domenica, giugno 06, 2010

L'UNIONE EUROPEA A 60 ANNI DALLA DICHIARAZIONE SCHUMAN: UN PROCESSO TUTTORA INCOMPIUTO.















ORISTANO MAGGIO 2010


L’ Unione Europea ha appena compiuto 60 anni. Il 9 maggio 1950, mentre nella gran parte degli Stati ci si rimboccava le maniche per rimettere in moto un’economia distrutta, il ministro degli Esteri francese Robert Schuman rendeva pubblico un progetto, ancora in embrione, che prevedeva la costituzione di un’unica “ Comunità “ Europea del Carbone e dell’Acciaio, la CECA, a cui avrebbero aderito inizialmente Francia, Germania, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo.
La cosi detta Dichiarazione Schuman apriva il nuovo corso della storia europea sotto il segno dell’integrazione politico – economica.
Il seme gettato da Schuman (com’è noto, il vero ispiratore del progetto fu Jean Monnet, considerato oggi uno dei padri fondatori dell’Europa), non era importante solo per i favorevoli risvolti di natura economica che un siffatto progetto poteva costituire per tutti gli Stati partecipanti, ma creava soprattutto le condizioni per evitare che guerre, come quella appena terminata, non potessero più verificarsi, stante la “ messa in comune” da parte delle principali potenze europee delle risorse produttive fondamentali con cui si poteva armare un esercito moderno: carbone e acciaio. Questa comunità di intenti, questa creazione di un’unica gestione delle risorse comuni più importanti, sotto un’unica autorità sovranazionale europea, dava come prima risultante la fine della storica faida tra Francia e Germania, creando i presupposti di una pace duratura. Confermata, successivamente, dai fatti.
Sono trascorsi 60 anni da quello storico giorno: la CECA è diventata con gli anni la Comunità Economica Europea (CEE), poi la Comunità Europea tout court (CE) ed, infine, l’Unione Europea, con gli storici accordi di Maastricht e il varo dell’euro e, successivamente, gli ulteriori passi avanti, ultimo il trattato di Lisbona.
Ma il cammino fin’ora fatto, se riflettiamo, può essere considerato concluso?
Che cos’è oggi l’Unione Europea, e che cosa significa per i Cittadini dei suoi Stati membri? Può sembrare incredibile ma, oggi, a distanza di tanti anni molti cittadini europei avrebbero una certa difficoltà a rispondere al quesito. Si può scommettere che molti non saprebbero neppure spiegare bene che cosa sia l’Unione Europea. In realtà questi concetti poco chiari, questi dubbi, sono facilmente comprensibili e più che legittimi. Dire che cosa sia l’Unione è davvero difficile perché l’Unione non è un organismo politico compiuto! E’ ancora un processo “ in itinere “, quindi incompiuto.
La dimostrazione di questa realtà “ incompiuta “ la possiamo ricavare dalla stessa Dichiarazione Schuman, che nel suo testo sintetico ma chiaro ed efficace prevedeva già, oltre l’ipotizzato accordo di natura economica, i successivi passi che già allora si auspicava dover fare. La Dichiarazione, dopo aver affrontato nei primi paragrafi i problemi di natura economica, infatti, dava nel sesto paragrafo gli indirizzi successivi al primo passo previsto nel trattato. Ecco, per chiarezza e dimostrazione di quanto affermo, il contenuto in parola:
“Questa proposta, mettendo in comune le produzioni di base e istituendo una nuova Alta Autorità, le cui decisioni saranno vincolanti per la Francia, la Germania e i Paesi che vi aderiranno, costituirà il primo nucleo concreto di una Federazione europea, indispensabile al mantenimento della pace”.
Appare fin troppo chiaro che nel pensiero lungimirante di Schuman vi fosse già allora una matura visione di una “ Federazione europea di Stati “; vi era già la certezza e la consapevolezza, al di là di ogni ragionevole dubbio, di quale sarebbe stato il risultato finale di quel processo che Lui intendeva avviare 60 anni fa, con l’iniziale scopo economico di mettere insieme le risorse, ma destinato successivamente a realizzare una vera “ globale “ integrazione del continente europeo. Era, per quanto non palesemente evidenziato, un vero e proprio “ atto “, preparatorio ed anticipatore della futura costituzione di una vera Federazione europea non solo economica ma anche socio-politica.
Anche l’Italia ha lavorato non poco, in passato, per realizzare questo scopo. Nel suo discorso al Parlamento europeo a Strasburgo il 4 Ottobre del 2000, l’allora nostro Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, nel Suo discorso disse tra l‘altro:
“…Stiamo nuovamente decidendo le sorti del nostro continente, così come ebbero a decidere i grandi statisti degli anni '50. Mezzo secolo di pace, di convivenza operosa fra popoli ripetutamente dilaniati dalla guerra attestano il senso e l'utilità della unificazione europea. Ma sappiamo che il processo è incompiuto e che l'incompiutezza minaccia la sua vitalità…[…] …L'euro è soltanto una tappa nella realizzazione dell'Europa economica, sociale, politica e culturale. La rende inesorabilmente necessaria. Quando fu decisa l'Unione Monetaria si era consapevoli che si formava un'asimmetria, ma si era fiduciosi che questa sarebbe stata eliminata progredendo verso un governo comune dell'economia…”.

I recenti dolorosi fatti di natura economica che coinvolgono uno Stato membro dell’Unione e che impensieriscono tutti i 27 Stati membri, oltre che l’Unione nel suo complesso, non fanno che confermare, dare ulteriore validità ai concetti prima espressi. Non vi può essere, nel lungo periodo, una politica monetaria unica, nata con l’Euro e governata a livello centrale, ma in assenza di una comune ed unica politica fiscale ed economica europea. L’assenza di questo strumento, che viene, invece, gestito e governato, singolarmente da ogni Stato membro, è sicuramente la principale causa delle incertezze e delle debolezze della nostra moneta unica, non accompagnata da un univoco indirizzo economico-fiscale. E’ questo scollamento, questa mancanza di un’unica guida, che sta creando quelle instabilità che oggi stiamo crudelmente toccando con mano.
Instabilità davvero pericolosa e difficile da combattere e che, se cavalcata dai forti “ movimenti incontrollabili “ delle masse monetarie presenti e fluttuanti nel Mercato finanziario globale, possono mettere in serio pericolo non solo la sopravvivenza dell’Euro ma anche, direi soprattutto, quella dell’ Unione Europea.
L’Europa Unita, concepita ormai oltre 60 anni fa, sarà davvero un “processo compiuto” solamente quando sarà stata realizzata un’Europa federale, un’unica vera ed autentica realtà politica, con un potere democratico federale, con un governo sovranazionale espresso da un parlamento composto dai membri dei Paesi federati. In breve, per fare un paragone, un’Europa concepita politicamente come gli Stati Uniti d’America.
La strada è ancora lunga: l’Unione Europea del 2010, 60 anni dopo la Dichiarazione Schuman, non è ancora, purtroppo, una federazione di Stati, come sarebbe dovuta diventare, e tuttavia non è neppure un’associazione fra stati sovrani. Essa pur possedendo alcune strutture federali come il Parlamento, la Corte di Giustizia, la Banca Centrale, l’euro, etc., manca di quel sistema decisionale “ unico “ , tipico dello Stato federale. Questo potere, oggi, è puramente intergovernativo, legato quindi alla singola visione e valutazione degli SM, che continuano ad esercitare, in maniera decisiva e senza deleghe, la propria sovranità. Ecco, se dovessimo dare un nome all’attuale struttura dell’ U. E., anche dopo il trattato di Lisbona, la definizione più appropriata è questa: una FEDERAZIONE INCOMPIUTA.

IL CONCETTO DI FEDERALISMO:
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L’EUROPA TRA EGOISMI E APERTURE DEGLI STATI MEMBRI.
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Ho partecipato al seminario " Conoscere l'Unione Europea per costruire il nostro futuro ", organizzato dal movimento federalista europeo presente presso la facoltà di Scienze politiche dell'Università di Sassari, dove, rinnovato studente, frequento per la terza volta un corso di laurea ( ora quello di laurea magistrale in Politiche Pubblichbe e Governance ).

