ed alla piazza che la ospita, una destinazione finalmente consona alla sua storia ed al suo glorioso passato. Accompagnava l'articolo un interessante intervento del Prof. Raimondo Zucca dal titolo: "Palazzo Giudicale, niente Pastrocchi".

Oristano è una città ricca di storia e Piazza Manno, in particolare, costituisce uno dei suoi luoghi più rappresentativi: essendo stata la prestigiosa piazza della “Maioria”, dove si affacciava il palazzo dei Giudici d’Arborea. Oristano, dunque, con un passato glorioso e ricco.

A partire dal 1070, dopo che “Aristianis” si era guadagnato lo status di civitas, sostituendo l'antica Tharros, trovarono la giusta collocazione, nei punti chiave dell’abitato, le strutture che dovevano ospitare le massime autorità che la governavano: quella ecclesiastica e quella civile-militare. Il Giudicato d'Arborea, forte e potente, alloccò nell’area della Chiesa di S. Maria-San Michele, la sede Arcivescovile, dopo aver trasformato l’edificio in Cattedrale, e la costituzione dell'episcopio e di tutte le altre strutture connesse al ministero episcopale, che rappresentava la massima autorità religiosa. Non distante per ragioni logistiche, quindi in aree limitrofe, doveva trovare ubicazione la sede dell’Autorità civile.

Dove si localizzasse con esattezza il palazzo giudicale, nei primi due secoli dell’anno mille, non vi è certezza storica. L’ubicazione certa del palazzo giudicale in Oristano si ha solo nel 1335, quando nel testamento del Giudice Ugone II viene menzionata la sua residenza, la sede del "palatium iudicis Arboreae", edificato su un lato della piazza della Maioria, l'odierna Piazza Manno, protetta dalla torre di “Porta Mari” (barbaramente demolita nel 1907), che metteva in collegamento la città murata con il mare. Tra il 1290 e il 1293, infatti, fu compiuta l'intera opera di fortificazione del centro di Oristano ad opera di Mariano II. La città vantava un circuito murario di 2,007 km, che abbracciava una superficie trapezoidale di 32 ettari. Le torri erano ventotto, di cui due “maggiori” gemelle, quella di San Filippo e l'altra di San Cristoforo (oggi di queste l' unica superstite, è quella di S. Cristoforo, detta anche di Mariano II, in piazza Roma). Le altre porte della città erano Porta Mari, ad ovest della torre di San Filippo, la porta occidentale, forse detta di Sant' Antonio, e la porta di levante, denominata Portixedda (l’unica superstite delle torri minori).

Fatta questa doverosa premessa torniamo al motivo di questa riflessione: restituire alla città una delle sue piazze più ricche di storia, piazza Manno, unitamente al suo prestigioso ed antico palazzo: quello dei Giudici d’Arborea. Questo restituzione, questo “ripristino dei luoghi” non può essere fatto in modo, come spesso succede, approssimativo, senza studiarne, prima, un attento e funzionale iter di recupero. Ecco, allora, proporre a tutti Voi che mi leggete la seria e valida “riflessione”, fatta da uno dei nostri uomini più illustri: Momo Zucca, direttore del nostro “Antiquarium Arborense, archeologo, docente universitario e profondo conoscitore della nostra Oristano. E' proprio l'intervento che ha pubblicato l'Unione Sarda il 24 di questo mese.

Credo che le parole del Prof. Raimondo Zucca non abbiano bisogno di molte spiegazioni. E’ tempo che Oristano si riprenda il suo passato: il futuro dovrà svilupparsi partendo dalle sue radici. E’ tempo che Oristano dimostri a tutti di sapersi amministrare; che il tempo della delega agli “altri”, quelli che Oristano non l’hanno nel cuore, è terminato.

Riappropriamoci delle nostre radici e della nostra storia. Altrimenti l’albero deradicato degli Arborea servirà solo a ricordarci che le “nostre radici”, non ci interessano proprio! Non creiamo, come dice Momo, nuovi “pastrocchi”, simili a quello dell’errata collocazione del nobile stemma degli Arborea nella rotonda di Piazza Manno, visibile solo dagli oristanesi che…”stanno in cielo”!

Grazie della Vostra attenzione!

Mario



domenica, febbraio 19, 2012

ESSERE CRISTIANI NEL TERZO MILLENNIO: GLI ASPETTI SOCIO-RELIGIOSI NELLA DIOCESI DI ORISTANO.



Oristano 19 Febbraio 2012

Cari amici,
ieri, Sabato 18 Febbraio, ho partecipato all'annuale incontro con la Stampa che S.E. Mons. Ignazio Sanna, Arcivescovo Metropolita di Oristano, ha tenuto con gli operatori dell'informazione della Provincia che aveva, come ordine del giorno, un argomento di indubbio interesse: “La situazione socio-religiosa della Diocesi”.

Essere Cristiani oggi, insomma, al tempo della Globalizzazione: tra Fede Professata, Fede Celebrata e Fede Testimoniata, questo, in sintesi, il tema centrale dell’incontro tra S.E. Mons. Ignazio Sanna ed i giornalisti e gli operatori della comunicazione, attivi nella Diocesi e nella Provincia di Oristano.

