Oristano
31 Marzo 2014
Cari amici,
la condizione di un
popolo sottomesso, incapace di ribellarsi contro il dominatore, è sempre riuscita
a creare, però, coloriti modi di reazione verbale, intensificando in questo
modo la capacità di lanciare acute frecciate, almeno a parole, sia contro il
tiranno che contro una miriade di altri mali. Queste reazioni popolari si concretizzavano soprattutto attraverso l’uso di forti imprecazioni, arrivando
finanche alla bestemmia. Il popolo sardo nelle sue colorite espressioni, a
differenza di molti altri popoli, non è però mai stato blasfemo: a differenza
degli spagnoli o dei fiorentini con le loro “colorite” Madonne, il sardo si è limitato ad imprecare, evitando
quasi sempre la bestemmia.
Questo sfogo contro i
nemici o le avversità, queste imprecazioni, sono note nell’Isola come Frastimos o Irroccos, a seconda delle zone, e l’ampia varietà riscontrata in queste
invocazioni, denota non solo arguzia e ironia, ma anche grande capacità
letteraria e poetica. I sardi anche in tempi recenti, in cui ormai la lingua
sarda non era più normalmente parlata, se per una ragione o per l’altra ritenevano di ricorrere ai “Frastimos”, lo facevano solo ed esclusivamente
in sardo. Non avrebbe avuto senso, infatti, lanciare una imprecazione precisa,
arguta e fulminea, usando un'altra lingua: avrebbe perso tutto il suo magico
effetto! Il sardo nei momenti più intensi chiede sempre aiuto alla sua lingua madre,
dove continua a trovare la sua essenza, il suo essere, le sue radici
incontaminate.
L’animus dei sardi nel
pronunciare le nostre maledizioni lo fa in modo spontaneo, quasi conscio della
sua condizione di dominato; le sue sono autentiche staffilate, violente e
feroci, rivolte sempre contro un nemico, reale o immaginario. Nemica per il
sardo era la malaria, arrivata nell’Isola forse con i Cartaginesi, nemici erano
i cani mastini importati dai Romani, nemici tutti gli altri conquistatori che
per secoli tennero i sardi dominati e sottoposti. Non è facile decifrare il
percorso di questo suo sentimento di ribellione, spiegare l'etnos e l'etos del
sardo, del suo essere così com'è, forgiato da millenni di oppressione.
Le angosce della sua
condizione di sudditanza, di quel suo destino implacabile di “colonizzato”, lo
hanno portato sempre ad inveire con forza, a lanciare strali virtuali contro i
nemici, veri o presunti, utilizzando "sos
frastimos" appunto, e - come scriveva Francesco Alziator nel libro
"La città del sole" - "agendo attraverso stati d'animo nei
quali le inibizioni e i controlli sono praticamente annullati, rimuovendo
sovrastrutture sociali e morali, riporta a stati di civiltà primordiali e
scopre la fisionomia di un popolo nelle linee più segrete ed elementari."
Il sardo, però, non ha
mai osato alzare il tiro della sua rabbia contro Dio, costruttore dell’Universo.
Egli non mai osato trascendere, ribellarsi contro il Creatore con la bestemmia,
antica come l'uomo, come la sua superbia, la sua irriconoscenza, ma al tempo
stesso come la sua fede in un Essere supremo.
La grande Grazia
Deledda, che scrisse anche sulla Rivista delle Tradizioni popolari Italiane,
diretta da A. De Gubernatis, tra il dicembre del 1893 e il maggio del
1895, fu tra le prime ad affermare che la bestemmia era un vero “linguaggio di
rottura”, “attraverso il quale si ha la liberazione di strati profondi e
incontrollati della psiche e l'iterazione di antiche formule deprecatorie (…) Le
bestemmie e le oscenità, secondo un'interpretazione psicoanalitica,
rappresenterebbero il soddisfacimento di un desiderio represso”.
Maledizioni, quelle covate
dai sardi, che, avviliti dalla “mala sorte”, cercavano ogni occasione utile per
lanciarle gli strali verbali verso i loro nemici, reali o immaginari.
Ecco un
primo campionario di frastimos , tra
quelli più conosciuti. La prima in rima così recita:
Frastimo ma no isco
frastimare
Ca Deus no ma dadu su
talentu
Ancu si peset unu fogu
lentu
Chi no l'istudet s’abba
de su mare
Su palatu si potzat
bortulare
E ponzat sa crabetura a
fundamentu
Si potzat bortulare su
palatu
Cun sa rughe in donanti
e tue in fatu.
La libera traduzione
può essere questa: Non bestemmio perché non
so bestemmiare, in quanto Dio non mi ha dato il talento; che si alzi un fuoco
lento e inestinguibile che non lo spenga tutta l’acqua del mare. La (tua) casa
si possa rovesciare e avere il tetto come fondamenta. Che la tua casa si possa
rovesciare e tu (morire), con la croce davanti (al funerale) e tu dietro.
