Oristano
25 Dicembre 2018
Cari
amici,
Oggi è NATALE! La gioia dello stare insieme a chi ci ama, la pace del Signore, nato per la nostra salvezza, riempia il nostro cuore di gioia, serenità e letizia. Oggi vorrei che tutti Voi, che curiosamente leggete il mio blog tutti i giorni, rifletteste con me su un argomento davvero molto delicato: il rispetto dei sentimenti religiosi. Per questo porto a Vostra conoscenza due fatti di cronaca che, a livello giuridico, hanno avuto sentenze molto diverse. Eccole.
Sono due curiose sentenze,
entrambe emesse dalla CEDU Corte Europea per i Diritti dell'Uomo), che però risultano così differenti tanto da far riflettere non poco.
Nei due casi che sto per riportare, a me appare evidente l’applicazione, da
parte della Corte, di “Due pesi e Due
misure”, ed è per questo motivo che ho deciso di fare questa riflessione
con Voi, per aprire un dialogo, una discussione. Ecco il riepilogo dei due
fatti e delle decisioni prese dalla Corte.
Nel primo caso (i fatti
sono avvenuti nel 2012) una società della Lituania che produce vestiti, lanciò
una pubblicità a dir poco irrituale: i cartelloni mostravano un uomo e una
donna con l’aureola, lui in jeans e tatuato e lei con un vestito bianco e una
collana di perline; le scritte reclamizzanti dicevano: “Gesù, che pantaloni!”, “Cara Maria, che vestito!” e “Gesù e Maria, cosa indossate!”. I
manifesti innescarono una lunga serie di polemiche e proteste, inviate
all’Agenzia nazionale per la difesa dei diritti dei consumatori. Sia l’organo di
autoregolamentazione dei pubblicitari che la Conferenza Episcopale lituana
conclusero che questa pubblicità non rispettava la religione e quindi erano una
violazione della morale pubblica.
Nell’iter processuale
che ne derivò l’azienda fu ammonita e multata per 580 euro. L’azienda fece ricorso
e, dopo l’esaurirsi dei diversi gradi di giudizio, la questio finì per
approdare alla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Questa, esaminato il ricorso, deliberò in favore
dell’azienda, dimostrandosi favorevole all’uso dei simboli religiosi nelle
pubblicità, e condannando la Lituania per aver multato un’azienda che si era
servita di Gesù e Maria per vendere vestiti. Secondo i giudici, la multa,
inflitta per aver “offeso la morale
pubblica”, aveva invece violato il diritto alla libertà d’espressione. Nella
sentenza di Strasburgo si legge che la Corte aveva ritenuto che “la libertà di espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali di
una società democratica”. Essa, inoltre, “si estende a idee che scioccano, offendono o disturbano”.
Questo concetto però, come potrete ora leggere, è stato completamente ribaltato dalla stessa Corte nel secondo caso che ora riepilogo.
Questo concetto però, come potrete ora leggere, è stato completamente ribaltato dalla stessa Corte nel secondo caso che ora riepilogo.
Questa volta oggetto
della questio è una donna austriaca, una certa signora Elisabeth
Sabaditsch-Wolff, che nel 2011 fu dichiarata colpevole di aver “denigrato gli insegnamenti religiosi”,
dopo aver tenuto una serie di conferenze circa i pericoli dell’Islam
fondamentalista. Lei fu accusata, parlando in un seminario sull’Islam, di aver usato
parole offensive nei confronti del profeta Maometto, accusandolo di pedofilia
in quanto aveva sposato sua moglie Aisha quando lei aveva solo 6 o 7 anni. Le
reali parole pronunciate dalla signora viennese erano: “Un 56enne e una bambina di 6 anni? Come chiamarlo, se non un caso di
pedofilia?”
Nel processo a suo
carico la donna venne ritenuta colpevole di aver “denigrato gli insegnamenti religiosi di una religione legalmente
riconosciuta”, ai sensi dell’art. 188 del Codice penale austriaco. Il
giudice motivò la decisione presa affermando che il contatto sessuale avuto da
Maometto con Aisha di 9 anni non poteva essere considerato un atto di pedofilia
in quanto il suo matrimonio con Aisha durò fino alla morte del Profeta. Secondo
questa linea di pensiero, Maometto non aveva alcun desiderio esclusivo per le
minorenni; Egli era anche attratto da donne più grandi, perché Aisha aveva 18 anni
quando Maometto morì. La pena comminata alla donna fu una multa di 480 euro.
Elisabeth però impugnò
la sentenza presso la Corte d’Appello e poi anche alla Corte Suprema, ma senza
esiti a lei favorevoli. In ultima istanza decise di rivolgersi direttamente
alla CEDU. La signora Sabaditsch-Wolff, basandosi sull’art. 10 (libertà di espressione) della Convenzione, nell'istanza si lamentò del fatto che i tribunali austriaci
non esaminarono a fondo la sostanza delle sue dichiarazioni, non tenendo in debito conto il suo
diritto alla libertà di espressione. Inoltre, le critiche da lei mosse
all’Islam si inserivano nel contesto di una discussione obiettiva, capace di
contribuire a promuovere un dibattito pubblico e non avevano nessuno scopo
diffamatorio nei confronti di Maometto.
La CEDU, però, nella
sentenza ribadì che gli Stati possono anche limitare il diritto alla libertà di
espressione sancito dall’art. 10 della Convenzione, se la libera opinione
espressa “è suscettibile di incitare
all’intolleranza religiosa” e che in tal modo “rischia di turbare la pace religiosa nel loro Paese”.
Riassumendo le due sentenze, non sembra anche a Voi che esse si contraddicano? La seconda ribalta il concetto espresso nella prima sentenza, circa la prevalenza del diritto di espressione sul possibile turbamento del sentimento religioso, che non può essere considerato valido una volta si e una volta no! A leggere la seconda sentenza, infatti, la libertà di espressione, secondo i giudici, seppure
possa godere di un’ampia protezione, di fronte al problema di conciliare le
esigenze di libertà individuale con quelle della sicurezza pubblica, perde di
valore, risultando prevalente il pericolo sociale derivante. In conseguenza,
la motivazione della Corte ha dato ragione ai tribunali austriaci, in quanto il
rischio di infrangere la pace sociale è maggiore di quello di multare il
singolo per la sua libertà di espressione.
Cari amici, sono sempre stato contrario ai 2 pesi e alle 2 misure. Il rispetto nei confronti dei sentimenti in capo ai componenti le Comunità deve sempre prevalere: non c'è scopo commerciale che tenga! Che quello espresso o professato sia un credo laico o religioso non dovrebbe mai fare la differenza. Mettendo a confronto le
due sentenze, quella sul caso avvenuto in Lituania e quello avvenuto in Austria l'equità di giudizio non appare proprio! La Corte poco si è preoccupata del possibile turbamento del sentimento religioso dei Cristiani, mentre ha ritenuto fondato il possibile
turbamento dei sentimenti religiosi dei Musulmani.Vi sembra equità questa?
Buon Natale a tutti Voi, cari amici. A domani.
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