L’annuale incontro con la Stampa, che quest’anno aveva per tema “La situazione socio-religiosa della Diocesi” ed il consuntivo della Sua Visita Pastorale in tutte le strutture dell’Arcidiocesi Arborense, ha avuto una nutrita partecipazione. All’incontro, tenutosi anche quest’anno presso il Seminario Arcivescovile, hanno partecipato: il presidente dell’Ordine dei giornalisti della Sardegna Filippo Maria Peretti; Mario Girau, responsabile regionale dell’UCSI, Emilio Firinu, responsabile diocesano, Francesco Birocchi, giornalista della Rai Sardegna e numerosi rappresentanti delle diverse testate giornalistiche regionali, oltre che delle TV locali, radio e Web Communication.

I lavori sono stati aperti con l’esposizione dei risultati della Sua Visita pastorale, indetta alla fine del 2008 ed iniziata nel Gennaio del 2009. Tre anni “itineranti”, conclusi a Novembre del 2011, e che hanno consentito al nostro Arcivescovo di fare una “lucida riflessione”, che ha messo in evidenza luci e ombre, di una Diocesi di circa 150 mila abitanti distribuiti in 85 Parrocchie.

Le visite, effettuate in profondità e con rigore, dedicando circa tre giornate per Parrocchia, Gli hanno consentito di scoprire i vari aspetti di “come viene vissuta in loco” la Fede nel popolo cristiano di appartenenza, partendo dagli aspetti esteriori fino a toccare quelli più intimi, quelli che si celano nel profondo della coscienza di ogni uomo che si professa credente in Cristo.


I risultati sono stati molto molto interessanti, pur se discontinui ed a volte contradditori. L’Arcivescovo ha affermato con convinzione che, in estrema sintesi, la Comunità diocesana visitata risulta “ricca di passato ma povera di futuro”. Nel tempo, certi buoni comportamenti si sono sfilacciati fino a scomparire. La pratica religiosa è fortemente diminuita e la nostalgia del passato, fatta di ricordi di feste liturgiche celebrate con molta solennità, di associazioni molto numerose e partecipate, di Chiese e aule scolastiche piene di voci e di canti religiosi, torna prepotentemente a farsi sentire.

Tutto questo induce l’Arcivescovo a sostenere che “…La nostra Comunità ha bisogno di ritrovare coraggio e motivazioni per conservare il passato, creando futuro…”.

Quali i rimedi, le strade da percorrere? Mons Sanna, partendo dagli impegni presi nell’indire la visita pastorale, quelli di incentivare nel Suo popolo cristiano il “ vivere una Chiesa dal volto familiare, una Chiesa guidata dallo Spirito, una Chiesa libera”, ritiene che sia necessario ritrovare la fiducia; ricominciare proprio “vincendo la rassegnazione e ritrovando ragioni e motivazioni di ottimismo realistico”. “Senza entusiasmo per il proprio lavoro e la propria missione non si va da nessuna parte”, sostiene l’Arcivescovo.

Va sicuramente potenziata la formazione degli animatori liturgici e degli animatori parrocchiali. Così come vanno potenziati soprattutto i consigli pastorali parrocchiali e quelli degli affari economici, ormai presenti in quasi tutte le parrocchie, perché gli organismi di partecipazione favoriscono il senso di corresponsabilità. Vanno promosse, inoltre, nuove forme di collaborazione inter-parrocchiale, specialmente nell’organizzazione della pratica dei sacramenti, della pastorale giovanile, della formazione dei catechisti. Una cura particolare va prestata alla formazione dei ministranti e, se possibile, dell’ACR. Se vogliamo creare futuro, bisogna cominciare dai bambini. Va curata la catechesi degli adulti e non solo quella per la preparazione a ricevere i sacramenti. Vanno individuati modi e iniziative per interessare i ragazzi del post cresima ed accompagnare le giovani coppie del post matrimonio.

L’Arcivescovo Mons. Sanna ha successivamente analizzato la situazione socio-religiosa della Diocesi, distinguendo tra Fede professata, Fede celebrata e Fede testimoniata.

In una Diocesi abbastanza vasta, la cui popolazione religiosa è seguita da 85 Parrocchie, circa la “fede professata”, quella che ci dice “perché crediamo”, si è potuto constatare che c’è uno scollamento tra il credere in Cristo e il credere nella Chiesa, a netto vantaggio del primo: il gradimento verso la struttura “Chiesa” è molto più basso. Circa la “Fede celebrata”, ovvero l’applicazione della pratica religiosa, circa un terzo dei fedeli partecipa regolarmente alla messa, oltre la metà non partecipa mai o raramente. Anche il sacramento della riconciliazione è poco praticato: circa due terzi non vi ricorrono che raramente. Infine, circa la “fede testimoniata”, ovvero il rapporto che il fedele ha con l’istituzione “Chiesa”, le critiche non mancano. Non solo per gli aspetti di natura economica ma anche di natura politica e amministrativa. In quest’ultimo caso si è critici verso una sentita forte centralità e la mancanza o carenza di collegialità.

