Oristano 11 Febbraio
2014
Cari amici,
sappiamo tutti che
sotto le elezioni si rispolverano tanti obiettivi da raggiungere, da mettere in
“agenda elettorale”, capaci "a parole" in un sol colpo di trasformare la Sardegna in un
Eldorado. Tentativi, spesso chimerici, fatti per stuzzicare elettori sempre più
delusi dalla passate false promesse e ormai rassegnati a non credere più a
nessuno. Le fanfare elettorali sono ripartite alla grande anche in questo
inizio d’anno per le imminenti elezioni regionali e, forse più che negli anni
precedenti, le promesse non mancano: sono orientate verso una ventilata nuova
ricerca di autonomia, a partire dalla “zona franca”, primario cavallo di
battaglia, ed a seguire la dovuta “continuità territoriale”, “l’autonomia degli
uffici di riscossione delle entrate fiscali”, e altre promesse di simile
tenore.
Inutile negare che ogni
candidato, anche quello che a lungo ha governato, cerca di far ricadere le
colpe dei mali attuali sull’altro contendente, dimenticandosi, forse, che
proprio colui nei cinque anni precedenti era al timone, a tutto ha pensato
tranne che a cercare di risolvere il problema che oggi vanta di voler portare
avanti. In questi giorni (esercizio che invece dovremo fare tutto l’anno)
uscendo in strada, anche solo per una passeggiata, la gente chiacchiera più
facilmente e i motivi per discutere non mancano. Anche i nostri uomini che
nella scorsa legislatura abbiamo mandato a Cagliari in Viale Trento a
governarci, sono più disponibili a sorridere, allungare le mani per stringercele
o addirittura per abbracciarci, quasi che tornassero da qualche “estrema
missione bellica” nell’altra parte del mondo!
Chissà perché nel lungo periodo
della legislatura mai e poi mai hanno percorso Via Dritta in lungo ed in largo
per informarci di quanto stavano facendo per il bene della città e del nostro
territorio! Eppure oggi continuano a bombardarci con programmi che nessuno,
neanche i bambini, sono disponibili a credere possibili e che saranno in grado
di portare avanti.
Da sempre ai partiti
nazionali poco o niente è importato della Sardegna, che ha continuato ad essere
solo una terra di conquista, ed i sardi “pocos,
locos y mal unidos”, come la triste definizione dell'arcivescovo spagnolo Antonio Parragues de Castillejo, che nel 1.500 così ci etichettava. Dice bene il grande professore Francesco Cesare Casula che su l’Unione
Sarda di oggi, rispondendo al direttore del giornale Anthony Muroni, afferma
che noi sardi “siamo talmente abituati all’auto-colonizzazione culturale che l’applichiamo
anche ai simboli identificativi, senza nemmeno badarci…”. Sull’affermazione fatta Egli precisa che quando i reduci della Prima guerra mondiale fondarono nel
1920 il Partito Sardo d’Azione, di tutte le rappresentazioni grafiche, che dal
1.300 davano la bandiera del Regno di Sardegna formata da quattro teste di moro
inquartati senza bende o con la benda sulla fronte o addirittura con la corona
in segno di regalità, i nostri sardisti scelsero, come emblema del movimento, i
Quattro Mori con la benda sugli occhi, avallando e confermando lo stato di
sottomissione e di schiavitù in cui si trovavano.
Il professor Casula, a
conferma del perenne stato di sudditanza, insito nel nostro DNA, precisa che anche l’inno “Il patriota sardo
contro i feudatari”, scritto nel 1795 da Francesco
Ignazio Mannu, Giudice della Reale udienza, più che un inno patriotico,
che anela alla libertà di un popolo, risulta anch’esso un inno di
sottomissione. La prova inoppugnabile la troviamo nelle prime strofe dell’inno:
“Procurad’e moderare, Barones, sa
tirannia (cercate di moderare, o Baroni, la tirannia…)”, invocazione che,
quasi con garbo, chiede ai Baroni non di lasciare la nostra terra, come sarebbe
stato nel nostro pieno diritto, invitandoli perentoriamente a tornare a casa
loro, ma solo di attenuare, di diminuire la tirannia applicata!
Sarà, questa nostra
sudditanza, frutto di centinaia d'anni di dominazioni straniere, anche di migliaia di anni, se torniamo indietro al periodo fenicio-punico o romano, ma è tempo
che l’orgoglio dei sardi dica basta a quanti continuano a considerare l’Isola
ancora una colonia. Le industrie inquinanti imposte negli scorsi anni (basti
pensare a quelle della raffinazione ed a quelle dell’alluminio), così come le
errate trasformazioni di territori ad antica vocazione agro pastorale (come
Ottana), hanno lasciato l’isola piena solo di macerie.
Se i sardi non
reagiranno, pensando a costituire un forte fronte comune, sarà difficile che la
Sardegna esca dal guado. Sarà difficile che i nostri figli, anche quelli
laureati a pieni voti, possano trovare un lavoro dignitoso nell’isola, anziché emigrare,
portando ad altri il nostro sapere. E i nostri piccoli paesi, come ho scritto
in altra parte di questo blog, continueranno a spopolarsi e, di questo passo, i
già pochi sardi (siamo meno di un milione e mezzo) si ridurranno al lumicino.
E’ questo l’avvenire
che vogliamo per la nostra Isola? Ricordiamoci che la Sardegna è dei Sardi,
cosa che da tempo, forse, abbiamo dimenticato.
Grazie dell’attenzione.
Mario
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