Oristano 6 Marzo 2017
Cari amici,
La Corte di Cassazione
con una sua sentenza ha praticamente 'annullato', almeno parzialmente, il sacro vincolo del «segreto professionale»,
concesso ai religiosi con le norme concordatarie del 1985. In determinati casi,
dunque, preti e suore non potranno tacere o dire il falso quando, interrogati
dai magistrati, siano in possesso di notizie relative a fatti commessi se ‘penalmente
rilevanti’. I giudici con la sentenza emessa hanno di fatto ridimensionato la generica
«missione» svolta dagli ecclesiastici nell’ambito della loro attività sociale
di assistenza ai soggetti deboli, scindendo la parte strettamente religiosa da
quella civile, ovvero di soggetti a pieno titolo parte attiva della Comunità e quindi impegnati socialmente.
La protezione data a quelle persone che hanno compiuto fatti gravi penalmente rilevanti, dicono i giudici, «non rientra
certamente nell'esercizio diretto della fede religiosa»; un
certo tipo di protezione che finora veniva garantita attraverso il ‘segreto confessionale’,
risulta per i giudici 'anomala', in quanto l’unico ambito per il quale è concesso, per le norme
concordatarie del 1985, di evitare di rispondere ai giudici, riguarda l’aspetto puramente
religioso. Preti e suore, dunque, non possono più tacere o dire il falso quando, essendo venuti a conoscenza di fatti di rilevanza penale, vengono sottoposti ad interrogatorio dai
magistrati.
Questo quanto hanno sottolineato lo
scorso 15 Dicembre i giudici della Suprema Corte, confermando le condanne per falsa testimonianza
ad un anno di reclusione ciascuno con pena sospesa, nei confronti di un parroco, Don
Antonio Scordo, e della suora Cosima Rizzo, che negarono di aver saputo delle
violenze sessuali subite dalla 13enne Annamaria Scarfò (che si era affidata alla loro
'protezione') ad opera di un branco di ragazzi a San Martino di Taurianova in
Calabria, quando la donna (che oggi ha 31 anni e vive sotto protezione), era
adolescente. Ecco, per maggior chiarezza, lo svolgersi dei fatti.
All’incirca 18 anni fa
a San Martino di Taurianova in Calabria, la tredicenne Annamaria Scarfò fu violentata
da un branco di ragazzi del posto. Sconvolta dall’accaduto e preoccupata di eventuali
ripercussioni sulla sorellina in caso di denuncia, la ragazzina decise di
confidarsi con don Antonio Scordo e Cosima Rizzo, rispettivamente il parroco e la
suora del paese. I due tacquero sull’aggressione e sui responsabili pur
conoscendone i nomi, motivo per cui vennero accusati dagli inquirenti, dopo che la ragazza
denunciò l’accaduto, di falsa testimonianza e condannati sia in primo che in
secondo grado.
La Cassazione,
confermando le sentenze precedenti, ha totalmente condiviso la ricostruzione
della vicenda fatta dalla Corte di Appello, che accertò che Annamaria si era
rivolta al parroco Don Antonio Scordo "per ragioni diverse da quelle
dell'esercizio dell'attività religiosa", in quanto in lui vedeva una
"autorità morale", in grado svolgere quella 'funzione sociale' di
assistenza che le occorreva. I supremi giudici hanno escluso che le sentenze emesse
sulla responsabilità penale di questi due religiosi abbiano
"limitato" il diritto al segreto professionale concesso ai due religiosi
con il Concordato, ribadendo che quanto confidato dalla ragazzina non era tanto
una 'confessione' ma una richiesta di assistenza morale, in quanto lei, vittima,
non aveva certo peccati da confessare.
Il segreto
confessionale, ha affermato la Cassazione contestando la tesi difensiva dei due
imputati condannati alla stessa pena sia in primo grado dal Tribunale di Palmi
che in secondo dalla Corte di Appello di Reggio Calabria nel 2016, non può "investire
qualsiasi conoscenza dell'ecclesiastico bensì riguarda solo quella acquisita
nell'ambito di attività connesse all'esercizio del ministero religioso",
e dunque non può 'coprire' tutte le "confidenze" delle quali viene a
conoscenza.
Ad avviso dei supremi
giudici, quindi, la Corte d’Appello ha "correttamente” ritenuto che i
fatti addebitati agli ecclesiastici per i comportamenti tenuti, non potevano
fare riferimento all'esercizio della 'fede religiosa', ma ne esulassero, in
quanto compiuti nell'ambito di attività 'sociale', anch’essa tipicamente svolta
dagli ecclesiastici. Come spiega il verdetto della Corte (n.6912), "Ad esempio l'attività di
assistenza a soggetti deboli, pur rientrante nella generica 'missione'
dell'ecclesiastico (tanto da esistere specifici Enti a ciò deputati nell'ambito
della religione di appartenenza dei ricorrenti) non rientra certamente
nell'esercizio diretto di 'fede religiosa'".
Cari amici, con la recente
sentenza della Corte di Cassazione, che impone a preti e suore di farsi avanti
in caso vengano a sapere di violenze e stupri, cambierà molto il ‘frame’, il confine finora esistente tra
vita civile e vita religiosa. I supremi giudici hanno praticamente sentenziato:
basta col silenzio sugli stupri, da parte di chiunque ne sia venuto a conoscenza,
sferzando preti, frati e suore a scindere gli obblighi della loro missione
religiosa da quelli di veri e onesti cittadini, parte integrante della società civile.
Comunque la si accolga, la sentenza della Corte appare sicuramente come una svolta storica e, certamente, farà ancora parlare molto...
Comunque la si accolga, la sentenza della Corte appare sicuramente come una svolta storica e, certamente, farà ancora parlare molto...
A domani.
Mario
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