Analizzando la dimensione della “credenza”, solo il 30% dei fedeli crede negli insegnamenti della chiesa senza riserve: due su dieci avanzano delle riserve e più di un terzo prende apertamente le distanze da molti insegnamenti della Chiesa. In definitiva, il rapporto tra orientamenti e comportamenti etici delle persone, da un lato, e le indicazioni date dal magistero della Chiesa, dall’altro, evidenzia un forte scollamento. Un ambito che evidenzia in modo ancor più marcato lo scollamento tra vertice e base della Chiesa, è il processo di soggettivizzazione dell’etica familiare e sociale: più di sette persone su dieci (otto tra i giovani) ritengono ammissibili i rapporti sessuali senza essere sposati, il divorzio e la libera convivenza. La percentuale supera di molto quella rilevata nel 1995 a livello nazionale. Anche l’omosessualità, se pur in minor misura, è ritenuta ammissibile da una quota elevata del campione (44% in media e 53% nei giovani). Più della metà è favorevole all’aborto anche in casi in cui la donna non corre pericolo di vita. L’eutanasia è ammessa dal 30% degli intervistati.

Nella Sua lucida analisi Mons Sanna cosi definisce questo fenomeno: “D’altra parte non si può ignorare il fatto che il processo di “personalizzazione” del fenomeno religioso sta cambiando profondamente il rapporto “individuo-Chiesa-Dio”. Può essere l’esito di una scarsa formazione e scarsa incidenza della religione nella vita dei fedeli ma anche un segnale di nuove tendenze nel mondo religioso, cioè di un “riorientamento” nelle forme di religiosità. Sicuramente non bisogna ignorare il fatto che la nostra società esalta la soggettività e la libertà dell’individuo in tutti gli ambiti della vita. Non è possibile, quindi, che la religione possa sfuggire a questo processo…”.

Nonostante tutto, però, ha sostenuto con convinzione Mons. Sanna, la domanda religiosa è ancora alta, pure se non sempre accompagnata da una vita sacramentale e da una giusta e convinta professione delle verità della fede”.

Nel corso del dibattito successivo alla dotta esposizione, si è posto in evidenza proprio il fatto che manca, nel popolo dei credenti una costante formazione ed aggiornamento. Dopo la cresima, come ha sostenuto Mons. Sanna, il soggetto che ha ricevuto la cresima ritiene la sua formazione ormai completata, e quindi esaurito anche il dovere di partecipare alla messa ed ai sacramenti. Questo fatto la ha potuto constatare personalmente in uno dei colloqui che giornalmente intrattiene con tanti amici su Facebook.

Formazione, quindi, da portare avanti con convinzione e determinazione.

In chiusura dell’incontro, con i ringraziamenti di tutti i partecipanti, Mons. Sanna ha ricevuto da Mario Girau, responsabile dell'UCSI regionale, la pergamena che attestava la nomina di S.E. Mons. Sanna, a Socio dell' Unione della Stampa Cattolica Italiana.

Un gran bel convegno a cui ho avuto l’onore ed il piacere di partecipare. Mentre ascoltavo con interesse ed attenzione la dotta relazione di Mons. Sanna, che è anche Priore della Delegazione dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, di cui faccio parte e che guido in qualità di Delegato, mi è venuto spontaneo un accostamento con un’altra associazione “di servizio” a cui appartengo. In questa si attesta che si è buoni appartenenti sei si è:

“ FORMATI, INFORMATI E COINVOLTI”.

Parole, credo, che si adattano facilmente anche alla “formazione” del buon cristiano. Se la Chiesa, dopo aver inculcato il valore della fede, inizialmente attraverso il battesimo e successivamente con l’istruzione e la preparazione alla cresima, applicasse anche dopo il metodo dell’informazione e formazione continua, il pericolo di disaffezione, ne sono convinto, sarebbe calato notevolmente. Perché l’una e l’altra, la formazione e l’informazione, creano i giusti presupposti per un coinvolgimento pieno e convinto. Insomma credo che anche un buon cristiano debba essere sempre:

FORMATO, INFORMATO E COINVOLTO.

Grazie della Vostra attenzione.

Mario

venerdì, febbraio 17, 2012

ASSOCIAZIONE TURISTICA “PRO LOCO” DI ORISTANO: OLTRE MEZZO SECOLO AL SERVIZIO DELLA CITTA’.


Oristano 17 Febbraio 2012

Cari amici,

oggi parliamo della Pro Loco di Oristano.

La sua è una lunga storia, avendo già superato da qualche anno il mezzo secolo di vita. E’ un omaggio che, da socio, voglio fare a questa Associazione che fin dai primi anni del dopoguerra cerca di valorizzare le risorse di Oristano e del suo territorio. Ecco la sua storia.

Se volessimo fare insieme un viaggio a ritroso nel tempo, un “viaggio della memoria”, su una città come la nostra, Oristano, partendo dagli anni del dopoguerra, possiamo senz’altro farlo attraverso una struttura importante del territorio, quella della “Pro Loco”, che, grazie a cittadini illuminati e lungimiranti, nasce ad Oristano nel lontano 1954.