Le quattro giornate dedicate allo studio ed al dibattito sull’Unione Europea hanno avuto il merito di mettere a fuoco, di rendere noto, ai tanti che ancora si ostinano ad ignorare che il futuro dei popoli europei è strettamente legato alla costruzione di un’unica entità politica, quanto in 60 anni si è realizzato e, soprattutto quanto resta ancora da fare per completare il cammino intrapreso.
Una delle lezioni che maggiormente mi ha interessato è stata quella del Prof. Lucio Levi, docente di Scienza Politica dell'Università di Torino e Presidente del Movimento Federalista Europeo, tenuta nella 3^ giornata dei lavori, e che aveva per argomento “ Quale ruolo per l’Europa nel nuovo ordine mondiale “.
Nell’interessante intervento sono tate messe in luce le non poche “carenze” che, a distanza di molti anni ormai, continuano a permanere nell’incompleto cammino verso l’Unione Europea. Ecco le principali:
- Se è pur vero che l’Europa non ha mai avuto, in passato, un periodo di stabilità e di pace cosi grande, come in questi ultimi 60 anni, è anche altrettanto vero che la mancanza di un’unica direzione strategica rende precaria ed incerta la visione futura.
- L’Europa, dopo avere istituito la moneta unica, ha bisogno di un governo federale per gestire la politica estera e di sicurezza. Ciò le consentirebbe di avere pari dignità nei rapporti con Stati Uniti, Russia e le nuove potenze asiatiche e di poter prendere iniziative efficaci in aree cruciali quali l’Africa, il Medio-Oriente, l’Europa orientale, il Caucaso e la Federazione russa.
- La nascita di un “governo europeo” segnerebbe la fine del mondo unipolare e l’avvio di un mondo multipolare, condizione necessaria per mettere in moto un processo di democratizzazione e di costituzionalizzazione delle relazioni internazionali, basato sulla riforma dell’ONU e sul disarmo nucleare.
Uno dei problemi cruciali affrontati dal Prof. Levi è quello della pace. Pace che per secoli è stata vista non come prezioso periodo aureo, ma pace, invece, come periodo “calmo”, senza guerre, periodo “ negativo”, quindi. La vera pace, invece, è quella che, attraverso gli strumenti e le garanzie messe in atto dalle Istituzioni Internazionali può e deve diventare quella vera, quella “ perpetua “, a cui tutto il mondo dovrebbe tendere e riferirsi.
In un’intervista rilasciata a Marco Riciputti, reperita su Internet, il Prof. Levi in occasione della presentazione di un Suo libro ( trattasi del libro “ Crisi dello Stato e governo del mondo” ) ha cosi dichiarato: “…L’Ue sta vivendo la più grave crisi della sua storia. Ma il nazionalismo è un vicolo cieco...”.
La preoccupazione più grande del Prof. Levi è la disaffezione della gente verso l’Ue: «ma è proprio da qui che bisogna ripartire e trovare uno spazio per rilanciare il processo costituente. A dicembre si terrà a Genova la Convenzione dei cittadini europei : un evento unico nel suo genere, mai avvenuto prima». Coinvolgere di più le associazioni, i sindacati, le autonomie locali e la società civile nel suo complesso è la prossima sfida con cui bisogna misurarsi, ripete ancora nell’intervista il Prof. Levi, che la guerra la conosce bene, come riferisce in altra parte dell’intervista dove afferma: «Non sono più giovanissimo ed ho vissuto l’esperienza della seconda guerra mondiale ed in più sono ebreo; nove dei miei parenti sono stati deportati e morti nei campi di concentramento. L’aspirazione alla pace e il rifiuto della violenza mi hanno accompagnato fin da giovanissimo».
E’ proprio il grande bisogno di sicurezza la sfida più importante del terzo millennio, dove la globalizzazione ha abbattuto antiche barriere: da quelle economiche a quelle culturali e morali. Bisogno di sicurezza riferito sia agli individui, che si sentono sempre più soli ed in pericolo, che alle Nazioni, ai Popoli. Ecco perché è assolutamente necessario superare le remore e gli egoismi dei singoli Stati ed arrivare ad un a comune gestione della politica estera e della sicurezza. Sostiene il Prof. Levi nella Sua relazione:
“…La formazione di un governo europeo responsabile della politica estera e di sicurezza dimostrerà che è possibile fare vivere un’unione di Stati al di là di nazioni storicamente consolidate. L’UE tenderà ad assumere il ruolo di cerniera tra Est e Ovest e tra Nord e Sud, perché ha un interesse vitale, a differenza degli Stati Uniti, a sviluppare relazioni positive di cooperazione con le aree contigue del mondo ex-comunista, del Mediterraneo e dell’Africa. Il primo compito è quello di completare l’unificazione dell’Europa verso Est e verso Sud. Ma nello stesso tempo si impone l’esigenza di rafforzare le istituzioni internazionali (l’OSCE, la Convenzione di Cotonou e il Partenariato Euro-Mediterraneo), che legano l’Europa ai continenti vicini. Se l’UE diventerà indipendente sul piano della sicurezza, l’Alleanza atlantica si trasformerà in un’alleanza tra eguali. Così l’Europa potrà sollevare gli Stati Uniti dalle loro schiaccianti responsabilità mondiali e promuovere la ricostruzione della solidarietà tra le due sponde dell’Atlantico…”.
La chiara visione del Prof. Levi è quella di un’Europa indipendente, che avrà l’autorità per spingere gli Stati Uniti a ricercare nell’ambito multilaterale delle Nazioni Unite la soluzione alle grandi controversie internazionali, ed il potere di convinzione, nei loro confronti, a mettere le loro truppe al servizio dell’ONU per operazioni di polizia internazionale atte a mantenere la pace nel mondo.
Solo se gli Stati che oggi formano l’UE, spogliandosi del loro egoismo nazionalista, saranno lungimiranti e metteranno insieme le loro forze completando quel percorso, oggi ancora “ a metà “, potremo finalmente conoscere quell’Europa a lungo sognata, quell’Europa finalmente Stato Federale Europeo, che rivestita di quello Status giuridico oggi mancante, potrà recitare il suo ruolo di primo che le spetta. Se gli Stati membri prendessero coscienza della grande potenza e capacità che l’Europa federale potrebbe assumere ( l’Unione europea ha una superficie pari a circa la metà di quella degli Stati Uniti, ma con un numero di abitanti superiore di oltre il 50%. Infatti, la popolazione dell’UE è la terza al mondo, dopo la Cina e l’India e conta oltre 495 milioni di abitanti), e del ruolo che potrebbe recitare nel dialogare alla pari con le altre potenze mondiali senza inutili e dispersivi campanilismi, il processo di unione ne verrebbe certamente accelerato.
Siamo in tanti, cittadini europei, a chiederci: sapranno i 27 Stati che oggi compongono l’Unione superare le non poche resistenze nazionaliste che ancora prevalgono e, in un impeto di lungimiranza, abbandonare gli l’egoismi locali per aprirsi ad una vera politica globale comune?

Solo il tempo potrà darci una risposta certa.
Mario Virdis, studente di PPG - Facoltà di Scienze Politiche - Università di Sassari.





martedì, aprile 27, 2010

BONARCADO, CENTRO IMPORTANTE NELLA STORIA DEL GIUDICATO D'ARBOREA.
















Oristano 26 Aprile 2010

Chi oggi si reca a Bonarcado lo fa, prevalentemente, per rendere omaggio a N.S. di Bonacatu, venerata nello splendido Santuario che si erge maestoso al centro dell'abitato.
Non molti sardi sanno che in passato Bonarcado è stato al centro delle vicende del Giudicato d'Arborea, con un'importanza politica e sociale di rilievo.

Il Santuario, fondato ai primi del Millecento dai monaci camaldolesi, è oggi una delle più belle terstimonianze in Sardegna di quel periodo storico, molto amato dai sardi che a migliaia si recano a porgere omaggio alla Madonna nella ricorrenza della Sua festa, a Settembre.
La Luogotenenza per l'Italia - Sardegna dell' Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, Ordine a cui appartengo quale cavaliere, Delegato per la Provincia di Oristano, ha effettuato un Pellegrinaggio al Santuario il 18 Aprile scorso.

Provenienti da tutta l'Isola hanno raggiunto Bonarcado ed il Santuario di Bonacatu decine e decine di Cavalieri e Dame, accomunati dalla fede e dal desiderio di rendere omaggio alla loro Patrona, la Madonna, Maria Regina della Palestina, qui celebrata come Madonna di Bonacatu.
E' stato un grande momento di aqggregazione, di amicizia, e di fede.

Per gli amici che leggono il mio blog ecco alcune splendide immagini della giornata e una sintesi della storia di questi luoghi, abitati dall'uomo fin dalle sue origini.
Grazie dell'attenzione.

LA STORIA DEL SANTUARIO DI N.S. DI BONACATU.

