Oristano 5 Marzo 2014
Ho lavorato una vita
intera in un Istituto Bancario, per cui credo di conoscere abbastanza bene il “saggio d’interesse” e come si calcola.
Per molti anni gli “interessi debitori” sono stati calcolati dalle Banche in
modo differente rispetto agli “interessi creditori”. Faccio un esempio. Pattuito
un tasso di remunerazione di un ipotetico capitale depositato presso le casse
della banca, ammettiamo il 5%, alla fine dell’anno su una cifra di 100 si
sarebbe avuto, se depositato il 1 di gennaio, un saggio di interesse di 5 che, aggiunto al capitale, avrebbe portato il
saldo del conto a 105. Questo calcolo, semplice e chiaro, non era invece
riservato anche ai prestiti fatti dalla banca in conto corrente. Su questi conti,
così detti “debitori” l’interesse percepito dalla Banca era calcolato, invece,
trimestralmente. Questo comportava per il correntista un aggravio sui costi ed
anche un “falsare” il tasso di interesse pattuito. Ammesso, infatti, che il
tasso debitore fosse stato stabilito al 10% su una somma sempre di 100, alla
fine dell’anno il costo non sarebbe stato di 10 ma ben di più! Con la capitalizzazione
trimestralmente, infatti, il primo trimestre avrebbe inciso per 2,5, ma sui
trimestri successivi l’interesse sarebbe stato calcolato non più su 100 ma a
partire da 102,5; per il secondo trimestre, e per i trimestri successivi, gli
interessi sarebbero stati calcolati sempre sul capitale aumentato degli
interessi calcolati di trimestre in trimestre. La risultante era che il tasso
applicato non corrispondeva più al tasso del 10% pattuito ma risultava superiore.
Questo particolare metodo di calcolo, degli interessi sugli interessi è
definito “Anatocismo”.
L’anatocismo
in sostanza, capitalizzando nel corso dell’anno gli interessi dovuti di
trimestre in trimestre e sommandoli al capitale, creava quel regime di
capitalizzazione composta, al posto di quella semplice; questo determinava in
sostanza una crescita esponenziale del debito. L’applicazione dell’anatocismo comporta
per il debitore l'obbligo di pagamento, non solo del capitale e degli interessi
pattuiti, ma anche degli ulteriori interessi calcolati sugli interessi già
scaduti, cosa che in caso di rate di mutuo (comprensive quindi di capitale e
interessi) diventa particolarmente onerosa.
La legge, però, non
autorizza il creditore, sic e simpliciter, a richiedere il pagamento degli
interessi di mora sull’intera rata del debito non onorato a scadenza, in quanto
composta sia da capitale che da interessi. La sentenza della corte di
Cassazione del 20 febbraio 2003 n. 2593 è molto chiara al riguardo: “Occorre,
in primo luogo, rilevare che in ipotesi di mutuo per il quale sia previsto un
piano di restituzione differito nel tempo, mediante il pagamento di rate
costanti comprensive di parte del capitale e degli interessi, questi ultimi
conservano la loro natura e non si trasformano invece in capitale da restituire
al mutuante, cosicché la convenzione, contestuale alla stipulazione del mutuo,
la quale stabilisca che sulle rate scadute decorrono gli interessi sull’intero
importo della rata, integra un fenomeno anatocistico, vietato dall'art. 1283
c.c.” . Nonostante questo divieto, in generale, gli istituti di credito
continuano ad applicare gli interessi di mora su tutta la quota di debito
(capitale e interessi), di fatto ignorando la legislazione vigente.
Malgrado l'anatocismo cosa
nota fin dagli albori del prestito ad interesse, la normativa italiana non è mai
stata molto incisiva sull’argomento, avendo continuato a basarsi sulle norme del
codice civile del 1942, ed in particolare sull'art. 1283 c.c. Secondo questa
norma, gli interessi scaduti, in assenza di usi contrari, possono produrre a
loro volta interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di
convenzione posteriore alla loro scadenza, sempre che si tratti di interessi dovuti
almeno per sei mesi. In linea di principio, il codice civile vieta un regime di
capitalizzazione composta degli interessi, ovvero il pagamento degli interessi
su interessi di periodi precedenti.