Come scrisse Beppe Meloni nel 2004, nella preparazione di un libro-ricordo per i “50 ANNI DELLA PRO LOCO DI ORISTANO”, che intendeva ricordare agli oristanesi la lunga e laboriosa ripresa del dopoguerra, libro che poi, per ragioni economiche non riuscì a vedere la luce, gli effetti sanguinosi dell’ultimo conflitto, risparmiarono in parte Oristano, se messi a confronto con quelli patiti da Cagliari. “ … La guerra ha soltanto sfiorato Oristano e la città l’ha vissuta quasi come un’eco lontana. Forse è stato l’intervento miracoloso della Vergine del Rimedio a preservarla da lutti e distruzioni. Quel che conta è che la grande diga, bersaglio preferito degli aerosiluranti nemici e incubo costante per le popolazioni della valle del Tirso e della città di Oristano ha tenuto, con grande sollievo di tutti…”. Cosi scriveva Beppe nei ricordi del libro.

La ripresa, comunque, non fu facile. La città, attraverso i suoi uomini migliori, cercò di riavviare le attività, fermate a lungo dalla guerra, creando i presupposti per farle ripartire. La Regione sarda, forte della sua autonomia, muove i primi passi nella Sardegna post bellica e post fascista , portando avanti con coraggio l’opera di ricostruzione morale e materiale dell’Isola; in questo contesto anche a Oristano cerca di fare orgogliosamente la sua parte. Ad Oristano, sempre succube del potere di Cagliari, scoppia in quegli anni la voglia di autonomia, la volontà di contare di più nel contesto regionale. In questa direzione Oristano si muove, cerca di affrancarsi dalla tutela e spinge sull’acceleratore: Oristano deve diventare provincia autonoma. Questo slogan diventerà la battaglia più importante, quella decisiva, per il futuro del territorio oristanese. Scrive ancora Beppe Meloni sul libro prima citato:

“…Ed è cosi che nasce il ‘’Comitato per l’istituenda quarta provincia sarda ‘’ con capoluogo Oristano . Del quale fanno parte esponenti di tutti i partiti politici . In testa Alfredo Corrias, vessillifero di questa sacrosanta rivendicazione, Lelio Muretti di Cuglieri, Giovanni Canalis, Piero Sotgiu, Salvatore Manconi, Cenzo Loy, Fulvio Sanna, Antonio Pinna Spada, Angelo Corronca, Bruno Stiglitz, Alfredo Torrente, Pierino Pinna, Raimondo Fara, Alessandro Ghinami, Geppetto Loffredo, Pietro Riccio, Mariano Murru, Romolo Concas e tutti i sindaci del circondario. Come si legge in uno dei primi opuscoli di oltre venticinque pagine, stampato dal Comune di Oristano, <<’ragioni storiche, geografiche, demografiche, economiche, politiche e amministrative, designano Oristano come sede del Capoluogo della quarta provincia sarda… >>.

La battaglia è lunga e difficile, ma Oristano non si arrende. Alle prime bocciature in campo nazionale, non si desiste, si torna alla carica e, finalmente, dopo molte lotte nel 1974 la nuova provincia fu istituita ufficialmente.

Nell’attesa che la lunga battaglia per la nascita e la costituzione della nuova Provincia di Oristano, autonoma da quella di Cagliari, abbia termine, gli uomini politici ed i gruppi che combattono per valorizzare la città ed il suo territorio non stanno inattivi ma lavorano, creano opportunità. In quegli anni ’50 l’impegno per la ripresa fa già intravedere le potenzialità turistiche del territorio che bisogna sfruttare. Ecco, allora, che un gruppo di illustri e volenterosi cittadini si organizza per realizzare anche ad Oristano una struttura che si occupi di turismo. Nasce cosi, nel 1954, “ L’ASSOCIAZIONE TURISTICA ARBORENZE”, l’ A.T.A., antenata della attuale PRO LOCO.

Questi, in un documento dell’epoca i soci promotori:

Primo Presidente della neonata associazione è l’ing. Rodolfo Manni.

Quattro gli obiettivi principali che l’A.T.A. si propone:

1- La valorizzazione della “SARTIGLIA”,

2- La sistemazione ed apertura al pubblico dell’”Antiquarium Arborense”,

3- La valorizzazione del sito archeologico di “Tharros”.

4- L’organizzazione di Convegni e Mostre, che reclamizzino la Oristano che produce.

Sono obiettivi importanti che l’A.T.A. cercherà immediatamente di concretizzare.

Nel 1956 la presidenza viene assunta dal dr. Gino Carloni, a cui seguirà, nel 1960 la presidenza del dr. Salvatore Manconi. Manconi nella sua lunga presidenza durata oltre vent’anni, riuscirà a valorizzare soprattutto la manifestazione della Sartiglia, che ormai ha raggiunto connotazioni non solo sarde ma nazionali, varcando il Tirreno. L’associazione, inoltre, inizia a realizzare annualmente mostre di artigianato sardo, ed a migliorare la struttura dell’Antiquarium Arborense e la fruibilità di Tharros.