A Bonarcado, un bel borgo rurale disposto nella piana del Milis, oggi possiamo ancora ammirare uno dei più interessanti complessi religiosi della Sardegna formato, oltre che dalla duecentesca Chiesa di Santa Maria, dai ruderi di un antico monastero camaldolese, e dal famoso ed antichissimo Monastero di Bonacatu, dedicato alla Vergine.
Il nome Bonacatu ha origine antiche, come vedremo, affondando nel passato tra realtà e leggenda. Luoghi, questi, che l’uomo abitò fin dalle origini.
La piccola chiesetta originaria, attorno alla quale si costituì il primo nucleo del villaggio e della comunità bonarcadese, presenta chiari segni di un’antichità più remota, ravvisabili dai resti, dalle tecniche e dai materiali costruttivi, emersi durante i recenti lavori di recupero. Il ritrovamento di una vasca rivestita con motivi geometrici, ha fatto supporre la presenza in questi luoghi, di un'antica stazione di posta romana edificata, verosimilmente, su un precedente luogo di culto nuragico. Una tale supposizione è certamente avvalorata dalle numerose testimonianze, che, unanimemente, portano, ad una precedente antropizzazione preistorica che ci ha tramandato pregevoli e monumentali megaliti, nuraghi, domus de janas e tombe di giganti e che si presentano secondo una straordinaria varietà di impianto. La basilica romanica che oggi possiamo ammirare porta ancora, sulla sinistra, i resti visibili del monastero camaldolese, ordine monastico al quale si deve la fondazione della chiesa, nel 1147, e che tanta parte ha avuto nella storia di Bonarcado.

La ricostruzione delle vicende dei Camaldolesi, quell'imponente Ente monastico, fiorente fin dalla metà del XII secolo, è possibile grazie ad una fonte importantissima, quale è il " Condaghe di Santa Maria di Bonarcado" , ossia un registro pergamenaceo nel quale venivano trascritti gli atti di donazione e la relativa amministrazione da parte del monastero.
Fondatore dell'abbazia fu, intorno al 1110, il Giudice Costantino di Lacon, sovrano dell'Arborea. Essa fu consacrata solennemente nel 1147 in occasione di un importante avvenimento storico: la Pace, detta di Bonarcado, tra i quattro Regoli sardi, celebrata sotto gli auspici del Metropolita di Pisa, alla presenza dei Giudici Sardi e di numerosi alti Prelati.
Con il Passare del tempo, il prestigio del Monastero crebbe così come il suo consistente patrimonio, a cui nel 1230, si aggiunsero il salto di Kerketu, nonché sette anni più tardi, la libertà di pesca con due barche nello stagno di Mare Pontis, con esenzione di ogni dazio verso il Fisco Regio.
Il 1237 fu ancora una volta una data importantissima nella storia di Bonarcado e dell'intera Arborea. Il papa Gregorio IX, per ristabilire pace e ordine, inviava sull' Isola il Legato Pontificio Alessandro, per assegnare, in nome dell' indiscutibile potere della sua sovranità politica e spirituale, il regno di Arborea. Durante una solenne cerimonia, celebrata nella Basilica bonarcadese, il primo maggio del 1237, il Legato Pontificio, conferiva a Pietro II, l'investitura del giudicato di Arborea, suggellata dalla consegna del Vessillo Papale e da un giuramento di fedeltà. Tra i fasti dell'Abbazia bonarcadese si annovera la visita pastorale che, nel 1263 fece Federico Visconti, primate di Sardegna e Legato Pontificio, con l'intento di riaffermare, mediante l'accordo del clero e delle autorità civili, la supremazia di Pisa sull'isola.
Durante il Quattrocento l'unico avvenimento di rilievo in cui compaia il nome di Bonarcado è relativo alla presenza del Priore Elia de Palmas poi Arcivescovo di Oristano, alla stipula del trattato che, dopo la morte di Eleonora, ridusse nel 1410 il Giudicato a marchesato.
L'ultimo priore camaldolese di cui si abbia notizia è un certo Francesco che fu priore di Bonarcado nel 1445, successivamente, nella prima metà del XV sec. verosimilmente per mancanza di rifornimenti dalla casa madre, i frati Camaldolesi abbandonarono il paese e l'Abbazia.

Architettura

IL SANTUARIO DI NOSTRA SIGNORA DI BONACATU


Il Santuario di Santa Maria di Bonacatu prese nome, quindi, dalla parola “Bonacatu”, che significa in praticamente “ ritrovamento”.
Si racconta infatti che un cacciatore abbia trovato nel bosco, presso un piccolo torrente, una effige rappresentante la Madonna. Da questa vicenda il nome di Bonacatu o “Buon ritrovamento”.
Delle sorti di questa immagine oggi non si sa nulla ma il culto della Vergine si è perpetuato nei secoli successivi con l’omaggio, alla Vergine ed alla Sua Chiesa, di una bellissima terracotta policroma che rappresenta la Madonna con il bambino. Questa elegante terracotta che noi oggi possiamo ammirare è di autore incerto: da alcuni viene attribuita a scultore fiorentino della scuola di Donatello e da altri, invece, a scultore della scuola dei Della Robbia, date le caratteristiche stilistiche utilizzate nella raffigurazione della Vergine con il Bambino.
Questo luogo di preghiera e di raccoglimento, in territorio di Bonarcado, rappresenta quindi in Sardegna uno dei più antichi e rinomati luoghi di culto dell’intera Isola. Il luogo, come prima detto, ben prima del successivo ed imponente impianto basilicale, che per tale ragione, viene definito nei documenti del “ Condaghe di Santa Maria “ come “Clesia Nuova”, è stato luogo di culto, “ luogo sacro ”, fin dalle epoche più remote: dal periodo nuragico a quello romano ed al successivo periodo medioevale, fino ad arrivare ai giorni nostri.

L’ edificio religioso, come possiamo vedere, si presenta in pianta cruciforme con bracci voltati a botte, al cui incrocio, entro un tiburio quadrangolare, si eleva una cupola di età e fattura medio - bizantina, periodo al quale si ricollega la quasi totalità dell’impianto del Santuario.La facciata del braccio occidentale, di chiara impronta romanica, è frutto di un successivo intervento che, per l’evidenza degli elementi costruttivi e decorativi, si fa risalire al 1242, ossia al momento in cui si metteva mano ai lavori di ampliamento dell’abbazia camaldolese.Il fronte romanico della facciata del Santuario è in scuri conci basaltici intercalati dal rosso cupo del tufo con larghe paraste d’ angolo coronate da un armonico gioco di piccoli archi arabeggianti, sormontati da inserti ceramici sorretti da pregevoli e decorati peducci.
All’interno della Chiesa è conservata la preziosa icona in terracotta policroma, prima menzionata, della Madonna di Bonacatu.
La fabbrica, frutto di diversi interventi costruttivi, è, come già detto, in stile romanico nella facciata del braccio occidentale, dove i conci di scuro basalto intercalati di conci tufacei rossastri, sono utilizzati, in particolar modo, quale coronamento del portale principale, nella facciata tripartita con alte arcate cieche, che guarda ad ovest, realizzata secondo i modi consueti al tipico romanico toscano.
L’assetto attuale dell’edificio si deve ad un successivo ampliamento: due iscrizioni, una delle quali visibile sul lato sinistro della navata centrale, ci consentono di datarlo con precisione. All’impianto originario del 1147, a navata unica, si innestò, nel 1242, un nuovo corpo trinavato, a cui si sommarono, nel corso dei tempi, altri innumerevoli rimaneggiamenti.
I diversi interventi sulla fabbrica mal si celano ad un occhio attento: numerosi particolari costruttivi raccontano delle correnti architettoniche dominanti nei momenti in cui si è intervenuti.Ai tipici temi dell’architettura religiosa isolana, di chiara marca toscana, ravvisabili sulla facciata, sul fianco destro fino al primo ordine del campanile, si giustappongono motivi stilistici di segno islamico verosimilmente importati da maestranze iberiche.Al primo ordine della torre campanaria, dai paramenti lisci e con monofora di taglio rettangolare, si accosta un secondo ordine con lunghe paraste d’angolo e luci campanarie ogivali, mentre un gioco di archi lobati e di lesene a soffietto intervengono a decorare il prolungamento del fianco a doppia testata e l’abside.
All’interno l’edificio si presenta tripartito, in navate divise da arcate impostate su pilastri,ed illuminato dalla soffusa luce proveniente dalle monofore a doppio strombo situate sull’abside e sul frontone.
Sul lato sinistro della basilica romanica sono ancora visibili i resti del monastero camaldolese, ordine monastico al quale si deve la fondazione della chiesa nel 1147 e che tanta parte hanno avuto nella storia di Bonarcado.
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Bibliografia.
D. Scano, Storia dell'arte in Sardegna dal XI al XIV secolo, Cagliari, Sassari, Montorsi, 1907, pp. 137;
R. Delogu, L'architettura del Medioevo in Sardegna, Roma, La Libreria dello Stato, 1953, pp. 26-28;
R. Serra, La Sardegna, collana "Italia romanica", Milano, Jaca Book, 1989, pp. 158-159;
M.L. Bozzo, "Il restauro del complesso di Bonacatu", in Bonarcado, fasc. I, settembre 1992, p. 2; R. Coroneo, Architettura romanica dalla metà del Mille al primo '300, collana "Storia dell'arte in Sardegna", Nuoro, Ilisso, 1993, sch. 22;
D. Salvi, "(OR) Bonarcado, santuario di S. Maria di Bonacattu. 1995" in Archeologia Medievale, XXII, 1995, pp. 395-396;
R. Coroneo-M. Coppola, Chiese cruciformi bizantine della Sardegna, Cagliari, 1999, pp. 41-43;
R. Coroneo-R. Serra, Sardegna preromanica e romanica, collana "Patrimonio artistico italiano", Milano, Jaca Book, 2004, pp. 139-147;
R. Coroneo, Chiese romaniche della Sardegna. Itinerari turistico-culturali, Cagliari, AV, 2005, pp. 70-71.
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lunedì, aprile 05, 2010

