Oristano 27 Gennaio
2014
Cari amici,
faccio seguito a quanto
riportato ieri su questo blog, a proposito della nostra civiltà nuragica, per
continuare il filo del discorso, partendo dall’esame delle varie epoche nelle
quali essa si è sviluppata. La più antica traccia di questa
civiltà la troviamo nella cosi detta “cultura di Bonnanaro” (1800 a.C. circa), che,
dopo un iniziale sviluppo nella Nurra e nel Sulcis-Iglesiente, si propagò in
tutta la Sardegna.
Le ceramiche bonnanaresi presentano qualche similitudine
(anse a gomito) con quelle della contemporanea cultura di Posada, presente e
diffusa nell'Italia settentrionale. Queste analogie si potrebbero forse
ricondurre ad infiltrazioni provenienti dalla penisola italiana attraverso la
Corsica. Nuove genti arrivarono sull'Isola in quel periodo, portando con sé
nuovi culti, nuove tecnologie e nuovi modelli di vita, rendendo obsoleti i
precedenti o reinterpretandoli alla luce della cultura dominante. Il padre
dell'archeologia sarda Giovanni Lilliu così scrive a questo proposito:
« ....Si tratterebbe di gruppi etnici immigrati
forse dall’Occidente mediterraneo (dalla Catalogna o dal Midi), che
si integrano nella precedente grande tradizione della cultura neolitica di
Ozieri, con costumi e produzioni proprie convenienti alla civiltà agropastorale
[...] Dal carattere in genere severo e pratico nell’essenzialità delle attrezzature
materiali (in particolare nelle ceramiche prive di qualsiasi decorazione), si
capiscono la natura e l’abito guerrieri dei nuovi venuti e la spinta
conflittuale che essi danno alla vita nell’isola. Lo conferma la presenza di
armi di pietra e metallo (rame e bronzo). Il metallo si divulga anche negli
oggetti d’uso (punteruoli di rame e bronzo), e ornamentali (anellini di bronzo
e lamine d’argento) [...] Pare avvertirsi una caduta di ideologie del vecchio
mondo pre-nuragico corrispondente a una nuova svolta storica ».
Fu l'introduzione del
bronzo a portare notevoli miglioramenti in ogni campo. Con la nuova lega di
rame e stagno si otteneva infatti un metallo più duro e resistente, adatto a
fabbricare attrezzi agricoli, ma soprattutto si prestava alla forgia di armi
assai migliori, da utilizzare sia per la caccia che per la guerra.
Ben presto
in Sardegna, terra ricca di miniere, si costruirono fornaci per la fusione
delle leghe che venivano lavorate da esperti artigiani
in maniera molto abile, dando vita ad un fiorente commercio verso tutta l'area
mediterranea, in particolare verso quelle regioni povere di metalli, e dando anche una spiegazione alla chiara
analogia culturale dei Nuragici con le civiltà presenti nell'area egea (Micene,
Creta e Cipro) e con l'area iberica. E’ questo il periodo della costruzione dei
proto-nuraghi, che identificano la prima fase della Civiltà nuragica (Nuragico
antico). Queste costruzioni sono assai diverse dai nuraghi classici, avendo una
planimetria irregolare e l'aspetto assai tozzo. Sono costituiti da uno o più
corridoi e mancano della camera circolare tipica dei nuraghi a tholos. Rispetto
a questi sono anche di dimensioni minori come altezza (mediamente 10 metri
rispetto ai 20 e più metri di quelli classici), ma la loro superficie è più del
doppio (250 m² rispetto ai 100 delle torri nuragiche). Risulta inoltre
imponente la massa muraria rispetto agli spazi interni sfruttabili.
Intorno alla metà del
II millennio a.C. (durante la media Età del Bronzo), i proto-nuraghi iniziano
ad evolversi in torri megalitiche di forma tronco conica, diffondendosi
ampiamente in tutto il territorio della Sardegna (1 nuraghe ogni 3 km² circa).
Intorno
al 1500 a.C., dai rilievi archeologici, si possono notare aggregazioni sempre
più consistenti di villaggi costruiti in prossimità di queste poderose
costruzioni, edificate spesso sulla sommità di un'altura, ma sempre con tecnica
megalitica (grossi blocchi di pietra sovrapposti) e con ampie camere aventi i
soffitti voltati a tholos (falsa cupola). Probabilmente per un maggior bisogno
di protezione, al nuraghe singolo si aggiunge progressivamente nel tempo
l’affiancamento di più torri a quella più antica, collegandole tra loro con
alti camminamenti murari. La tarda età del Bronzo (1300-1100
a.C.) fu il periodo in cui nel Mar Mediterraneo si verificò un vasto movimento
guerresco, descritto dettagliatamente nelle fonti egiziane e alimentato dai
Popoli del mare, coalizione di popoli di navigatori-guerrieri che mise a ferro
e fuoco il Mediterraneo scontrandosi più volte con l'Egitto dei faraoni e
contribuendo alla scomparsa della civiltà micenea e ittita.