Nel 1981 ne assume la presidenza Luciano Loddo, che si dedica in modo totale all’Associazione Si può sostenere, senza tema di essere smentiti che Luciano “sposa” l’associazione. Sotto la sua presidenza la Sartiglia diventa la manifestazione in assoluto più importante di Oristano. Luciano “vive” per la Sartiglia, come fosse qualcosa ormai parte del suo DNA. Una morte prematura lo sottrae alla sua creatura, lasciando in tutti un vuoto incolmabile. Di questo suo amore resta un libretto, un sonetto, che è un inno alla sua creatura e che ce lo ricorderà sempre.

Gli succede alla presidenza, nel 1992, Giorgio Colombino, suo affezionato allievo, che raccoglie il testimone e caparbiamente prosegue, con grande determinazione, sulla strada tracciata da Luciano Loddo.

Sono anni di crescita ulteriore, questi ultimi, per l’associazione che cerca di portare Oristano al livello delle più importanti PRO LOCO nazionali.

L’associazione entra a far parte dell’ UNPLI ed il suo presidente Colombino diventa uno dei componenti del Direttivo nazionale. Ai principali obiettivi iniziali la Pro Loco ha ora aggiunto altri traguardi: concorsi e mostre, teatro e cinema, valorizzazione delle produzioni di ceramica e legno, vini, dolci e altre produzioni artigianali. E’ un modo per dare fiato ad un’economia che arranca, soprattutto quella artigiana, che stenta a farsi strada, a stare dignitosamente sul mercato.

Anche gli obiettivi principali sono sempre seguiti con attenzione e migliorati, soprattutto la Sartiglia. Per molti anni la Sartiglia è stata il fiore all’occhiello della Pro Loco oristanese. E’ in questo periodo che, proprio per creare continuità tra la Domenica ed Martedì di Carnevale, viene ideata la “Sartiglietta” del Lunedì, riservata ai ragazzi che, sui cavallini della Giara (grande sponsor il Signor Casu, del Giara Club) fanno “l’apprendistato”, per entrare, poi, a pieno titolo nella giostra di primo livello. E’ un’idea geniale, che consente al flusso turistico di godere appieno, per tre giorni, di una manifestazione prestigiosa. Non tutto, però, è destinato a girare per il meglio.

Come in tutte le famiglie che si rispettino le discussioni, le tensioni e le incomprensioni non sono mai mancate. Il lungo feeling tra Comune e Pro Loco, col tempo perse di spessore. Il felice connubio tra i due Enti, l’Associazione Cavalieri ed i due Gremi (quello dei Falegnami e dei Contadini), che per tradizione portano avanti da oltre 500 anni la Sartiglia, non rimane compatto. Tra batti e ribatti, dispetti ed incomprensioni, per motivi sicuramente estranei agli scopi istituzionali delle Associazioni, si sancisce il divorzio della Sartiglia dalla Pro Loco.

Viene costituita la “FONDAZIONE SARTIGLIA”, con lo scopo dichiarato di occuparsi in modo esclusivo alla giostra, diventata, ormai un fatto non solo nazionale ma internazionale. Il fatto che nella nuova struttura non sia stata inclusa, come socio, la Pro Loco, ha certamente fatto pensare.

La Pro Loco, spogliata del suo compito più importante, vede, di colpo, vanificarsi tutti gli sforzi precedenti. La nuova struttura, come tutte le nuove creazioni, ha faticato e fatica a portare avanti i suoi compiti, senza potersi avvalere dell’esperienza dei predecessori. Dividere non è mai positivo, serve solo a creare rancori, ripicche, peggiorando quello che in apparenza si vorrebbe migliorare. Cosi è stato, comunque.

Quest’anno si mormora che la “Fondazione” sarà riformata e che entrerà a farne parte anche la “Pro Loco”, precedentemente esclusa in toto dall’importante manifestazione. Quello che doveva essere fatto subito, forse, si farà oggi. Con la speranza che, anche se in ritardo, si rimettano insieme forze importanti.

Siamo a Febbraio, mese che per Oristano significa soprattutto SARTIGLIA. La Speranza è che sia l’ultima delle edizioni dei “separati in casa”, e che già da quella del prossimo anno, si possa tornare a quella unione tra tutti gli Enti che in passato l’hanno organizzata, anzi, coinvolgendo anche altre Istituzioni ove possibile.

Se ci ricordassimo che le strutture pubbliche sono nate con il fine ultimo di servire la Comunità, e non per soddisfare interessi particolari, forse, certe cose non sarebbero mai avvenute.

La Pro Loco di Oristano, merita, dopo oltre mezzo secolo di militanza, di continuare a servire Oristano ed il suo territorio, con quella competenza, quella passione, quell’amore che chi si è avvicendato alla sua guida le ha sempre dedicato.

AUGURI PRO LOCO DI ORISTANO !

Mario

martedì, febbraio 14, 2012

LA FAVA: UN LEGUME ANTICO, CHE NELLA SCUOLA PITAGORICA COSTITUIVA “IL LEGAME PRIVILEGIATO” TRA IL MONDO DEI VIVI E L’ALDILA’.

