Oristano 8 Dicembre 2015
Cari amici,
credo che il primo uomo
ad accorgersi che il latte da liquido poteva “rapprendersi” e diventare solido,
sia stato un pastore, quando, dopo aver macellato un agnello o un capretto, vide
che il latte presente nello stomaco dell’animale (abomaso) era diventato solido: una
sorta di massa cremosa, acida e piccante. Da questo certamente capì che poteva
nutrirsi non solo di latte liquido ma anche, una volta diventato solido, di un
nuovo prodotto che poi sarebbe diventato il notissimo formaggio.
Sicuramente per secoli
l’uomo utilizzò il sistema di far cagliare il latte utilizzando i fermenti contenuti
dello stomaco degli animali che allevava (agnelli, capretti e vitelli),
trasformando il latte in formaggio, nelle sue molteplici varianti. Tuttavia, col
passare del tempo e col progredire delle scoperte scientifiche, si arrivò a trovare
altre sostanze vegetali che possedevano la stessa capacità di coagulare del
latte: piante in possesso degli stessi “fermenti”, in grado di trasformare il latte in una gradita pasta
cremosa che poteva essere mangiata sia un po’ acquosa (la cagliata) oppure secca,
cioè come formaggio.
Gli antichi romani
erano già arrivati a scoprire che il latte poteva essere cagliato anche con sostanze vegetali, oltre
che col caglio animale: utilizzavano, infatti, sia i fiori di cardo
selvatico che il succo di fico verde. Nel tempo l'uso dei cagli vegetali iniziò
a diffondersi in tutta l'area del Mediterraneo, trovando maggiore utilizzo nella
Penisola Iberica, in particolare in Portogallo, dove ancora oggi il caglio di cardo viene
correntemente utilizzato per produrre due formaggi famosi: il Serra da Estrela e il Serpa, entrambi protetti dal marchio DOP.
Essi sono ottenuti artigianalmente, con il latte di pecora crudo, non trattato
termicamente, coagulato appunto con caglio di cardo.
Questo caglio vegetale,
profumato, piccante e amaro, si ottiene estraendo, con l’utilizzo di acqua dall'infiorescenza
di cardi del genere Cynara (principalmente C. cardunculus L., C. scolymus L., e
C. humilis L.), gli enzimi presenti nei fiori (pistilli). L’estratto acquoso di
cardo è termostabile, e presenta una elevata attività proteolitica, di molto
superiore a quella del caglio convenzionale (caglio liquido di vitello). C’è,
però, da considerare che questa caratteristica può comportare riduzioni nella
resa casearia e anche qualche difetto: come ad esempio, nel prodotto finale, un
gusto più amaro (gradito ad alcuni ma non certo a tutti) ed una diversa,
particolare, “tessitura” della pasta del formaggio prodotto.
Chimicamente il caglio
tradizionale è formato da pepsina e chimosina, mentre l'estratto di cardo
vegetale è formato principalmente da due enzimi, la Cardosina A e la
Cardosina B. La cardosina A svolge lo stesso ruolo della chimosina: ha, infatti,
una spiccata attitudine alla coagulazione del latte (anche se in forma minore
rispetto alla chimosina). La Cardosina A è responsabile dell'idrolisi della
K-caseina del latte. La cardosina B, invece, svolge lo stesso ruolo
proteolitico della pepsina classica, con una diversità, però: mentre la pepsina
contenuta nei cagli tradizionali scinde la K-caseina del latte in due parti, la
cardosina B, la scinde in 9 parti, attraverso un'azione più specifica e mirata.
Ma come avviene,
materialmente, l’estrazione degli enzimi caglianti presenti nei pistilli del
cardo? Trattandosi di un’operazione artigianale, ecco, più o meno, come avviene
la preparazione di questo particolare caglio. Si raccolgono dei cardi selvatici
perfettamente maturi e sbocciati (quando hanno un bel colore violaceo intenso o
fucsia intenso, dipende dal tipo di cardo). Si tagliano dalla pianta lasciando
circa 20-25 cm di stelo e si fanno dei mazzetti (con 4-5 cardi cadauno); dopo
aver steso un bel filo (come quello per i panni) si appendono i mazzetti a
testa in giù in un luogo fresco (meglio una cantina a temperatura di 17-18°) e
possibilmente semi-buio.
Trascorsi circa 20
giorni, utilizzando tutte le cautele per evitare le pericolose “punture”
delle spine del cardo, si provvede ad estrarre gli stami e i pistilli:
operazione da fare con delicatezza per evitare di romperli durante l’estrazione.
Ad operazione terminata il mucchietto degli stami e pistilli viene immerso in una
scodella piena di acqua calda a 42 gradi; coperta la scodella con un piatto, si
lascia a riposo per circa 24 ore. L’acqua, possibilmente di buona purezza deve
essere in quantità adeguata: rapporto di 1 a 10, ovvero per 50 grammi di stami
e pistilli circa mezzo litro.
Trascorse le 24 ore, si
prelevano gli stami e i pistilli dalla scodella, si schiacciano fra le mani per
fargli rilasciare il liquido che hanno assorbito e con l’aiuto di un velo a
trama molto fitta si filtra il liquido (per eliminare ogni traccia di impurità
è preferibile filtrare due volte). Il liquido ottenuto, da conservare in frigo,
è ora pronto per essere usato come caglio. Volendo fare la prova ci si
accorgerà che, una volta riscaldato il latte a 40 gradi circa, e versato il
caglio di cardo che abbiamo ottenuto (le proporzioni sono 500 ml per 100 litri
di latte), il prodotto inizia a cagliare, dopo circa 90-120 minuti: un tempo
più lungo, rispetto all’utilizzo di un caglio tradizionale di origine animale.
Cari amici,
personalmente questo tipo di caglio, di cui non conoscevo l’esistenza, mi ha
incuriosito molto: dalla mia ricerca ho appurato anche che esso, anche se in
misura modesta rispetto alla Penisola Iberica, è utilizzato anche da noi: sia nel Meridione d’Italia
che in Sardegna. Nell’Isola viene usato da piccoli caseifici artigianali: per
esempio, Formaggi Sardi Piras di Ozieri, Azienda Agricola “Sa Mura Bianca” tra Nulvi-Laerru,
Az.Agr. Pab'é Is Tèllasa a Sant' Andrea Frius (Cagliari), il caseificio Erkìles
di Olzai, e sicuramente anche altri. Che dire, amici, non si finisce mai di
imparare…
A domani.
Mario
1 commento:
Io di solito uso il caglio di vitello però da un po' di tempo ho scoperto una ricetta che prevede l'uso del lattice Di fico non riuscendo a trovare cardo selvatico nella mia zona: Pianura Padana! Mi piacerebbe riuscire a scoprire un modo per conservare il lattice di fico anche per l'inverno
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