Secondo diversi
studiosi, gli Shardana, una delle popolazioni più importanti di questa
coalizione, sarebbero identificabili con le genti sardo-nuragiche (in
particolare con gli Iolei/Iliensi. Un’altra teoria accredita in alternativa
l’arrivo degli Shardana nell'Isola intorno al XIII - XII secolo a.C., a seguito
della tentata invasione dell'Egitto. Guerrieri Shardana sono rappresentati a Medinet
Habu nella battaglia fra Popoli del mare ed Egiziani. Fonti egizie, databili al
periodo del faraone Ramses II tramandano che: «gli Shardana sono venuti con le
loro navi da guerra dal mezzo del Gran Mare (Grande Verde), nessuno può
resistergli». Il loro equipaggiamento militare, descritto nei
bassorilievi egizi, risulta molto particolare e distinto da quello di altri
guerrieri loro contemporanei. Usavano spade lunghe, pugnali, lance e
soprattutto lo scudo tondo (in quel periodo usato probabilmente solo dai Sardi
nuragici), mentre i guerrieri egiziani erano prevalentemente arcieri. Questi
Shardana portavano un gonnellino corto, una corazza e un elmo provvisto di
corna, e le loro imbarcazioni erano caratterizzate da protomi animali, con
l'albero simile a quanto raffigurato in alcune navicelle nuragiche in bronzo
rinvenute nei nuraghi. Tutto questo avvalora l’ipotesi che fossero, davvero, i
nostri guerrieri nuragici.
La fase nuragica
successiva, che va dal 900 a.C. al 500 a.C. (età del ferro), è definita dagli
archeologi la stagione delle aristocrazie. L'artigianato produsse ceramiche
raffinate e strumenti sempre più elaborati, mentre la qualità delle armi
migliorò notevolmente. Con il prosperare dei commerci, i
prodotti della metallurgia e i manufatti sardi raggiunsero ogni angolo del
Mediterraneo, dalle coste siro-palestinesi a quelle spagnole e atlantiche. Le
capanne nei villaggi aumentarono di numero e ci fu generalmente un ampio
incremento demografico, cessò la costruzione dei nuraghi i quali vennero
probabilmente riadattati in edifici sacri e al rituale dell'inumazione
collettiva in tombe dei giganti si sostituì l'inumazione individuale. Ma la
vera conquista in quel periodo, secondo l'archeologo Giovanni Lilliu, non fu
tanto l'accuratezza nella cultura materiale, bensì l'organizzazione politica
"aristocratica" che ruotava intorno al parlamento del villaggio, nel
quale un'assemblea composta dai capi e dalle persone più influenti, si riuniva
per discutere sulle questioni più importanti e sulla giustizia.
Secondo Lilliu, questa
forma di governo, benché non originale ed esclusiva della Sardegna, si perpetuò
intatta, in essere anche dopo duemila anni, viva e vegeta nello spirito delle “coronas
giudicali”. La scoperta in epoca recente, in località Mont'e Prama nel Sinis di
Cabras, non lontano dall'antica città di Tharros, delle imponenti statue in pietra arenaria,
rappresentanti guerrieri armati con archi e altre armi, è il segno più eloquente
che la civiltà nuragica si evolveva verso forme sempre più spettacolari ed
imponenti. A partire dal VI-V secolo a.C. la Sardegna entrò
nell'orbita imperialistica prima cartaginese e poi romana. Le fonti antiche
testimoniano il perdurare della cultura indigena: fonti romane ci tramandarono
che le due isole di Sardegna e Corsica erano abitate da tante etnie che si
erano progressivamente uniformate culturalmente, rimanendo però divise
politicamente in tante tribù, sovente confederate ma anche in contesa tra loro
per il possesso dei territori più ricchi e fertili.
I romani non riuscirono mai
a domare la resistenza dei popoli sardi: soprattutto le etnie che abitavano
nell’attuale Barbagia si rifiutarono
sempre si subire il processo di romanizzazione. Lo studioso e geografo greco
Strabone nei suoi scritti conferma che in Sardegna la cultura nuragica sopravvisse
anche in epoca fenicio-punica e romana; racconta infatti che alcuni capi
militari romani, disperando di domare i Sardi in campo aperto, preferivano
tendere loro degli agguati, profittando del costume di quei barbari di
raccogliersi, dopo grandi razzie, a celebrare feste tutti insieme. Riferisce
inoltre di «Sardi montanari che pirateggiavano presso i lidi di Pisa» ,
testimonianza che confermerebbe l'attitudine marinara dei sardi nuragici di
quell’epoca. Lo studioso Giovanni Lilliu ha definito la sopravvivenza della
cultura Nuragica attraverso i secoli tra le popolazioni barbaricine come costante resistenziale sarda.