Oristano 12 Febbraio 2012

Cari amici,

Vi sembrerà strano ma l’argomento botanico che oggi voglio trattare è uno di quelli “particolari”, almeno per me, che riguarda un prodotto a me severamente proibito. Sto parlando della “FAVA”, vegetale che, fin dai tempi più antichi era diffuso in Egitto, tra i Greci e successivamente tra i Romani. La fava si dice sia originaria dell’Africa settentrionale e in Cina, già 5.000 anni fa, era coltivata a scopo alimentare. Si sono trovate delle fave nei resti di villaggi neolitici, come in tombe egiziane risalenti al 2400 a.C.

Parlare di fave per me è come “parlare di corda in casa dell’impiccato”, in quanto sono fabico, anche se questa “malattia” l’ho scoperta a circa 18 anni. Prima, pensate, ne ho mangiate tante di fave e posso assicurarvi che le trovavo buonissime!

Il favismo, per quelli che non lo conoscono, è una malattia genetica ereditaria, causata dalla carenza di un enzima, il glucosio-6-fosfato-deidrogenasi (G6PD), presente nei globuli rossi e fondamentale per la loro sopravvivenza. La sua mancanza, infatti, provoca un’emolisi acuta, ovvero la morte dei globuli rossi, che si scatena in seguito all’assunzione o all’inalazione di vapori di fave, piselli, Verbena Hybrida, altri particolari vegetali, sostanze, come naftalina e trinitrotoluene o alcuni farmaci antipiretici, analgesici, antimalarici, sulfamidici, salicilici, cloramfenicolo, alcuni chemioterapici, chinidina, menadione, blu di metilene ecc. e in generale tutti i FANS; queste sostanze inibiscono l’attività dell’enzima.

Leggendo Venerdì scorso su L’Unione Sarda gli articoli di Caterina Pinna e di Alessandra Guigoni, mi sono incuriosito soprattutto in relazione al “timore” che gli uomini hanno sempre manifestato nei suoi confronti. Ho voluto, perciò, approfondire la conoscenza che avevo di questo vegetale, che in passato è sempre stato associato a molte superstizioni e collegato, soprattutto, al mondo dei defunti. Le ragioni di questo accostamento non sono poche e la fava, pur dotata di interessanti proprietà alimentari, per le sue caratteristiche botaniche e la difficile digeribilità ha alimentato numerosi simbolismi e timori.

In un’epigrafe del VI secolo avanti Cristo, trovata in un santuario di Rodi, si consigliava ai fedeli, per mantenersi in uno stato di purezza totale, di astenersi “dagli afrodisiaci, dalle fave e dai cuori [degli animali]”. I pitagorici provavano nei confronti delle fave un vero e proprio orrore. Pitagora le proibiva ai discepoli, perché le macchie nere dei fiori di fava erano considerate simboli della presenza delle anime dei morti; gli antichi Egizi evitavano di toccarle; in un rito di antico costume latino, si offrivano le fave agli inferi e si credeva che nei semi delle fave si ritrovassero le lacrime dei trapassati. Per la festa della dea Flora, i semi di fave venivano lanciati sulla folla in segno di buon augurio; con gesti scaramantici la gente si gettava dietro le spalle il legume per proteggersi dai malefici.

I motivi, come detto, erano molteplici e partivano proprio dalle sue caratteristiche botaniche. La fava infatti è l’unica pianta che ha uno stelo privo di nodi e questa sua particolarità faceva pensare che fosse il mezzo più adatto per permettere ai morti di comunicare con il mondo dei vivi. Era come un canale privilegiato attraverso il quale i morti potevano comunicare ma, per alcuni, potevano anche impossessarsi delle anime dei vivi. Questa credenza era avvalorata dal fatto che le fave, usate per l’alimentazione, sono pesanti da digerire e possono provocare ottundimento fisico e psichico. Secondo Platone, ai pitagorici era proibito consumarle perché provocavano un forte gonfiore, nocivo alla tranquillità spirituale di chi cerca la verità. E anche Plinio ne era convinto e diceva: “.. si ritiene che [la fava] intorpidisca i sensi e provochi visioni”. Inoltre, considerato che il consumo delle fave poteva causare una manifestazione anafilattica, una sindrome emolitica acuta, il cosiddetto favismo, molto frequente nelle regioni meridionali dell’Italia e in Sardegna, grande era il sospetto circa la sua “impurità” e pericolosità.

Con questi attributi, le fave non potevano non evocare un simbolismo negativo collegato al mondo degli inferi, e ciò spiega anche la loro presenza nei riti funebri di parecchie tradizioni, in Grecia come in Egitto o in India o in Perù. Il simbolismo attribuito non era però solo in chiave negativa.

Accanto all’accostamento ai riti funebri le fave compaiono anche nella celebrazione di riti festosi e propiziatori. A Roma, il 21 di Febbraio, si concludevano i Parentalia, le feste di Febbraio in onore dei parenti e per l’occasione si usavano le fave in un rito particolare in onore della dea Tacita Muta. Questa dea veniva evocata nel periodo calendariale che, alla fine di Febbraio, segnava il trapasso dal vecchio al nuovo anno. Ma la dea presiedeva anche ai culti funebri come dea degli inferi. Ne risulta, quindi un collegamento, tra la festa dei Parentalia ed il mondo dei morti, visto però nel senso positivo, quello di evocare il passato per costruire su di esso il presente.