DAL MIO ALBUM DEI RICORDI: L'IMPORTANZA DEL " VICINATO".






Le notti d’estate: il gossip del passato.

Oggi è facile andare a dormire anche in pieno agosto: i condizionatori d’aria preparano l’ambiente creando la giusta temperatura e l’umidità necessaria per trascorrere una notte di riposo. Quando ero ragazzo io, invece, era tutto molto diverso.
Le case, allora, non avevano grandi protezioni isolanti e i pochi accorgimenti contro il caldo consistevano nei muri di “ladiri” e nel ripassare, di anno in anno, nuovi strati di bianco con la calce sulle facciate.
La vita sociale di un piccolo paese come il mio ( Bauladu, in provincia di Oristano ) contava molto sul “vicinato”, termine questo stava ad indicare il gruppo di famiglie che si affacciavano sulla stessa piazza, o, comunque dimoranti nelle stradine vicine.
Il vicinato era allora un sodalizio importante: oggi potremo definire questo gruppo sociale, dati i rapporti che vi intercorrevano all’interno, una “famiglia allargata”. Il vicinato sapeva tutto di tutti e quotidianamente forniva un supporto logistico oggi inimmaginabile.
Tutti gli avvenimenti più importanti di questa "grande famiglia" erano patrimonio di tutti: la nascita di un figlio, un battesimo, una cresima, un decesso o anche, più semplicemente, una festicciola come un compleanno o l’uccisione del maiale, animale che allora veniva abitualmente allevato in casa, praticamente da tutti i nuclei familiari. La solidarietà che legava le famiglie all'interno di questa sovra-struttura era forte e compatta. Era compito del vicinato, che operava democraticamente senza capi costituiti o presunti, assistere qualsiasi famiglia ne facesse parte con generosità e altruismo, con una rete di solidarietà oggi sconosciuta.
Si dava assistenza senza essere richiesti alla famiglia di una partoriente, come alla famiglia che aveva subito un lutto; in comune si organizzavano le feste per i battesimi, le cresime o i matrimoni. Tutti fornivano spontaneamente quanto ciascuno poteva, senza regole fisse se non quelle della generosità disinteressata. Qualsiasi cosa poteva costituire aiuto all'occorrenza: la fornitura delle sedie per gli invitati, il prestito del “servizio buono” per il caffè, cosi come la fornitura dello zucchero e del caffè (allora merci rare e preziose); anche la preparazione del pane per le feste avveniva nei vari forni familiari, cosi come quella dei dolci, che non potevano mancare per festeggiare ed onorare i vari avvenimenti importanti di ciascuna famiglia, lieti o tristi che fossero. Ogni fatto importante era, a pieno titolo, patrimonio di tutta la piccola Comunità, quella del “vicinato”.
Era questo sodalizio, di cui oggi si è persa traccia, una cosa bellissima e coinvolgente che io personalmente toccai con mano quando ( è raccontato in altra parte dei miei "ricordi giovanili" ) questa rete di “solidarietà” si prese cura di me, appena nato, e mi fornì il latte materno ( che mia madre non poteva darmi ), con l'utilizzo di ben due balie, intervento allora assolutamente indispensabile per la sopravvivenza di un neonato, data l’impossibilità di reperire gli attuali prodotti artificiali.

Ho fatto questa introduzione per rendere più chiaro quanto sto per raccontarvi sulle notti d’estate ( oggi diremo la “prima serata” ), ovvero sul dopocena estivo degli anni ’50.

In quegli anni del primo dopoguerra gli schemi della civiltà contadina imponevano di cenare presto. Il tocco dell’Ave Maria, che le campane della Chiesa battevano alle 19, era il consolidato richiamo per i capi famiglia ed i ragazzi a rientrare a casa, dove le donne della famiglia avevano già cucinato e preparato il pasto serale. Salvo eccezioni motivate, tutti i componenti la famiglia dovevano essere presenti per la consumazione collettiva della cena, nessuno escluso.
Considerata la frugalità del convivio la consumazione era molto veloce: in poco più di un quarto d’ora il rito veniva portato a termine: il minestrone, la pasta, le patate o le frittate, realizzate con le verdure dell'orto e con le uova delle ruspanti galline, presenti allora in ogni abitazione, non duravano a lungo nel piatto ma sparivano in grande velocità, divorate con avidità, sopratutto da noi ragazzi. Solo nei giorni di festa il pranzo e la cena erano più consistenti ed importanti: un galletto ruspante, un coniglio o un pezzo di carne di maiale ( sempre provenienti dall' allevamento di casa ), allietavano e completavano la cerimonia conviviale festiva.
Nelle calde notti d'estate, a differenza degli altri periodi dell'anno, nel dopo cena si consumava il rito, oggi scomparso, delle chiacchiere in Piazzetta.
Era, questo un modo di "prendere fresco" insieme, di raccontarsi e raccontare alla " famiglia allargata del Vicinato ", fatti e avvenimenti di ciascuno, storie vissute e curiosità, di interesse collettivo; era un modo di fare partecipi tutti delle proprie esperienze di vita vissuta.
Nonostante la stanchezza di una intensa giornata di lavoro ( per i ragazzi quella derivata dai giochi ) non si poteva andare subito a dormire. Il caldo afoso estivo avrebbe impedito il pur necessario sonno ristoratore.
Gli uomini, al termine della cena, lasciata la tavola si trasferivano all'esterno, mentre le donne della famiglia, sistemata la cucina, lavati i pochi piatti e riassettati gli ambienti, preparavano la casa per la notte: tutte le aperture, porte, finestre, abbaini e quant’altro venivano spalancate in modo da “creare corrente”, ovvero cercare di far entrare aria più fresca in tutti gli ambienti, creando quindi flussi d’aria, delle correnti, che facessero uscire dall'interno l’aria calda e consentire, quindi, agli abitanti un riposo meno sacrificato.
Terminate queste operazioni tutte le famiglie del vicinato si radunavano in un punto agevole, direi strategico, della piazza o della via, scelto per la particolare migliore ventilazione, in grado quindi di dare alle persone il maggiore refrigerio possibile.
Ognuno si portava da casa la sua sedia ( su scannu [i]) che aggiungeva, in sequenza, a quelle dei primi arrivati. Era difficile che qualcuno mancasse: succedeva solo per cause di forza maggiore. Questo modo di riunirsi era anche il modo migliore per “fare la conta delle assenze”. Chi per primo era venuto a sapere perchè Tizio o Caio non erano presenti, ne informava doverosamente tutti i presenti, che, come da una “ radio locale”, da un gazzettino sempre aggiornato, venivano a conoscenza di ogni avvenimento lieto o triste che fosse. La conseguenza ovvia era che, nei casi di necessità, le famiglie del vicinato predisponevano quanto necessario per un immediato aiuto collettivo a chi ne aveva bisogno.
Formata la platea, pur in presenza di regole non scritte, la parola passava in primo luogo agli anziani. I piccoli, complice il buio ( l’illuminazione allora solo un debole chiarore celeste ) ascoltavano in silenzio dietro le quinte: i posti in prima fila erano quelli destinati agli anziani.
I ricordi di guerra o quelli degli emigrati erano i più gettonati: Non erano, spesso, ricordi allegri: erano racconti di notti in trincea, di assalti fatti con pochi mezzi, di amici che morivano straziati dalle bombe degli avversari; ma erano anche ricordi di episodi di grande solidarietà, di viveri di sopravvivenza equamente divisi, anche se la fame non sempre era una buona consigliera.
Gli emigrati rientrati a casa, dopo anni di duro lavoro all’estero o nelle città del nord Italia, raccontavano di grandi città piene di gente, di tram, metropolitane e stazioni ferroviarie dove tutti si muovevano in modo veloce, caotico, ben diverso dal nostro tranquillo tran tran quotidiano. Le storie raccontate erano certamente arricchite di fantasia, ma per gli ascoltatori, poco avvezzi alla vita delle grandi città, il mondo raccontato era cosi diverso, cosi fantasioso, che ascoltare il narrante era come entrare, non visti, in un altro mondo, come quello delle fiabe di lontana memoria scolastica.
I racconti degli anziani aprivano la mente di noi ragazzi al nuovo, ad un mondo lontano e sconosciuto; ascoltandoli era come sfogliare un grande libro, dove le parole scritte venivano trasformate dalla fantasia in tanti castelli ubicati in un mondo lontano ed irraggiungibile.
Uno dei narranti più gettonato era un vecchio che da giovane era stato in America. Se non iniziava lui, d’iniziativa, a sfogliare i suoi ricordi era la platea a chiedergli perentoriamente di farlo.
Il vecchio parlava lentamente, quasi faticasse e recuperare da un contenitore troppo pieno quanto andava a raccontare. Le sue parole, nella nostra mente, si trasformavano in tante immagini, come in un film. Parlava di grandi fiumi lunghissimi e larghi come mari, solcati da grossi battelli a vapore, di immense pianure selvagge, piene di animali feroci, di città caotiche piene di gente di ogni tipo dove, spesso, la pistola aveva ragione molto più dei tribunali e dei libri di diritto. I ragazzini come me ascoltavano estasiati, in silenzio: il racconto era meglio, delle noiose lezioni del Maestro di scuola.
Anche se la permanenza al fresco era piacevole non si stava fuori troppo a lungo. La nuova giornata lavorativa per molti iniziava presto. Bisognava recuperare le forse per riprendere, fin dalle prime fresche ore dell’alba, il duro lavoro.
Noi andavamo a letto malvolentieri. Il nostro cervello era ancora dentro quell’immaginario mondo appena ascoltato; avremo voluto che il racconto continuasse all’infinito ma venivamo inderogabilmente dirottati sul nostro lettino. Addormentarsi alla fine non era, però, cosi difficile. Chiudendo gli occhi io continuavo a sentire la suadente voce del nonno che parlava di fiumi e di città, di banditi e di miniere, ed il racconto, nel mio sogno, si trasformava in realtà. Non era più una storia affascinante ma un mondo reale, vivo, vero, che nel sonno mi vedeva partecipe, protagonista, magari con una grossa pistola in mano ad inseguire gli uomini cattivi.
Quando la mia mente torna indietro e ripensa a questi momenti, un piacere sottile mi avvolge e mi riporta indietro nel tempo. Rivedo la piazzetta, gli anziani con il berretto ed il sigaro, risento la voce roca del vecchio che racconta, ancora, il suo passato. Che differenza, rispetto alle serate dei ragazzi di oggi! Niente discoteche, niente stragi del sabato sera, niente alcool, niente telefonini, niente computer, niente grande fratello, niente…di niente…..! Che noia… sbuffano, con fastidio, i nostri figli!
Io, invece, senza farmene accorgere...troppo, dico che erano momenti bellissimi, momenti irripetibili di vera gioia, che mi hanno aiutato a crescere. E li ricordo con struggente nostalgia!