Ho scritto in altra
parte di questo blog che la memoria dei sardi si rafforzava “al camino” (sa ziminera), dove d’inverno
avveniva la conversazione tra generazioni, gestita dagli anziani. In questi
racconti si parlava di annate buone e cattive, di sorte e di malasorte, di
giustizia e di ingiustizie. La giustizia ufficiale (quella italiana) per i
sardi è sempre stata “mala giustizia”,
di cui non bisogna mai fidarsi, fin dai tempi del Bogino. Tipica maledizione
quella a lui riferita, che si concretizzava in «ancu ti crùxat su buginu»
(«possa tu essere inseguito dal Bogino»), riferito al conte Bogino, Ministro
per gli affari di Sardegna dal 1759 al 1773, in quanto il termine buginu era
sinonimo di boia o carnefice.
Sono i vecchi che,
conoscendo bene l'importanza del tempo e delle stagioni, dell'acqua e dell'asciutto,
fatalità meteorologiche di una Natura spesso non Madre, ma Matrigna, perfida e
imprevedibile, dominatrice del ciclo agrario, cercano di ammonire i giovani
preparandoli al rischio ed al pericolo. Le imprecazioni dei sardi verso il
nemico, riferendosi agli eventi naturali, sono ugualmente forti e fulminanti:
“Non
ti frastimo, limba malaita, ca ieo no bi so abituau, Arrore ti calet in domo,
in sartu e in sa perra e sa jenna” (non ti voglio fare
malaugurio, lingua maledetta, perché non ci sono abituato, .che ti scenda un
accidente in casa, in campagna, o mentre esci di casa). Al detto comune di “Rajios chi ti calene” (ti colpiscano
gli strali o i fulmini della malasorte) erano associati numerosi diversi
appellativi:
Da cantos pisches at su regnu marinu, a cantos puzones bolant in s'aera, a cantas untzas pesat su terrinu; da cantos frores bessint in primavera, a cantos coros palpitant in sinu, ancu non bias mura ne cota né froria;
da cantu in mill'annos b'at minutos, gai ti
calent lampos e tronos allutos…”(trad.libera: -sii colpito dalla malasorte –
tante volte quanti pesci ci sono nel mare, quanti uccelli volano nell’aria,
quanti fiori sbocciano in primavera, quanti cuori palpitano in seno, così tante
volte tu non possa vedere le more ne mature ne fiorite; tante volte quanti
minuti vi sono in mille anni, cosi scendano su di te lampi e tuoni accesi…).
Le maledizioni invocate
dai vecchi sardi spesso non erano dirette
a desiderare la fine del nemico (non sempre) ma ad augurargli la lesione di una
parte specifica:
Sas manos che a su
Milesu, chi contaiat s 'aranzu cun sos pes, Chi ti ch'oghent sos ogos sos
crobos, Ancu ti trunches sa mola 'e su tzugu,
Unfrìches e crepes! (che tu possa avere le mani come il milese che
contava le arance con i piedi, che ti cavino gli occhi i corvi, che ti possa
rompere l’osso del collo, che possa gonfiarti e crepare!). Sono ancora loro, i
vecchi, a ricordare, nelle maledizioni, le vecchie scomparse professioni, le
ricorrenze dell'anno, la futilità della ricchezza: Sos ogos ti ch'oghent a
puntorzu, Su risu 'e sos crabitos de Pasca,
Bae, e chi non s'intendat prus mamentu de tè, Ancu ti crichent e no t'agatent, Oliau sias,
Ancu andes che su fumu (che ti possano cavare gli occhi col punteruolo, che la tua risata sia uguale a quella del
capretto di Pasqua, vai e che di te non resti neanche il ricordo, che ti
cerchino e che non ti trovino, che tu possa avere l’olio dell’estrema unzione, che
tu possa scomparire come il fumo…).
I giovani invece hanno
perso il gusto della satira verbale, spesso anche malefica, ma satirica e
graffiante, così in auge nel passato e con i forti riferimenti all’antica cultura
dei sardi; essi hanno sostituito la satira con le male parole, col turpiloquio,
con la parlata sporca, fine a se stessa. Diluvi di parolacce, senza alcun
riferimento culturale, senza connotazioni, come invece, l’imprecazione in limba aveva sempre avuto.
La triste
considerazione è che i giovani di oggi stanno perdendo il gusto e l’identità, il
senso di essere Sardi. A questo ha contribuito anche il fatto che la gioventù
di oggi poco ha dovuto combattere contro le avversità della natura nella
quotidiana lotta per l'esistenza. Forse la colpa non è solo la loro ma è anche
la nostra, perché non abbiamo lottato abbastanza per salvaguardare la nostra lingua
e la nostra cultura, cancellate dalla scuola, dalla vita pubblica e alla fine
anche da quella familiare.
Oggi certe “chicche”,
certi modi di dire, certe battute, certe imprecazioni taglienti come spade,
sono solo un ricordo o, rare volte, in bocca ai pochi anziani che,
caparbiamente, hanno resistito all’imposizione della cancellazione del sardo.
Solo questi “sopravvissuti” sono oggi i depositari di un sapere antico che
sarebbe un vero peccato se andasse definitivamente perduto!
Grazie dell’attenzione.
Mario
3 commenti:
bellissimo articolo
E la mia mamma diceva :s'iccorruede prus ind'una brulla ch'ind'uno frastimu. L'ho sempre tenuto a mente, per non prendermi gioco delle disgrazie altrui.
Vere e prprie poesie..
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