Ricordo dei morti, dunque. non fine a se stesso ma come sostegno e indicazione per ciò che vive. È, in pratica, l’anno passato che fornisce all’anno appena nato modalità e forme già acquisite per viverlo al meglio. Ecco, le fave, come strumento di comunicazione con il mondo degli inferi, avevano proprio questa funzione simbolica.

Esaminati gli aspetti simbolici e le superstizioni ad essa legate, vediamo ora di scoprire qualcosa di più di questo legume cosi controverso.

Le fave con le lenticchie sono il più antico alimento leguminoso che si conosca in Europa.

La fava (Vicia faba, L. 1753) è una pianta appartenente alla famiglia delle leguminose. Il suo apparato radicale è fittonante, con numerose ramificazioni laterali nei primi 20 cm, che ospitano specifici batteri azotofissatori (Rhizobium leguminosarum). Il fusto è a sezione quadrangolare, cavo, ramificato alla base, alto da 70 a 140 cm. Le foglie sono stipolate, glauche, pennato composte, costituite da 2-6 foglioline ellittiche. I fiori, raccolti in brevi racemi, si sviluppano all'ascella delle foglie a partire dal 7º nodo. Ogni racemo porta 1-6 fiori pentameri, con vessillo ondulato, di colore bianco striato di nero e ali bianche o violacee con macchia nera. La fecondazione è autogama. Il frutto è un baccello allungato, cilindrico o appiattito, terminante a punta, eretto o pendulo, glabro o pubescente che contiene da 2 a 10 semi. Il baccello, normalmente lungo circa 15-25 cm, è rivestito all’interno da uno strato spugnoso dove si trovano i semi grossi e piatti, avvolti da un tegumento (pelle), che a seconda della numerose varietà, può essere di colore verde, rossastro o violaceo. I semi, di colore inizialmente verde, con la maturazione assumono un colore più scuro, dal nocciola al bruno.

Tra le tante curiosità nate su questo particolarissimo vegetale, eccone alcune. Circa la celeberrima idiosincrasia di Pitagora e della sua Scuola, per le fave, si è scritto che non solo essi si guardavano bene dal mangiarne, ma evitavano accuratamente ogni tipo di contatto con questa pianta. La leggenda dice che, Pitagora stesso, in fuga dagli scherani di Cilone (di Crotone), preferì farsi raggiungere ed uccidere piuttosto che mettersi in salvo attraverso un campo di fave! I romani erano grandi consumatori di fave, tanto che venivano consumate anche crude assieme al baccello, quando erano particolarmente tenere; una delle nobili famiglie (gentes) fra le più importanti della storia di Roma, cioè i Fabi, si dice che prese il proprio nome proprio dalla fava. Tra gli altri aneddoti troviamo che, secondo un'antica tradizione agraria, nell'orto sarebbe bene seminare alcune fave all'interno delle altre colture poiché questo legume, oltre ad arricchire il terreno di azoto, attirerebbe su di se tutti i parassiti, che di conseguenza non infesterebbero gli altri ortaggi. Stando, infine, ad una credenza popolare diffusa in Italia, se si trova un baccello contenente sette semi si avrà un periodo di grande fortuna. Il successo di questo vegetale, però, si esaurì, trovò il suo declino, verso il Cinquecento, con l’arrivo del più versatile fagiolo, venuto dall’America.

Le Fave, appartenenti alla categoria dei legumi, sono tra quelli che hanno meno calorie. Esse contengono molte sostanze benefiche per l'organismo. Tra le più importanti le fave contengono molti sali minerali (fosforo, potassio, magnesio, selenio, rame, calcio, ferro e zinco), molte vitamine (A e C), proteine e fibre. Questi legumi hanno la capacità di regolare il corretto funzionamento dell'intestino, e di controllare il livello di colesterolo e glucosio nel sangue. Le fave fresche contengono una sostanza che aumenta la concentrazione di dopamina nel cervello, chiamata L-dopa. In passato, per il loro alto contenuto di proteine e nutrienti venivano chiamate “la carne dei poveri”.

Le fave, dunque, alimento prezioso, coltivato per le qualità proteiche della saporita granella che, secca o fresca, trova impiego come alimento sia per l’uomo che per gli animali. La pianta è coltivata anche per foraggio (erbaio) e per sovescio. Nell’antichità storica, per tutto il Medio-Evo e fino al secolo scorso, le fave secche cotte in svariati modi hanno costituito la principale base proteica alimentare di molte popolazioni specialmente di quelle meridionali d’Italia. Nei tempi recenti il consumo dei semi secchi si è ridotto, mentre ampia diffusione ha ancora nell’alimentazione umana l’uso della granella immatura fresca o conservata inscatolata o surgelata.

Tante le ricette che accompagnano il consumo delle fave. La fava si può consumare sia cotta che cruda. Cruda, si accompagna generalmente con del formaggio pecorino, pancetta o salame; cotta è usata invece per la preparazione di zuppe e minestre. In Spagna un piatto tipico cucinato con le fave è la fabada, ( fave con salsiccia, in umido), in cui le fave sostituiscono i fagioli, nella preparazione.