Mario
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note.
[i] “Su scannu, era una piccola ma robusta sedia che, costruita in legno duro ( spesso olivo o quercia), era normalmente usata davanti al caminetto, dato il suo limitato ingombro, per agevolare le varie operazioni: dall’accensione del fuoco , alla preparazione delle graticole o per agevolare la cottura dei cibi. Ogni componente la famiglia ne aveva normalmente una.













domenica, febbraio 28, 2010

ESSERE O NON ESSERE......QUESTO E' IL PROBLEMA!


















Oristano 28 Febbraio 2010
Cari amici,

Spesso, a parole, siamo tutti buoni e altruisti. Ci riempiamo la bocca di ricette miracolose, capaci di togliere la fame ai tanti ( soprattutto bambini ), che nel mondo necessitano di tutto.
Noi, però, singolarmente, cosa facciamo ogni giorno per aggiungere il nostro aiuto, la nostra piccola goccia, capace insieme a tante altre di riempire quel grande serbatoio delle “ Buone azioni” , in grado di aiutare chi ha bisogno? Forse poco, forse niente: aspettiamo che lo facciano gli altri!

Questa piccola storiella potrebbe farci riflettere un po’.
Un sant'uomo ebbe un giorno da conversare con Dio e gli chiese: Signore, mi piacerebbe sapere come sono il Paradiso e l' Inferno.
Dio condusse il sant'uomo verso due porte. Ne aprì una e gli permise di guardare all'interno.
C'era una grandissima tavola rotonda. Al centro della tavola si trovava un grandissimo recipiente contenente cibo dal profumo delizioso.
Il sant' uomo sentì l'acquolina in bocca. Le persone sedute attorno al tavolo erano magre, dall'aspetto livido emalato. Avevano tutti l'aria affamata. Avevano dei cucchiai dai manici lunghissimi, attaccati alle loro braccia.Tutti potevano raggiungere il piatto di cibo e raccoglierne un po'; ma poiché il manico del cucchiaio era più lungo del loro braccio non potevano accostare il cibo alla bocca.
Il sant'uomo tremò alla vista della loro miseria e delle loro sofferenze. Dio disse: "Hai appena visto l'Inferno".
Dio e l'uomo si diressero verso la seconda porta. Dio l'aprì. La scena che l'uomo vide era identica alla precedente. C'era la grande tavola rotonda ed il recipiente che gli fece venirel'acquolina.
Le persone intorno alla tavola avevano anch'esse i cucchiai dai lunghimanici. Questa volta, però, erano ben nutrite, felici e conversavano tra di loro sorridendo.
Il sant'uomo disse a Dio: "Non capisco!" E' semplice, rispose Dio, essi hanno imparato a nutrirsi gli uni con gli altri! I primi, invece, non pensano che a loro stessi... Inferno e Paradiso sono uguali nella struttura...La differenza la portiamo dentro di noi!!!
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Questo racconto, attribuito al Mahatma Gandhi , rappresenta una realtà purtroppo terribile.
Sulla terra c'è abbastanza cibo per soddisfare i bisogni di tutti e non per soddisfare l'ingordigia di pochi. Sono le azioni che contano non le parole che spesso sprechiamo senza concretizzarne il contenuto. " I nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, sono perle false fintanto che non vengono trasformati in azioni. Non guardare se gli altri fanno: fai tu per primo.
Sii tu ilcambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo ".
Sia il nostro un altruismo vero e non di facciata!

Grazie Mahatma Gandhi dei tuoi insegnamenti.
Mario

domenica, febbraio 21, 2010

SPLENDIDI LUOGHI D'INCONTRO: LA BASILICA DI S. PIETRO DI SORRES A BORUTTA.







ORISTANO 21 FEBBRAIO 2010
Cari amici,

Un IDIR davvero “storico” quello di ieri, organizzato dal Rotary Club di Thiesi, Bonorva, Pozzomaggiore a BORUTTA, nella Basilica di S.Pietro di Sorres.
Storico dal punto di vista dei luoghi ma anche per la incredibile riuscita: una partecipazione al di sopra di ogni più rosea previsione. Erano presenti quasi tutti i club della Sardegna (solo 2 assenti per giustificati motivi), compreso il “nuovo club, quello del “ Centro-Nord Sardegna”, ormai quasi arrivato al termine dell’iter procedurale. In totale oltre 150 i rotariani presenti, che affollavano una meravigliosa sala riunioni risalente all’XI secolo che regalava ai partecipanti un’atmosfera profonda e coinvolgente. Ad ornare le nude pareti, in alternanza bi-croma di calcare e basalto, 15 litografie di Aligi Sassu, rappresentanti una ” Via Crucis “ di particolare intensità.
Veramente azzeccata e la scelta del luogo da parte di Club organizzatore: è proprio vero, come ha sostenuto il Governatore Luciano Di Martino, che spesso i club numericamente piccoli annoverano al loro interno capacità e professionalità di alto spessore, alla pari di club ben più blasonati.
La basilica di cui parliamo ha una storia antica e di grande prestigio che vorrei, per chi poco la conosce, riepilogare almeno in sintesi.

