Oristano 9 Febbraio
2014
Cari amici,
proprio ieri nel
riepilogare una delle fasi più coinvolgenti della “Sartiglia”, la vestizione
del capo corsa, su Componidori, parlando delle giovani ragazze oristanesi ,
coinvolte in questo rituale di
“trasformazione” del cavaliere in “Componidori”, le “Massaieddas”, le giovani deputate ad
assistere Sa “Massaia Manna” nell’operazione, le ho definite, forse
impropriamente, “Vestali”, non solo
perché partecipi di un rito sacro e
misterioso, ma anche perché, in passato, il rituale prevedeva che per non
contaminare la purezza del capocorsa “semidio”, su Componidori, egli dovesse
essere rivestito solo da “vergini mani” di ragazze pure.
Questo mio temerario
accostamento alle Vestali ha risvegliato in me le antiche reminiscenze
scolastiche, per cui, curioso come sono, ho voluto rinfrescare la mia lontana conoscenza
di queste sacerdotesse della dea Vesta, ed ora, dopo il ripasso, voglio farne
partecipi anche Voi.
Le vestali erano
sacerdotesse consacrate alla dea Vesta. A Romolo, primo re di Roma, o al suo
successore, Numa Pompilio, è attribuita l'istituzione del culto del fuoco, con
la creazione delle vergini sacre a sua custodia, chiamate Vestali. Secondo
la leggenda la madre di Romolo e Remo, Rea Silvia, era una vestale di
Albalonga. Secondo quanto scrive Tito Livio (Ab Urbe condita, I, 20) le Vestali
romane trassero origine dall'analogo culto già praticato ad Albalonga. L’ordine
sacerdotale delle vestali fu uno tra i primi creati da Numa Pompilio ed il loro
compito era quello di mantenere sempre acceso il fuoco sacro alla dea Vesta,
che rappresentava la vita della città. Per esercitare degnamente la loro
missione sacerdotale fu costruita, dirimpetto al tempio della dea, un
ampio locale a più piani, ubicato presso il Foro Romano alle spalle della Regia, che praticamente costituiva un unicum con il Tempio della dea, e che era chiamato
Atrium Vestae.
Al tempo di Augusto,
Svetonio racconta che Questi: « Aumentò il numero, il prestigio,
ma anche i privilegi dei sacerdoti, in particolare delle Vestali. Quando era
necessario scegliere una vestale in sostituzione di una morta, vedendo che
molti non volevano dare le loro figlie in sorte, giurò che se le sue nipoti
avessero avuto l'età adatta, egli stesso le avrebbe offerte. ».
In principio le vestali erano tre (o quattro) fanciulle vergini, ma in seguito il loro numero fu aumentato a
sei: esse erano scelte per sorteggio all'interno di un gruppo di 20 bambine di
età compresa fra i 6 e i 10 anni, appartenenti a famiglie patrizie. La
consacrazione al culto, officiata dal Pontefice Massimo, avveniva tramite il
rito della captio e il servizio aveva una durata di 30 anni: nei primi dieci
erano considerate novizie, nel secondo decennio erano addette al culto mentre
gli ultimi dieci anni erano dedicati all'istruzione delle novizie. In seguito
erano libere di abbandonare il servizio e sposarsi.
La loro vita quotidiana
si svolgeva prevalentemente nell'Atrium Vestae, accanto al tempio di Vesta, ma
potevano uscire liberamente e godevano di privilegi esclusivi che le rendevano
del tutto uniche tra le donne romane, titolari di diritti e onori civili: erano
mantenute a spese dello Stato, affrancate dalla patria potestà al momento di
entrare nel Collegio, erano le uniche donne romane che potevano fare testamento
(e custodi a loro volta, grazie all'inviolabilità del tempio e della loro
persona, di testamenti e trattati) e potevano testimoniare senza fare giuramento.
Pubblicamente i magistrati cedevano loro il passo e al loro passaggio venivano
abbassati i fasci consolari. Godevano, quindi, di uno status sociale di
altissimo livello. Altre prerogative possedute derivavano dal loro ruolo
sacerdotale: il diritto di chiedere la grazia per il condannato a morte che
avessero incontrato casualmente, perché il nefas (nel significato di infamia) rappresentato
da questo incontro fosse immediatamente compensato, e quello di essere sepolte
entro il pomerio (l’area della città consacrata esclusivamente agli dei), a
significare che la loro esistenza era così sacra che neppure le loro ceneri
erano nefas.