In Sardegna la fava è utilizzata ancora con grande successo. Uno dei piatti tipici, recentemente ridiventato prezioso e ricercato, è la “favata”, piatto legato indissolubilmente al carnevale sardo. E’ una ricetta molto diffusa, orgoglio e vanto soprattutto nel nord dell’Isola, e costituisce un sostanzioso piatto unico, accompagnato da vino Cannonau. Anche in Sardegna questo cibo è strettamente legato al culto dei morti e all’aldilà, tutti temi, questi, esorcizzati proprio nelle manifestazioni carnevalesche.

Per gli amanti di questo piatto “particolare”, ecco la ricetta:

La favata, Ingredienti:

1 spicchio di aglio, 50 grammi di lardo, 1 chilo di fave secche, 100 grammi di salsiccia stagionata, 100 grammi di cotenna, 200 grammi di piedini di maiale passati alla fiamma, 100 grammi di pancetta, 1 verza, 1 carota, 300 grammi di costine di maiale, Sale, Finocchietto selvatico, 2 pomodori secchi.

Preparazione. La sera prima mettiamo le fave a mollo in acqua; il giorno dopo rosoliamo gli aromi e la cipolla nel lardo. Uniamo le fave scolate, la carne tagliata grossolanamente e tanta acqua in modo che il tutto sia ben coperto. Dopo circa un’ora uniamo la verza tagliata a strisce, il pomodoro secco e il finocchietto. Mescoliamo, saliamo e cuciniamo per circa 2 ore. Mettiamo nei piatti fette di pane tipo spianata sarda e versiamo sopra la favata bollente.

………………………………………………

Cari amici, se avessi potuto mangiarla, anche io non avrei disdegnato! Purtroppo ognuno di noi è una macchina unica, sicuramente mai perfetta, che dobbiamo” guidare” nel percorso della vita usandola nel modo migliore, e, soprattutto, mantenendola in efficienza “il più a lungo possibile”.

Un’ultima considerazione prima di chiudere questa mia ennesima riflessione. L’uomo ha sempre avuto una grande ansia per quello che saremo, che diverremo, dopo aver abbandonato questa vita terrena. Appellandosi, in passato, alla moltitudine degli Dei pagani (dal Sole alla Luna, dalle Stelle fino agli Dei degli Inferi) che avrebbero governato la nostra vita nell'Aldilà, fino ad arrivare ai nostri giorni, dove il "bisogno di Dio" è sempre presente, in modo più o meno esplicito.

E’ proprio l’incertezza del “dopo”, il sacro timore della dipartita, del transito da questa terra verso un altro mondo sconosciuto, che ha creato tabù di ogni tipo, nati proprio per esorcizzare la paura della morte.

Anche i tabù che si sono sviluppati sulle fave, piante con caratteristiche “particolari”, rientrano all’interno di queste paure. I tabù predicati dai pitagorici, figli di una mentalità superstiziosa, magica, religiosa ed etica, erano frutto della paura, del terrore dell'uomo per il soprannaturale, ossessionato dal timore che nel mondo della natura vivessero potenze demoniache. Le fave erano da Loro considerate piante magiche e infernali, dotate di una potenza misteriosa e cosmica, sede di esseri soprannaturali in grado di influenzare negativamente o positivamente la vita degli uomini, degli animali e delle piante. La risultante era che le fave divenivano un tabù, perché considerate "pianta degli dei degli inferi" e cibo dei morti. Infrangere il divieto significava mettere in moto contro di sé forze misteriose, capaci di scatenare severe punizioni verso i trasgressori. Altra ipotesi circa il tabù, la proibizione delle fave, derivava dalla convinzione sull'esistenza di un certo legame religioso di matrice orfica. Pitagora, credeva che l'anima, sepolta nel corpo per i suoi peccati e immersa nella materia come in una prigione, poteva progressivamente ricongiungersi alla sua origine sacra. Dunque, attraverso un graduale processo di perfezionamento del corpo e dello spirito, poteva passare ad un livello superiore di esistenza e di conoscenza sino a somigliare agli dei. La privazione alimentare, compresa quella di non mangiar fave, era uno dei comandamenti che i pitagorici dovevano rispettare per raggiungere il livello di perfezione e la vicinanza tra la condizione umana e divina.

La ricerca di Dio, Entità Superiore, esisteva, esiste e credo continuerà sempre ad esistere. Forse in futuro cercheremo altri modi per esorcizzare la morte, che, però, sempre costituirà la più grande delle nostre paure.

Avere fede in Dio è certamente la strada migliore che l’uomo possa intraprendere per esorcizzare la morte, anche se non gli toglierà mai la paura. Paura che anche Gesù, figlio di Dio fatto uomo, ebbe sulla croce. Paura inestinguibile, che per noi umani solo la speranza, unita alla fede, può mitigare. Fede e speranza: un binomio inscindibile. Possedere sia l’una che l’altra è una grande conquista: potremo ironicamente sostenere che acquisirle “è come prendere due piccioni con una fava!”.

Grazie della Vostra gradita ( e spero…ironica) attenzione.

Mario