Nonostante tutto, per
circa mezzo secolo, nella prassi bancaria italiana hanno trovato applicazione
pressoché generalizzata, nei contratti di apertura di conto corrente, le
clausole di capitalizzazione trimestrale degli impieghi. Ciò grazie (anche)
all'avallo della giurisprudenza, tanto di legittimità quanto di merito, che ha
affermato la validità delle clausole di capitalizzazione trimestrale,
escludendo l'esistenza di un contrasto con la previsione di cui all'art. 1283
codice civile, sulla base dell'affermazione dell'esistenza di un uso idoneo a
derogare al divieto di anatocismo stabilito da tale norma. Nel 1999, però, la
Corte di Cassazione, invertendo il proprio orientamento giurisprudenziale, ha
più volte affermato la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale,
sostanzialmente argomentando nel senso della inesistenza di un uso normativo
idoneo a derogare all'art. 1283 c.c..
Per evitare scompensi
tra il lavoro dei giudici e la prassi, il legislatore ha ritenuto opportuno
intervenire per modificare l'art. 120 del decreto legislativo 1º settembre
1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia). Il cosiddetto "decreto salva banche" fu presentato il 23 luglio 1999,
sotto il Governo D'Alema I e convertito in legge n. 342 del 4 agosto 1999. Con
questa legge fu introdotto il principio della eguale cadenza di
capitalizzazione dei saldi attivi e passivi, stabilendo, però, con norma transitoria, una sanatoria
per il pregresso, facendo salve le clausole di capitalizzazione trimestrale
contenute nei contratti conclusi prima dell'entrata in vigore della nuova
disciplina. La norma transitoria, però, fu dichiarata illegittima dalla
Corte Costituzionale (sentenza 17 ottobre 2000, n. 425), per eccesso di delega,
e conseguente violazione dell'articolo 77 della Costituzione. Dopo la sentenza
della Consulta fu approvato un secondo decreto (il 29 dicembre 2000, n. 394), a
firma del Presidente del Consiglio Amato e della Repubblica Ciampi, e
convertito in legge 28 febbraio 2001, n. 24. Il decreto fornisce
l'interpretazione autentica della legge antiusura n. 108 del 1996.
Venuta meno la norma
transitoria, finalizzata ad assicurare validità ed efficacia alle clausole di
capitalizzazione degli interessi inserite nei contratti bancari stipulati
anteriormente alla entrata in vigore della nuova disciplina, la Corte di
Cassazione ha continuato, con una ulteriore serie di sentenze (tra le altre, si
veda la sentenza 13 dicembre 2002, n. 17813), a ribadire l’illiceità dell’anatocismo,
estendendo i principi, enunciati inizialmente con riferimento al conto corrente
bancario, anche ai contratti di mutuo.
Anatocismo e usura, condannati
entrambi, sono illeciti, però, radicalmente diversi dal punto di vista
giuridico. L'anatocismo è un illecito civile, privo di risvolti penali, invece
l'usura è un reato penale. Gli oneri ricadenti sulla Banca per
aver praticato l’anatocismo si limitano al rimborso delle somme ingiustamente
estorte, maggiorate dei relativi interessi legali. Non esiste una modalità
ufficiale di calcolo, ma la giurisprudenza risulta orientata ad applicare, in
luogo della capitalizzazione trimestrale, la capitalizzazione semplice (che non
prevede alcuna capitalizzazione) o, più raramente, la capitalizzazione annuale.
Il
giudice di merito può, in aggiunta, anche riconoscere il risarcimento del danno
esistenziale e biologico. Se non contestati, gli interessi percepiti
illegalmente e quindi non dovuti sono soggetti a prescrizione decennale.
Questo, cari amici, il
fenomeno dell’anatocismo, che, se viveva ben nascosto in tempi di vacche
grasse, ai nostri giorni, che definire periodo di vacche magre è già un
eufemismo, è un’autentica ruberia che ha messo in ginocchio migliaia di
aziende. Ogni ulteriore commento mi sembra proprio superfluo.
Grazie, amici, della
Vostra attenzione.
Mario
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