venerdì, dicembre 06, 2019

LA DELOCALIZZAZIONE: FRUTTO AVVELENATO DELLA GLOBALIZZAZIONE. LA STORIA FINITA BENE DELLA “CERAMISIA”, RILEVATA DAI DIPENDENTI CHE NON SI SONO ARRESI ALLA CHIUSURA.


Gli undici di Ceramisia
Oristano 6 dicembre 2019

Cari amici,

Che la Globalizzazione non avrebbe portato nel mondo maggiore equità tra popolazioni tanto diverse (per storia, cultura, tradizioni, carattere e così via), credo che si poteva capire fin dall’inizio, eppure è stata portata avanti, con l’unica certezza che avrebbe fatto i ricchi più ricchi e i poveri ancora più poveri. Globalizzare, ovvero mettere insieme le produzioni di tutto il mondo, era facile da capire che avrebbe uniformato il tutto verso il basso, tagliando i salari, facendo chiudere fabbriche e continuando ad arricchire chi già guadagnava abbastanza!
Abbiamo assistito in questi anni (e stiamo quotidianamente continuando ad assistere) a tutta un serie di chiusure di aziende e fabbriche, tutte trasferite in Paesi dove i costi sono più bassi, in una parola con un’unica motivazione: “Delocalizzare”, ovvero spostarle in quegli Stati dovei i costi, a partire dalla manodopera, erano nettamente inferiori. Si potrebbe fare un elenco enciclopedico che continuerà, perché finché le regole saranno quelle della totale libertà di circolazione delle merci e dei capitali nulla cambierà. 
Eppure in questo desolante panorama che mette da un lato tante famiglie sul lastrico, e dall’altro rende gli Stati più deboli e sempre più preda delle multinazionali, ogni tanto un Davide che si batte contro il Golia della Globalizzazione salta fuori, dimostrando che certe chiusure di fabbriche si sarebbero potute evitare, se non si pensasse solo all’egoistico, massimo guadagno. Ecco, oggi Vi racconto proprio una di queste vicende, che, vi confesso, vale la pena di essere raccontata.
In Umbria, a Città di Castello c’è una fabbrica che funziona: si chiama “Ceramisia” ed ha un organico di una dozzina di operai. Tutto fila liscio finché la proprietà, allettata dai vantaggi offerti dalla Globalizzazione, non decide di spostare la produzione in Armenia. Una botta secca per gli undici operai, capaci e qualificati, che, seppur in preda alla rabbia e in parte anche alla disperazione, decidono di non arrendersi. Con grande grinta e determinazione si riuniscono, discutono e mettono sul tappeto un’idea difficile ma concreta e realizzabile: comprarsi l’azienda, anziché lasciarla chiusa, a morire come tanti altri capannoni.
A fare per primo la proposta è Marco Brozzi, 44 anni; alcuni restano senza fiato, frastornati e increduli all’idea, altri trattengono una risata. “Ragazzi – dice Brozzi in assemblea - rinunciamo alla disoccupazione e al Tfr e quei soldi li investiamo per comprarcela questa azienda”. Si discute e alla fine si approva, perché gli 11 operai di Ceramisia, non ci stanno a perdere il proprio lavoro. Decidono perciò di investire tutto per l’acquisto della fabbrica. 
È stata una decisione sofferta, ma era l’unica praticabile: continuare il lavoro precedente in un altro ruolo, investendo sul proprio futuro e nel futuro del territorio. Con i soldi della disoccupazione, circa 180mila euro, hanno fondato la Cooperativa, poi hanno rilevato i macchinari dalla vecchia proprietà e affittato il capannone, riuscendo nell’intento di non fermare la produzione. Utilizzando i soldi del Tfr sono andati alla riconquista dei vecchi clienti, quasi tutti esteri (90% Stati Uniti e il resto America Latina), aprendo poi nuovi mercati. 
Il successo è stato incredibile e la gioia tanta. Il Presidente Brozzi ha dichiarato alla stampa: «Ufficialmente siamo sul mercato da agosto e ad oggi abbiamo già un utile di 90 mila euro con un trend in crescita. Siamo pronti a vendere in Francia, Germania e Inghilterra e ci stiamo preparando a sbarcare nei Paesi dell’Est. Abbiamo appena assunto altre tre persone».
Una grande sfida ma vinta con grande capacità dagli undici operai, che hanno per l’occasione coniato un forte slogan “Tutti per uno, un sogno per tutti”, che, con orgoglio, si sono tatuati sul braccio, a dimostrazione che loro sono i protagonisti di questa storia di rinascita e di riscatto. «Ce lo siamo tatuato sul braccio — racconta con un sorriso Chiara Bastianelli, 37 anni, decoratrice — perché è il simbolo della nostra rinascita e del lavoro che adesso nessuno ci potrà più togliere».
Oggi si può dire che la formula da loro usata è stata vincente: con l’acquisto della società la precedente azienda è stata trasformata in una cooperativa di lavoro, mentre i precedenti dipendenti si sono trasformati da licenziati in imprenditori, salvando l’attività e mantenendo i posti di lavoro che la crisi aveva creato.
Un successo che merita un grande plauso, per il coraggio e la determinazione avuti. Ora, a tre mesi di distanza dall’inizio della nuova attività, i fondatori di Ceramica Noi hanno voluto celebrare in grande stile con una festa l’inaugurazione della nuova fabbrica; lo hanno fatto per ringraziare i fornitori, la città e tutte le persone che hanno sostenuto la rinascita dell’azienda, resa possibile grazie al fenomeno del workers buyout (impresa rigenerata).

All’inaugurazione ha partecipato anche il Comune di Città di Castello, con l’assessore alle Politiche Sociali Luciana Bassini che ha sottolineato come l’esperienza coraggiosa di Ceramica Noi possa far sperare per un diverso recupero delle attività del territorio. Un sacrificio serio e responsabile, diventato il simbolo dell’Umbria che non si arrende e che continua a investire e ad impegnarsi per creare lavoro e sviluppo.


Cari amici, è proprio vero: in mezzo a tante storie negative che riguardano il mondo del lavoro è bello prendere atto che con sacrificio, dedizione e caparbietà si può creare una storia positiva, come quella di “Ceramica Noi”.
A domani
Mario




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