La religiosità del
popolo nuragico era molto forte. Il capo del clan era allo stesso tempo capo della
comunità e capo religioso. Le divinità, rappresentate dal sole, dalla luna e
dalle forze della natura, in particolare l’acqua ed il fuoco, erano tenute
nella massima considerazione. Nei pozzi sacri (straordinario
quella di S. Cristina di Paulilatino) e nei megaron vi erano sacerdoti di sesso
in prevalenza femminile che officiavano riti ormai ignoti probabilmente
collegati all'acqua e forse a ritualità astronomiche di tipo solare, lunare o
di osservazione dei solstizi. In particolare è interessante la raffigurazione
bronzea di una sacerdotessa che presenta il capo sormontato da un disco che
verosimilmente richiama il sole o la luna. Altri copricapi circolari sono
allungati verso l'alto. Molte statuette in bronzo raffigurano personaggi che
alzano la mano (solitamente la destra) in segno di saluto, invocazione o
preghiera. Gli studiosi pensano che in occasione delle
celebrazioni religiose collettive, che avvenivano nei grandi santuari (nuraghi
multipli con intorno la grande serie delle capanne), queste raggruppassero i
rappresentanti dei villaggi vicini; queste riunioni si presume abbiano fatto da
incubatoio per un’idea di nazione o, comunque, di una confederazione tra le
varie Comunità autonome. In tali occasioni si pensa si tenessero incontri inter-cantonali,
giochi sportivi simili alla lotta greco romana (alcuni bronzetti lo fanno
pensare) o al pugilato e si stringessero alleanze familiari e rapporti
commerciali.
Secondo l'archeologo
Giovanni Lilliu, è esemplare a tal proposito il Santuario nuragico di Santa
Vittoria di Serri, vero e proprio pantheon delle divinità nuragiche, supponendo
che nell'edificio principale del villaggio si riunissero in assemblee federali
i clan più potenti dei sardi nuragici abitanti la Sardegna centrale, per
consacrare alleanze o per decidere sulle guerre.
Nonostante le
ricerche, la possibilità che gli antichi Sardi conoscessero la scrittura rimane
un enigma. La maggior parte degli storici sostiene infatti che le popolazioni
nuragiche almeno fino all'Età del Ferro, la ignorassero completamente. Recenti
scoperte tenderebbero invece a dimostrare che queste tesi non sono più
sostenibili: in base a sue personali ricostruzioni lo studioso Gigi Sanna di
Oristano sostiene che circa 140 reperti nuragici mostrerebbero possibili segni
di scrittura, incisi su tavolette e oggetti bronzei, impiegati forse in riti
sacri.
La lettura della vita
del periodo nuragico attraverso i bronzetti si è arricchita, nel 1974, mediante
una straordinaria scoperta: il rinvenimento dei resti di 32 (forse 40) statue
in pietra arenaria di dimensioni monumentali (alte da 2 a 2,5 metri),
comunemente note oggi come i “Giganti di Monti Prama”, dal nome della località
del Sinis presso Cabras in provincia di Oristano, dove vennero ritrovate (di queste
statue ho parlato ampiamente in altra parte di questo blog). Esse richiamano in
modo chiaro la tipologia dei bronzetti stile Abini-Serri.
La
scoperta degli enormi frammenti di queste statue giganti che rappresentano
guerrieri, arcieri, lottatori, modelli di nuraghe e pugilatori dotati di scudo
e guantone armato, che si ritiene siano risalenti al X-VIII secolo a.C., ha
sconvolto non poco le attuali certezze degli archeologi sulla civiltà nuragica,
proiettando nuova luce sull'arte e la cultura delle popolazioni della Sardegna.
La datazione confermerebbe la sopravvivenza e la forza della cultura nuragica
nel periodo fenicio. I Giganti hanno occhi come dischi solari, volutamente
privi di espressione e di bocca e acconciature che lasciano cadere sulle spalle
2 trecce per lato e abito di foggia orientale con scollo a V. L’accurato esame
delle statue ha messo in luce importantissimi dettagli relativi alla foggia delle
armature e delle relative protezioni. Difficile stabilire a cosa fosse
destinato quel complesso di statue di personaggi che in tutta probabilità raffiguravano
degli eroi: forse un ricordo di imprese gloriose, forse figure mitiche poste a
guardia di un sepolcro. Potrebbe anche trattarsi, dell’arredamento di un grande
tempio, della rappresentazione di una sorta di olimpo, un pantheon delle
divinità nuragiche.
Cari amici, la grande
civiltà del popolo dei nuraghi trovò, poi, nel suo percorso vittorioso, una lenta
ma inesorabile fase discendente, che fece della Sardegna non più una terra
fiera, libera e indipendente, ma una “colonia” di altri popoli, che in qualche
modo riuscirono a conquistarla ed assoggettarla. Di queste lunghe dominazioni
ho già avuto modo di parlare a lungo, anche su questo blog, dominazioni che
hanno cancellato in noi sardi l’antica fierezza e nobiltà, riducendoci ad
essere, come gli stessi spagnoli amavano
definirci, “Pocos, locos y mal unidos”.
Forse…però, nel nostro
DNA quell’antica fierezza c’è ancora….
Grazie dell’attenzione!
Mario
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