La stupenda chiesa romanica di San Pietro di Sorres, situata nel comune di Borutta (Sassari), in capo ai monaci Benedittini Sublacensi, è stata edificata, nei secoli XI-XII, come cattedrale della scomparsa diocesi di Sorres. Questa, come altre diocesi e cattedrali della Sardegna, sorse come conseguenza della riforma della Chiesa, voluta dal papa benedettino Gregorio VII. Il legame con la sede romana del papato spiega il perché la chiesa sia stata dedicata a san Pietro.
Il colle (m. 570) su cui si erge l’edificio sacro, fu scelto, molto probabilmente, perché già nei secoli precedenti gli era stata riconosciuta una notevole importanza strategica. Non è un caso che dietro la chiesa, sia rimasta la base di un nuraghe trilobato, attorno al quale sono stati trovati reperti che fanno arguire la presenza militare dei vari conquistatori dell’Isola: Punici, Romani, Bizantini. La stessa ampiezza delle rovine dell’antico episcopio fanno supporre che di San Pietro di Sorres si sia voluto fare una Cattedrale fortificata.
Il territorio dell’antica diocesi corrispondeva alla zona geografica della Sardegna denominata Meilogu e comprendeva, tra le altre località, anche Monte Santo di Siligo dove, nel 1065, ci fu il primo insediamento dei Benedettini in Sardegna inviati da Monte Cassino.
I Vescovi più insigni della diocesi di Sorres furono monaci cistercensi. Tra essi va ricordato il Beato Goffredo da Meleduno che resse la diocesi dal 1171 al 1178. Egli, come gli altri monaci – vescovi, proveniva da Chiaravalle (Clairvaux), il celebre monastero di san Bernardo, dove si era fatto monaco ed aveva finito i suoi anni il Giudice Gonario di Torres.
La storia della diocesi di Sorres si legò a quella della Sardegna che dai Giudicati autonomi passò, dopo alterne vicende legate all’influenza ora di Genova ora di Pisa, sotto la dominazione aragonese. Fu dunque, anche la sua, una storia di progressivo declino.
Quando, nel 1503, il papa Giulio II unì definitivamente la diocesi di Sorres a quella di Sassari, già da tempo la villa di Sorres si era spopolata e il Vescovo aveva lasciato la sua residenza per stabilirsi a Borutta.
Nei secoli successivi, abbandonata a se stessa, la cattedrale divenne fienile e ricovero di animali; l’episcopio fu completamente distrutto e le sue pietre andarono ad abbellire le case dei paesi vicini.
Nel 1950 il complesso monumentale di Sorres fu affidato ai monaci Benedettini dell’Abbazia di San Giovanni Evangelista di Parma, che, restaurata la Chiesa, costruito l’attuale monastero su disegno del monaco ingegnere P.Agostino Lanzani, la sera del 7 settembre 1955 a San Pietro di Sorres, ripresero a praticare l’antica vita monastica benedettina.
Proprio in questo antico luogo i rotariani sardi hanno tenuto il loro incontro di formazione rotariana che ha affrontato i più importanti problemi attuali: alfabetizzazione, sanità e fame, risorse idriche. I lavori sono stati aperti dal Governatore Luciano Di Martino che nel saluto di benvenuto ha ringraziato la Presidente del Club, Rosanna Schirru, per la grande capacità organizzativa dimostrata. A seguire gli interventi del PDG Angelo Cherchi che ha illustrato la sempre maggiore necessità del Piano Direttivo di Club, di Vannina Mulas, che ha affrontato il problema dell’Alfabetizzazione, di Emanuele Angelucci che ha parlato di Sanità e fame e di Angelo Aru che, invece, ha parlato della drammatica carenza in tanti Paesi di risorse idriche adeguate. Infine l’altro argomento di basilare importanza per il futuro del Rotary: la crescita dell’effettivo. Salvatore Fozzi, Coordinatore della Commissione Distrettuale per l’Effettivo ha ribadito che, pur nella necessità di crescita e rinnovamento, tutto questo non possa avvenire che attraverso l’oculata scelta dei “nuovi rotariani”.
Qualità, soprattutto, prima della quantità. Solo così potremo evitare errori che potrebbero diventare, in futuro, fonte di problematiche difficili da gestire.
La vivace interazione con la sala, alla fine del dibattito, ha evidenziato quanto fossero interessanti gli argomenti trattati. Sono intervenuti, con la loro esperienza anche gli altri PDG presenti all’incontro: Franco Cabras, Lucio Artizzu e Giorgio Di Raimondo, oltre che Assistenti, Presidenti e soci dei vari club.
Dopo le considerazioni conclusive del Governatore, che ha esternato tutto il suo gradimento per l’intensa partecipazione, un piacevolissimo convivio ha ulteriormente rafforzato l’amicizia rotariana.
E’ cosi che il Rotary, che il prossimo 23 Febbraio si appresta a festeggiare i suoi primi 105 anni, potrà davvero affrontare con capacità, competenza e determinazione il suo futuro percorso.

Ecco alcune foto della bella manifestazione.

Mario Virdis

















ANTICHE E PREZIOSE TERME: IL COMPLESSO TERMALE DI FORDONGIANUS



















ORISTANO 21 FEBBRAIO 2010
Cari amici,
una recente conferenza al Rotary Club di Oristano, tenuta dall'amico Ing. Luigi Sanna, ha messo a fuoco la grande importanza che gli stabilimenti termali hanno avuto e continuano ad avere in Sardegna fin da epoca remota.

Credo che se sapessimo utilizzare meglio tali beni naturali di cui la mostra isola è dotata, forse, potremo anche trovare soluzioni ai nostri mali: disoccupazione e, sopratutto, evitare a tanti giovani preparati e capaci una triste emigrazione in cerca di lavoro.

Ecco, partendo dalla bella Conferenza dell'amico Gigi Sanna riscopriamo insieme la storia del meraviglioso complesso termale di Fordongianus.
La Storia.
Fu il geografo Tolomeo nel I secolo a.c. a citare per la prima volta il luogo ove sorgono le terme di Fordongianus con il nome di Acque Ypsitanae e dunque testimoniando la presenza delle sorgenti che hanno consentito alla località di acquisire una vasta popolarità già in epoca antica. Il nome mutò in Forum Traiani sotto il dominio dell’Imperatore Traiano che durò dal 98 al 117 d.c.; nel I secolo d.c., quindi, fu edificato un primo complesso termale, a forma di “N”, dominata da una grande piscina (natatio) attorno alla quale erano posizionate altre vasche secondarie. Alle spalle, nel III secolo d.c. fu edificato un secondo complesso, stavolta a forma di “S” adibito all’igiene e al benessere personale, con i classici frigidarium, tepidarium e calidarium e una scalinata che collegava i due complessi; i resti di entrambe le terme sono ancora evidenti e visitabili nell’area archeologica di Fordongianus e tra questi vi sono anche quelli del sistema di pozzi e cisterne adibite all’immagazzinamento delle acque così come la rete di piccoli canali che portavano l’acqua alle strutture. Le antiche terme, il cui utilizzo venne gradualmente abbandonato dopo il III secolo, furono scoperte dallo storico Giuseppe Manno nel 1825; tra il 1899 e il 1902 furono quindi effettuati i primi scavi, poi ripresi sistematicamente solo nel 1969 per iniziativa della Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Province di Cagliari e Oristano. Solo più recentemente, quindi, la tradizione termale della località è stata recuperata con la costruzione di un moderno stabilimento, parte del Centro Termale Sardegna.

Proprio su questo splendido angolo di Sardegna e sulle sue Terme ci ha piacevolmente intrattenuto, con una splendida conferenza, l’Ing. Luigi Sanna, che nel 1984 ebbe dalla Regione Autonoma della Sardegna l’incarico della progettazione esecutiva della ristrutturazione dell’esistente stabilimento termale, nell’ambito di un progetto di sviluppo del Territorio.
Con l’ausilio di splendide immagini l’ing. Sanna ha ripercorso un po’ la storia dei luoghi e del loro utilizzo. “…Le sorgenti termali di Fordongianus furono conosciute e sfruttate a scopi terapeutici fin dall’antichità, se è vero che in esse si devono riconoscere le “Υδατα Υψιτανα ” citate da Tolomeo nel secondo secolo avanti Cristo. In epoca romana venne costruito nelle sorgenti un grande stabilimento termale, fra le cui maestose rovine sgorgano oggi le acque calde…” Con queste parole è iniziata la parte storica della conferenza che è proseguita poi riepilogando le fonti e gli autori che hanno tramandato a noi gli antichi utilizzi. “…Diversi autori hanno lasciato descrizioni dei ruderi dello stabilimento , ma la più ampia e completa, basata sui risultati di una campagna di scavi appositamente condotta, è quella data nel 1903 dal Taramelli. ..”, continua l’ing. Sanna.

