lunedì, marzo 06, 2017

CASSAZIONE, UN SENTENZA CHE FA RIFLETTERE: PRETI E SUORE NON POTRANNO PIÙ MENTIRE SE A CONOSCENZA DI REATI COME UNO STUPRO. NEGATO IL “SEGRETO CONFESSIONALE”.



Oristano 6 Marzo 2017
Cari amici,
La Corte di Cassazione con una sua sentenza ha praticamente 'annullato', almeno parzialmente, il sacro vincolo del «segreto professionale», concesso ai religiosi con le norme concordatarie del 1985. In determinati casi, dunque, preti e suore non potranno tacere o dire il falso quando, interrogati dai magistrati, siano in possesso di notizie relative a fatti commessi se ‘penalmente rilevanti’. I giudici con la sentenza emessa hanno di fatto ridimensionato la generica «missione» svolta dagli ecclesiastici nell’ambito della loro attività sociale di assistenza ai soggetti deboli, scindendo la parte strettamente religiosa da quella civile, ovvero di soggetti a pieno titolo parte attiva della Comunità e quindi impegnati socialmente.
La protezione data a quelle persone che hanno compiuto fatti gravi penalmente rilevanti, dicono i giudici, «non rientra certamente nell'esercizio diretto della fede religiosa»; un certo tipo di protezione che finora veniva garantita attraverso il ‘segreto confessionale’, risulta per i giudici 'anomala', in quanto l’unico ambito per il quale è concesso, per le norme concordatarie del 1985, di evitare di rispondere ai giudici, riguarda l’aspetto puramente religioso. Preti e suore, dunque, non possono più tacere o dire il falso quando, essendo venuti a conoscenza di fatti di rilevanza penale, vengono sottoposti ad interrogatorio dai magistrati.
Questo quanto hanno sottolineato lo scorso 15 Dicembre i giudici della Suprema Corte, confermando le condanne per falsa testimonianza ad un anno di reclusione ciascuno con pena sospesa, nei confronti di un parroco, Don Antonio Scordo, e della suora Cosima Rizzo, che negarono di aver saputo delle violenze sessuali subite dalla 13enne Annamaria Scarfò (che si era affidata alla loro 'protezione') ad opera di un branco di ragazzi a San Martino di Taurianova in Calabria, quando la donna (che oggi ha 31 anni e vive sotto protezione), era adolescente. Ecco, per maggior chiarezza, lo svolgersi dei fatti.
All’incirca 18 anni fa a San Martino di Taurianova in Calabria, la tredicenne Annamaria Scarfò fu violentata da un branco di ragazzi del posto. Sconvolta dall’accaduto e preoccupata di eventuali ripercussioni sulla sorellina in caso di denuncia, la ragazzina decise di confidarsi con don Antonio Scordo e Cosima Rizzo, rispettivamente il parroco e la suora del paese. I due tacquero sull’aggressione e sui responsabili pur conoscendone i nomi, motivo per cui vennero accusati dagli inquirenti, dopo che la ragazza denunciò l’accaduto, di falsa testimonianza e condannati sia in primo che in secondo grado.
La Cassazione, confermando le sentenze precedenti, ha totalmente condiviso la ricostruzione della vicenda fatta dalla Corte di Appello, che accertò che Annamaria si era rivolta al parroco Don Antonio Scordo "per ragioni diverse da quelle dell'esercizio dell'attività religiosa", in quanto in lui vedeva una "autorità morale", in grado svolgere quella 'funzione sociale' di assistenza che le occorreva. I supremi giudici hanno escluso che le sentenze emesse sulla responsabilità penale di questi due religiosi abbiano "limitato" il diritto al segreto professionale concesso ai due religiosi con il Concordato, ribadendo che quanto confidato dalla ragazzina non era tanto una 'confessione' ma una richiesta di assistenza morale, in quanto lei, vittima, non aveva certo peccati da confessare.
Il segreto confessionale, ha affermato la Cassazione contestando la tesi difensiva dei due imputati condannati alla stessa pena sia in primo grado dal Tribunale di Palmi che in secondo dalla Corte di Appello di Reggio Calabria nel 2016, non può "investire qualsiasi conoscenza dell'ecclesiastico bensì riguarda solo quella acquisita nell'ambito di attività connesse all'esercizio del ministero religioso", e dunque non può 'coprire' tutte le "confidenze" delle quali viene a conoscenza.
Ad avviso dei supremi giudici, quindi, la Corte d’Appello ha "correttamente” ritenuto che i fatti addebitati agli ecclesiastici per i comportamenti tenuti, non potevano fare riferimento all'esercizio della 'fede religiosa', ma ne esulassero, in quanto compiuti nell'ambito di attività 'sociale', anch’essa tipicamente svolta dagli ecclesiastici. Come spiega il verdetto della Corte (n.6912), "Ad esempio l'attività di assistenza a soggetti deboli, pur rientrante nella generica 'missione' dell'ecclesiastico (tanto da esistere specifici Enti a ciò deputati nell'ambito della religione di appartenenza dei ricorrenti) non rientra certamente nell'esercizio diretto di 'fede religiosa'".
Cari amici, con la recente sentenza della Corte di Cassazione, che impone a preti e suore di farsi avanti in caso vengano a sapere di violenze e stupri, cambierà molto il ‘frame’, il confine finora esistente tra vita civile e vita religiosa. I supremi giudici hanno praticamente sentenziato: basta col silenzio sugli stupri, da parte di chiunque ne sia venuto a conoscenza, sferzando preti, frati e suore a scindere gli obblighi della loro missione religiosa da quelli di veri e onesti cittadini, parte integrante della società civile. 
Comunque la si accolga, la sentenza della Corte appare sicuramente come una svolta storica e, certamente, farà ancora parlare molto...
A domani.
Mario


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