La vestale vestiva
sempre esclusivamente di bianco; dalle statue rinvenute si può desumere
l’abbigliamento delle sacerdotesse: esso si componeva di una tunica, una
sopravveste (stola) e un mantello (pallium o palla), di lana bianca. Il velo
(suffibulum), tenuto da una spilla (fibula), era puntato ad una fascia (infula)
che ricopriva loro il capo quasi interamente, lasciando scoperta soltanto la
fronte e l'attaccatura dei capelli. Le colpe imperdonabili di cui le vergini
vestali potevano macchiarsi, perdendo di conseguenza il loro stato di assoluta
inviolabilità, erano due: lo spegnimento del fuoco sacro e le eventuali relazioni
sessuali, che venivano considerate sacrilegio imperdonabile (incestus), in
quanto la loro verginità doveva durare per tutto il periodo del servizio prestato
come sacerdotesse. In questi casi la vestale non poteva essere perdonata, ma
neppure uccisa da mani umane, in quanto sacra alla dea Vesta. Se perdeva la
verginità o lasciava spegnere il fuoco sacro, la Vestale veniva dunque frustata
e poi vestita di abiti funebri e portata in una lettiga chiusa, come un
cadavere, al Campus sceleratus, che era situato presso la Porta Collina ma
ancora dentro le mura (sul Quirinale). Là veniva lasciata in una sepoltura con
una lampada e una piccola provvista di pane, acqua, latte e olio, il sepolcro
veniva chiuso e la sua memoria cancellata. Al complice dell'incestus, invece, veniva
comminata la pena riservata agli schiavi: fustigazione a morte.
Vesta per i romani
rappresentava una dea di antica reminiscenza arcaica: essa corrispondeva alla
greca Hestia, prima figlia di Crono e di Rea, sorella di Zeus e di Era, vera
incarnazione dell'idea di focolare; anche Vesta, infatti, presiedeva al fuoco
del focolare domestico. Il suo culto era gestito direttamente dal Pontifex Maximus,
assistito dalle Vestali. Le antiche origini della dea erano visibili anche nel
suo tempio, di forma rotonda,, su modello delle antiche capanne del Lazio. Anche
l’animale a lei sacro rivelava la sua arcaicità: era l'asino, antico animale
mediterraneo in opposizione al cavallo. Le feste a lei dedicate
erano dette Vestalia e si celebravano dal 9 al 15 giugno. In quel periodo il
tempio veniva aperto al pubblico e le Vestali preparavano la "mola salsa", una focaccia
realizzata con farro sale e acqua sorgiva, utilizzata in tutti i sacrifici e dal cui nome
deriva proprio il nostro termine "immolare" col significato di
"sacrificare". La mola salsa era offerta alla dea e distribuita in
piccoli pezzi ai credenti, quale atto di purificazione, oppure utilizzata per
cospargere gli animali destinati al sacrificio. Il prodotto veniva preparato esclusivamente
dalle Vestali e confezionato tre volte l’anno: il 15 Febbraio (festa dei
Lupercali), il 9 Giugno (festa delle Vestali, Vestalia) ed alle Idi di
Settembre. Il farro usato era coltivato e raccolto dalle vestali stesse,
tostato e macinato a giorni alterni tra le Nonae e le Idi di Maggio (dal 7 al 15).
Con l'affermazione del
Cristianesimo nell'Impero romano il culto della dea vesta non venne subito abbandonato.
Al contrario le Vestali, ministre di un culto millenario caro alle donne e alla
città, continuarono ad essere amate ed onorate dal popolo romano fino al IV
secolo. L'ultima gran sacerdotessa fu Celia Concordia (384). Quando il
cristianesimo divenne religione di stato nel 380 con l'editto di Tessalonica, a
partire dal 391 Teodosio I, con una serie di decreti, proibì il mantenimento di
qualunque culto pagano (che andava contro il riconoscimento dell’unico vero
Dio) e il sacro fuoco nel tempio di Vesta venne definitivamente spento,
decretando la fine dell'ordine delle Vestali. Ferdinand Gregorovius descrive
così la scena finale, all'ingresso di Teodosio in Roma: «
I cristiani di Roma trionfavano. La loro tracotanza arrivò al punto che Serena,
sposa di Stilicone, entrata nel tempio di Rea, prese dal collo della dea la
preziosa collana e se la cinse. Assistendo a questa profanazione, l'ultima
vestale versò lacrime disperate e lanciò su Serena e su tutta la sua
discendenza una maledizione che non andò perduta. ».
Che ne dite, cari
amici, di questa interessante rimembranza di sacerdozio al femminile? A me fa riflettere
e ricordare che la donna, per anni succube dell’uomo, ha invece sempre avuto una
sottile capacità di vedere il mondo con occhi più lungimiranti, capaci di creare
un maggiore legame sia con il terreno che con il divino. Le capacità e le
intuizioni che può esprimere una donna sono più sottili e misteriose di quelle
dell’uomo, più pratico e portato più al materiale che allo spirituale.
Certamente questa mia affermazione trova sicuro riscontro in Sardegna, dove le
donne sarde, soprattutto quelle della Barbagia, concorrono a testimoniare
quanto io vado dicendo: che, sotto certi aspetti, la superiorità della donna
rispetto all’uomo esiste ed è tangibile. Il matriarcato ancora vivo e vegeto
nella cultura barbaricina credo lo possa dimostrare in maniera inequivocabile.
Bene, amici miei, oggi
abbiamo parlato di vestali e credo che anche questa modesta riflessione possa
aiutarci a capire, alle soglie della “Festa di San Valentino” in calendario il 14 di Febbraio, che le donne sono state e sono una parte determinante e
indispensabile del nostro vivere quotidiano e, soprattutto, che vanno sempre
non solo rispettate, onorate e difese ma anche amate… “più di ieri e meno di
domani”!
Ciao!
Mario
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