Il conferenziere è poi passato all’illustrazione degli odierni utilizzi delle fonti e della splendida struttura, moderna ed efficiente, che continua in chiave attuale ad utilizzare proficuamente le antiche acque.
L’attuale stabilimento, entrato in funzione nel 2005, coniuga, con criteri moderni razionalità e funzionalità, non disgiunte da un aspetto gradevole e ben inserito nel contesto ed in una realtà “particolare”, date le profonde radici storiche prima ricordate.
Tutti noi abbiamo potuto ammirare nelle immagini proiettate non solo gli splendidi resti del passato, che testimoniano ancora oggi la grande passione dei romani per le Terme, ma anche la funzionalità e la bellezza “moderna” delle nuove strutture.
Saloni colorati, ampi spazi aperti, pareti con tonalità morbide alternate ad altre accese, soffitti ondulati in doghe di legno, camerini per i fanghi e laboratori dotati della più moderna tecnologia, davano quella sensazione di moderno e funzionale insieme che accomuna le strutture e gli spazi del terzo millennio.

Credo che alla fine della Conferenza a non pochi di noi sia venuta voglia… di trascorrere qualche giorno nella splendida struttura con il moderno albergo annesso alle Terme, immergersi per qualche ora nelle calde acque termali, accompagnati, magari, da un rilassante idromassaggio.
La Sardegna ha tante belle risorse che, ben sfruttate, potrebbero sicuramente alleviare le non poche problematiche, economiche e di lavoro, che tolgono, ai giovani soprattutto, la serenità del futuro.



















domenica, febbraio 07, 2010

LO SPLENDIDO CARNEVALE ORISTANESE: LA SARTIGLIA.

















Oristano 7 Febbraio 2010

Febbraio per Oristano è soprattutto SARTIGLIA.



Anche quest’anno siamo giunti, ormai, ai fatidici giorni: Domenica 14 e Martedì 16 Febbraio: l’ultima Domenica del Carnevale ed il Martedì grasso, sono quelli da lungo tempo dedicati al grande torneo, a quella giostra, che ha il suo culmine con la grande corsa alla stella, corsa da secoli davanti alla Cattedrale di S. Maria.
Credo che pochi non sappiano cosa, in realtà, sia questa manifestazione che affonda le sue radici nei secoli. Quella di quest’anno è la 545^ edizione dell’antica Giostra.
Per gli amici che leggono il mio blog e che ancora non conoscono questo spettacolare ed antico rito, riepilogo, attingendo alle fonti dei miei tanti amici, le sue origini e la sua storia.

LA SARTIGLIA: STORIA e TRADIZIONE
(A cura di Stefano Castello e Maurizio Casu)

Ai giochi di addestramento militare a cavallo, che nell’Europa medievale avevano il fine ultimo nelle crociate, seguirono nel corso del XV e del XVI secolo i tornei equestri cavallereschi, grandi spettacoli equestri eseguiti in occasione di eventi importanti, offerti al popolo come intrattenimento. Sovrani, viceré, feudatari e corporazioni di mestiere offrivano al pubblico tali spettacoli in occasione di prese di possesso di cariche di re o vescovi, di nascite di eredi al trono o di particolari festività del calendario liturgico, coinvolgendo direttamente il ceto nobiliare e relegando il popolo al rango di spettatore.
Anche la Sartiglia di Oristano, che rientra nell’ambito più generale delle corse all’anello, così come è giunta sino ai nostri giorni, è da considerarsi come un pubblico spettacolo, organizzato allo scopo di intrattenere e divertire gli spettatori.
Ancora oggi in tutta Italia si contano numerose gare di abilità di cavalieri che tentano la sorte cercando di cogliere un anello con una lancia. I cortei storici, aperti dall’immancabile presenza di tamburini e trombettieri, precedono le prove di maestria di cavalieri che gareggiano in rappresentanza dei quartieri storici delle città. La più antica testimonianza della giostra all’anello è del 1371, a Narni, in provincia di Trani, dove ancora oggi si corre in occasione della festa di San Giovenale. La giostra all’anello è tramandata attualmente in tante città d’Italia e d’Europa. L’anello in genere è sospeso ad una funicella, talvolta è mantenuto da una sagoma di cavaliere o di animale. La prova ha come obiettivo quello di cogliere o colpire l’anello. In altre tipologie di giostre il bersaglio è rappresentato da una sagoma o buratto, che riproduce il cavaliere avversario contro il quale anticamente ci si scontrava in duello. La famosa corsa di Foligno prende il nome di Quintana dalla sagoma che regge l’anello. A Catanzaro, come a Sartiano, in provincia di Siena, la corsa prende il nome di giostra del Saracino, giacché la sagoma che regge l’anello da cogliere rappresenta un musulmano. L’anello assume la forma di una stella così come nella corsa oristanese, anche nelle manifestazioni che si corrono a Suriano sul Cimino, in provincia di Viterbo, e a Bagno a Ripoli in provincia di Firenze.
Sicuramente la Spagna è da sempre terra di elezione delle Sortijas. Il giorno dell’Epifania del 1461 a Jaen, in Andalusia, si corse una Sortija del tutto simile alla corsa oristanese. Cavalieri mascherati corsero con lo stocco all’anello al suono di trombe e tamburi. A Ciuttadella, nell’isola di Minorca, ancora oggi per i festeggiamenti della natività di San Giovanni Battista, si corre l’Ensortilla. Da alcuni anni la città di Oristano e quella minorchina, sono unite in gemellaggio per questa comune antica tradizione.
Dalla penisola iberica al Regno di Sardegna in età spagnola il passo è breve.
Nel 1556 a Sassari si corre all’anello per festeggiare l’ascesa al trono del re Filippo II di Spagna. A Iglesias la giostra nei primi anni del Seicento commemora il passaggio delle spoglie di Sant’Antioco e nel 1716 è la volta dei gremi che a Cagliari organizzano mascherate e giostre equestri per festeggiare la nascita del Principe delle Asturie.
L’attuale organizzazione della Sartiglia ad Oristano per opera dei gremi rimanda al XVI secolo, periodo in cui tali istituzioni operarono nella Oristano Città Regia, ma i frequenti rapporti dei regnanti arborensi con i signorotti dell’Italia dei comuni del XIII e del XIV secolo, non che i lunghi soggiorni dei nostri giudici nelle grandi città della Spagna in piena età medievale, inducono a supporre che i sovrani del giudicato d’Arborea conoscessero bene i giochi di esercitazione militare, e che nella capitale arborense, così come nelle grandi città dell’Europa del tempo, nobili e cavalieri si cimentassero con la spada e la lancia nelle prove di abilità e addestramento a cavallo.

Perché il torneo potesse essere partecipato da tutto il popolo era necessario comunicarlo nella maniera più diffusa possibile. Lo strumento comunicativo più importante dell’epoca era il Bando.

Il Bando.

Per lunghi secoli l’attività dei banditori aveva rappresentato una delle principali fonti di informazione di un’intera comunità. Tale formula di comunicazione e di avviso pubblico non mancava di segnalare eventi e cerimonie importanti quali potevano essere spettacoli ed avvenimenti celebrativi. È verosimile che sin dalle più antiche edizioni, anche la corsa della Sartiglia venisse annunciata da un araldo nelle principali piazze della città. Attualmente non si hanno documenti storici relativi a questa fase della giostra ma riteniamo altamente probabile questa forma di comunicazione e diffusione. Con questa certezza, ormai da alcuni decenni, ad opera della Pro Loco cittadina, risulta istituzionalizzata e quindi parte integrante della manifestazione, far precedere “ La Sartiglia” dal “Bando”. Ecco quindi la figura dell’araldo a cavallo che, con voce altisonante, annuncia al Popolo il torneo dando lettura del bando attraversando le più importanti strade cittadine. E’ questo uno dei primi atti che apre le giornate della Sartiglia.
L’avviso della corsa viene dato nella mattina della domenica di quinquagesima, e del martedì successivo, partendo dalla piazza Eleonora, la piazza prospiciente il Palazzo di Città. Il banditore, scortato da alfieri recanti le insegne della città e accompagnato da tamburini e trombettieri, percorre le strade del centro storico cittadino, raggiunge i borghi più vicini, e, soffermandosi nei principali crocevia, da lettura dell’annuncio dell’imminente corsa. Per provvedere all’utile e nobile divertimento dell’intera comunità, l’autorità cittadina invita cavalieri e pubblico, per correre ed assistere alla corsa, a recarsi presso “sa seu de Santa Maria” ovvero nel piazzale antistante la cattedrale della arcidiocesi arborense.
L’araldo rende note le volontà dell’autorità civica, l’orario d’inizio della gara e i premi riservati ai cavalieri vincitori che, secondo l’antica costumanza, dovranno cimentarsi nelle prove di abilità con la spada e la lancia, si comunica inoltre la disposizione affinché tutti i cavalieri partecipanti siano sottoposti al comando e all’ordine de “Su Mastru Componidori”, ovvero del capocorsa già nominato.

