Oristano 16 gennaio 2021
Cari amici,
Su questo blog mi è
capitato più volte di parlare dello spopolamento in Sardegna dei piccoli paesi, in
particolare di quelli dell’interno, dove l’esiguo numero di abitanti (in realtà costituito solo da vecchi ormai fuori dal circuito produttivo), ha fatto sì che andassero via diversi servizi essenziali,
come poste, banca, scuole e negozi. Oggi torno sull’argomento dopo aver letto su
Internet l’interessante articolo di Massimiliano Perlato, dal titolo: “Senza
paesi non sarà più Sardegna. Difendere le Comunità come ultime sentinelle di
una cultura millenaria”, arrivando alla conclusione che ‘senza paesi
non sarà più Sardegna’.
La sua analisi, che
condivido in pieno, evidenzia proprio la realtà della nostra Sardegna, che, da
tempo immemorabile, è costituita da piccoli paesi, che spesso non raggiungono
le 500 anime. Nella nostra isola fin dal periodo del neolitico antico (tra i 6.000 e i 4.000 anni
prima della nascita di Cristo), i sardi abitavano un’isola coperta da fitti
boschi, e i loro insediamenti erano concentrati in piccole Comunità, alcune vicine, altre distanti tra
loro, collocate nei punti ritenuti più idonei. La maggior parte di queste piccole Comunità erano concentrate lontano dalle zone costiere, un fatto abbastanza comprensibile, in quanto essendo l’isola posta al centro del Mediterraneo, era soggetta
a costanti incursioni piratesche, pe cui risultava più sicuro trovare miglior riparo
all’interno dell’isola.
Si, amici, come scrive
Massimiliano Perlato, la Sardegna è stata caratterizzata per lunga parte della
sua storia da una vicenda demografica e insediativa assai peculiare per
un’Isola, quella cioè di coste quasi disabitate e di una popolazione che è
rimasta a lungo concentrata nelle zone interne, a causa, come detto, sia delle zone costiere
malariche che delle accennate, numerose incursioni via mare da parte di altri popoli. Col
passare del tempo, però, questa caratteristica iniziale è andata completamente
capovolgendosi, con un costante spostamento verso città costiere, come Cagliari,
Sassari e Olbia, rendendo, in questo modo, praticamente spopolate e deserte le zone interne
e creando quel tristissimo fenomeno dello svuotamento, che in tempi brevi
tramuterà molte storiche realtà paesane in paesi fantasma.
Si, amici, ultimamente molti
di questi piccoli paesi (soprattutto quelli delle zone interne) stanno morendo,
in quanto vengono progressivamente abbandonati dai loro abitanti. È una realtà
ormai inconfutabile, complici anche le Istituzioni, che, con la chiusura di
uffici essenziali, lasciano scoperti questi centri anche dell’indispensabile,
costringendo i pochi rimasti a desistere dal continuare a restare, per
trasferirsi in luoghi che garantiscono migliori condizioni di vita (come, per esempio, la
possibilità di non fare km per spedire una raccomandata!). Ecco un dato che fa davvero
tremare: su 377 Comuni, in Sardegna solo 99 (quelli più vicini ai grandi centri), sono leggermente cresciuti in popolazione, tutti gli altri sono risultati, invece, in
calo.
Scrive Perlato nella sua
lucida riflessione: “È immaginabile una Sardegna vuota all’interno,
consegnata alla insicurezza e al vandalismo crescente e a un degrado
irreversibile dal punto di vista demografico, sociale ed economico? Possiamo
immaginare le zone interne ridotte a una sorta di “riserva indiana”, nella
quale una popolazione accampata sulle coste si limita a qualche incursione nei
territori barbarici dell’interno per vari approvvigionamenti? Chi ancora
resiste nei paesi dell’interno probabilmente vive bene o, almeno, abbastanza
bene. Ha spazio, aria pulita, cibi generalmente genuini. D’estate poi, quando
in molti tornano per qualche giorno al paese d’origine, può apprezzare, tra uno
spuntino in compagnia e una sagra paesana, una qualità di vita raramente
riscontrabile altrove”.
Cari amici, i modi di
vivere attuali non sono certo congeniali al piccolo centro, dove Internet a
volte è un miraggio, e la vita sociale ridotta a ‘su zilleri’ o alla chiacchierata
nella panchina della piazza principale del paese. Negli ultimi lustri si sono
dimezzati tantissimi paesi, la metà dei comuni ha meno di 2.000 residenti e,
tra i centri più piccoli, uno su sette è considerato a rischio sopravvivenza.
La tendenza allo spopolamento sembra ormai inarrestabile. Nel Medioevo furono
la peste e la malaria a modificare la geografia dell’isola, e oggi di molti
villaggi di allora resta soltanto il ricordo, a volte qualche chiesa campestre e
qualche sperduto toponimo.
Ora, invece, le cause dello
spopolamento sono ben altre: la mancanza di posti di lavoro, di apparati
tecnologici, di strade adeguate, tali da consentire di raggiungere rapidamente la
città; insomma, in sintesi, l’assenza di prospettive. Allora diventa sempre più difficile il percorso
amministrativo di chi assiste, quasi impotente, alla fuga dei suoi abitanti e
vede chiudere le scuole, gli uffici bancari e postali e infine il disgregarsi del tessuto sociale
della sua Comunità, con i rioni sempre più vuoti. Molti paesi rischiano di
scomparire nell’indifferenza generale. Eppure non si può morire senza reagire! Se è vero, come è vero, che lo Stato e la Regione potrebbero fare di più, anche i piccoli
comuni potrebbero e dovrebbero anch'essi fare molto, cercando di essere i protagonisti del proprio
destino.
Sono nativo anch’io di un
piccolo paese, Bauladu, in provincia di Oristano. Frequento ancora il mio paese natio (abito
ad Oristano) e conosco bene il Sindaco, Davide Corriga, giovane particolarmente attivo che cerca
in tutti i modi di rivitalizzare la vita sociale del suo piccolo centro. Ha portato
a Bauladu grandi eventi culturali, dei premi letterari, dei concerti di musica, gare campestri e maratone, ha cercato di valorizzare l’archeologia, che può dare la possibilità ai giovani di cimentarsi e impegnarsi nei diversi aspetti della vita sociale.
Altrettanto ha fatto anche l'attivo e dinamico Sindaco di Villanovaforru, Maurizio
Onnis, che ha investito anche lui molto in cultura ed è riuscito a frenare lo
spopolamento del suo piccolo paese. Sicuramente anche altri stanno seguendo le stesse orme. Ma un futuro
migliore per i nostri centri dell'interno può venire solamente dal “lavorare insieme”, dall’unirsi per
combattere la stessa battaglia. Noi sardi, purtroppo
siamo molto attaccati alle tradizioni e viviamo un campanilismo esasperato. È tempo di cambiare, perché da soli si può
solo perdere, mentre uniti si può vincere la sfida. Bando dunque alle divisioni
campanilistiche: uniti si diventa più forti, e solo creando consorzi tra Comuni
si può affrontare meglio la battaglia del futuro. I piccoli Comuni, se vogliono
sopravvivere, se vogliono orgogliosamente mantenere e non disperdere un
patrimonio culturale immenso di antichi saperi e tradizioni, debbono
consorziarsi, portare avanti insieme la comune battaglia per la sopravvivenza, che, condotta uniti,
può essere vinta.
Sarebbe davvero un grave
peccato lasciar morire queste antiche realtà, anche se oggi ridotte al
lumicino. Sarebbe una perdita immensa, perché queste Comunità sono le ultime sentinelle
della nostra cultura millenaria!
A domani.
Mario
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