Ecco il testo del Bando letto dall’Araldo.

Su Bandu.
E si ettada unu bandu

Amadu Populu de Aristanis,

siat a tottus notoriu chi nos

Pro Gracia de Deo Angela Nonnis Sindigu de Aristanis,

Conti de Goceano, Bisconti di Basso,

volendo provvediri ass'utili e nobili

divertimentu de tottus sos fidelis

subdytos nostros e de totas

sasCuradorias de Sardynia

habemos deliberadu de faghere,

segundu s'antiga costumanza,

e pro tanto ordinamus

Si fazzat una laudabile giostra,

ovvero Sartillia,

tra donnos, donnicellos,

lieros e mannos homines.

Sa prova de ispada e de lanza, ovvero

de vara aragonesa s'hat a tenner oe

dominiga (martis) de carrasegare a denante

sa seu de Santa Maria nostra protettora,

et hat a esser prinzipiada a s'ora terza de

Nostro Signore, a cumandu e ordini de su

Mastru Componidore, dae nos destinadu

Ordinamus

chi su binchidore siat alloradu et S'appat

su premiu de manu de Nos Sindigu.

Sia custu a tottus notoriu.


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Il programma di quest'anno.

La 545° edizione della Sartiglia di Oristano 2010 avrà inizio domenica 14 Febbraio, con il seguente calendario:

Domenica 14 febbraio Gremio dei Contadini di San Giovanni

Ore 10,00 - Bando

Ore 12,00 - Vestizione

Ore 13,00 - Sfilata del Corteo

Ore 13,30 - Corsa alla stella

Ore 17,00 - Pariglie

Ore 19,00 - Svestizione


Lunedi 15 febbraio - Sa Sartigliedda ( riservata ai ragazzi che montano i cavallini della Giara )


Martedi 16 febbraioGremio dei Falegnami di San Giuseppe

Ore 10,00 – Bando

Ore 12,00 – Vestizione

Ore 13,00 - Sfilata del Corteo

Ore 13,30 - Corsa alla stella

Ore 17,00 – Pariglie

Ore 19,00 – Svestizione

…………………………………………………



EVENTO STORICO QUEST’ANNO NELLA SARTIGLIA ORISTANESE.



PER LA PRIMA VOLTA PER IL GREMIO DEI FALEGNAMI, E PER LA SECONDA VOLTA NELLA STORIA DEL TORNEO CAVALLERESCO, IL CAPOCORSA SARA' UNA DONNA - IL MAJORALE MAURO LICHERI HA DESIGNATO ELISABETTA SECHI A COMPONIDORI DELLA SARTIGLIA DEI FALEGNAMI, CHE SI CORRERA' IL 16 FEBBRAIO.
CAPOCORSA DEL GREMIO DEI CONTADINI, DESIGNATO DAL MAJORALE SARA’ INVECE MAURO SECCI CHE GUIDERA’ LA CORSA DOMENICA 14 FEBBRAIO.


VEDIAMO ORA UN RIEPILOGO DELLO SVOLGIMENTO DELLO STORICO TORNEO.


LA CORSA ALLA STELLA
(A cura di Stefano Castello e Maurizio Casu)

Al termine della cerimonia della vestizione del Cumponidori, il corteo dei cavalieri guidato dal Cumponidori e preceduto dai trombettieri, dai tamburini e dal “gremio” che organizza la giostra della giornata, si dirige alla volta della via della Cattedrale di Santa Maria Assunta.
Nella storica strada, sede di numerosi edifici religiosi e trasformata dalla tribune e dalla sabbia sul percorso, la folla è in tripudio al passaggio del solenne corteo. È uno dei momenti più emozionanti della manifestazione. L’abbraccio della città e dei numerosi turisti provenienti da tutte le parti del mondo è forte. I curiosi che per la prima volta assistono ad un simile spettacolo sono rapiti, dall’imponenza dei cavalli, dall’eleganza dei cavalieri rivestiti degli antichi costumi della tradizione sarda e spagnola, dall’esplosione dei colori delle bardature, dal tripudio delle trombe e dall’incedere dei tamburi. Ma su tutto colpisce l’eleganza imponente e ieratica del Cumponidori, il re della corsa e della città che per un giorno attira su di sé le attenzioni e le aspirazioni di tutta una comunità.
Un triplice incrocio di spade tra il Cumponidori e il suo secondo dà inizio alla corsa. Il ritmo segnato dai tamburi rende solenne questa fase iniziale della giostra che si svolge proprio sotto il nastro verde che sostiene la luminosa stella di latta.
A partire da quel momento inizia la sfida. Il Cumponidori per primo tenterà la sorte cercando di cogliere al gran galoppo il bersaglio, poi sarà la volta dei suoi due aiutanti di campo. Successivamente potranno cimentarsi nell’impresa tutti i cavalieri cui il capo-corsa darà l’onore della spada. Infatti lui e solo lui potrà scegliere chi, tra tutti i cavalieri, potrà affrontare il percorso della Cattedrale, tentare di cogliere la stella e quindi con ardimento, affrontare la pericolosa curva di San Francesco. La felice impresa dell’uomo a cavallo che coglie il bersaglio è motivo di grande gioia per il cavaliere, per il “gremio” e per tutto il pubblico che accoglie con un boato la stella centrata. Il cavallerizzo abile e fortunato potrà rientrare sul percorso, godersi il tributo dei tamburini, dei trombettieri e il caloroso applauso della folla festante. A lui rimarrà in ricordo una piccola stella d’argento consegnatagli in premio.
I cavalieri che per sorte e straordinaria abilità riusciranno nell’impresa di cogliere un’altra stella nella seconda giornata di Sartiglia riceveranno in premio una piccola stella d’oro.
Quando il Cumponidori decide di avviarsi verso la conclusione della corsa, rientra sul percorso riportando le spade utilizzate e consegnate alla massima autorità del “gremio” riceve su stoccu, la lancia di legno. Solo a lui e ai suoi compagni di pariglia sarà concesso l’onore di affrontare nuovamente il percorso in cattedrale e tentare di cogliere l’agognata stella con lo stocco.
Ultimate tutte le discese alla stella, il Cumponidori si reca nuovamente sul sagrato della cattedrale, riconsegna la lancia di legno e riceve il suo scettro di mammole. È questo uno dei momenti più emozionanti e toccanti della corsa. I tamburini con un ritmo straordinario accompagnano il capo-corsa che, benedicendo continuamente la folla facendo dei segni di croce con lo scettro di fiori, si dirige verso la Piazza Manno, punto di partenza delle discese alla stella. Lo squillo di trombe e il rullo dei tamburi annuncia sa remada, il coraggioso atto compiuto dal Cumponidori che chiude ufficialmente la corsa alla stella riverso sul cavallo, affrontando a gran galoppo il percorso salutando e benedicendo il “gremio” e tutti i presenti. La galoppata termina nel piazzale dove sostano tutti i cavalieri che con grida di giubilo e applausi salutano l’estremo atto compiuto dal capo della corsa. Da quel momento si ricompone il corteo dei cavalieri che ripercorrendo la via duomo e passando dal corso e dalla piazza Roma, si dirige verso la via Mazzini, teatro dove si svolgeranno le evoluzioni a pariglia.

Ormai la giornata si avvia alla conclusione. Le prime ombre della sera calano su una Città vociante e allegra. In relazione al numero delle stelle colte, segno se numerose di buona annata, si fanno pronostici e progetti di speranza.
Le spettacolari esibizioni dei cavalieri nella Via Mazzini chiudono la giornata e danno al popolo quella gioia che solo un carnevale antico e fiero come questo è capace di dare.

Ecco alcune foto simbolo della bella ed storica Sartiglia di Oristano.

- A presto! e…grazie dell’attenzione.

Mario