Oristano
5 Agosto 2014
Cari amici,
è risaputo che la
maggior parte degli abitanti della terra, soprattutto nella parte asiatica, si
ciba di riso. La varietà maggiormente coltivata nel mondo è l’Oryza sativa L.,
pianta erbacea annuale della famiglia delle Graminacee di origine asiatica. Oltre
la varietà asiatica ne esiste un’altra, l’Oryza glaberrima, dal pericarpo
pigmentato rosso, coltivata in Africa.
L'Oryza sativa costituisce circa il 90%
della produzione mondiale di riso. Le origini di questa pianta non sono certe, si
ritiene che le varietà più antiche siano comparse oltre quindicimila anni fa
lungo le pendici dell'Himalaya. Cenni storici ci dicono che il riso risultava
coltivato in Cina verso il VI millennio a.C. dove costituiva (e costituisce)
ancora la base dell’alimentazione;
la sua coltivazione si diffuse poi in Mesopotamia, Persia, Egitto e
infine in Europa. Oggi è il cibo principale per circa la metà della popolazione
della terra e viene coltivato in quasi tutti i paesi del mondo.
L’aspetto interessante del
riso africano, l’Oryza glaberrima, e che non sembra avere la stessa origine del
suo cugino asiatico, l’Oryza sativa. La coltivazione di questo riso in Africa, che
gli studi ritengono derivare dalla domesticazione di una qualità selvatica, l’Oryza
barthii, risulta praticata in un periodo molto più tardo, rispetto alle
coltivazioni asiatiche (3.000 anni anziché 10.000), in una regione lungo le
sponde del fiume Niger. Man mano che le coltivazioni per uso alimentare aumentavano i primi agricoltori iniziarono a selezionare naturalmente le varietà, cosa riscontrabile parimenti anche nelle coltivazioni
asiatiche, volte chiaramente a migliorarne la resa ed a prevenire la dispersione
dei semi. L’Oryza glaberrima fu anche la prima varietà di riso introdotta e
coltivata nel Nuovo Mondo, probabilmente importata dagli schiavi sulle navi
portoghesi, anche se successivamente la varietà africana fu soppiantata dalle
varietà asiatiche.
La popolazione mondiale
continua a crescere. I continui studi sulle piante alimentari per cercare di
"sfamare il mondo", hanno spinto gli scienziati ad approfondire gli
studi, in particolare sul cereale più utilizzato: il riso. Studi attendibili
stimano che la popolazione del pianeta supererà i nove miliardi di persone
nel 2050 e circa 10,9 miliardi nel 2.100. Appare necessaria, dunque, una seconda 'Green Revolution', in grado
di selezionare vegetali che offrano rese due o tre volte superiori alle attuali
e, soprattutto, che richiedano limitate esigenze di acqua, di fertilizzanti e
di pesticidi. In questo senso, considerata la sua ampia diffusione mondiale, il
riso risulta una delle specie più diagnosticate.
Già intorno agli anni
’50 del secolo scorso l’agricoltura visse in tutto il mondo una fase di
evoluzione, chiamata “Rivoluzione Verde”, che fu alla base dello sviluppo di nuovi
tipi di specie coltivate. Più in generale la rivoluzione fu fatta nell'intento di diminuire il rischio
di malnutrizione per le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, suggerendo
nuove culture. Quegli studi scientifici, che consentirono la selezione
artificiale di varietà ibride in grado di rispondere al meglio alle esigenze di
un’umanità in crescita, oggi vengono ulteriormente ampliati, mettendo in atto
una “Seconda rivoluzione verde”. Questa nuova
‘rivoluzione’ è partita analizzando a fondo le diverse varietà di riso; lo studio intende
selezionare una nuova varietà molto più resistente di quella asiatica, in grado di
adattarsi e crescere anche nelle aree neo-desertiche. La varietà maggiormente studiata è quella del riso
africano (Oryza glaberrima), che pare contenere nei suoi geni “il segreto” per
salvarci da una siccità in aumento che desertifica zone sempre più ampie.
Una recente ricerca,
coordinata dall’università dell'Arizona, alla quale l'Italia ha dato un
contributo importante con la Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa e l’Università
di Pisa, recentemente pubblicata sulla rivista Nature Genetics, ha ipotizzato che nei 12 cromosomi
e negli oltre 33.000 geni del riso africano potrebbe nascondersi la "Chiave" per trasformare in realtà la già iniziata seconda ''rivoluzione verde''.
Quale sarebbe questa chiave? Rispetto
al riso asiatico (Oryza sativa), quello africano (Oryza glaberrima) risulta
essere una specie molto più rustica, che meglio si adatta ai suoli meno fertili: essa “possiede
un' elevata resistenza alla siccità, all'elevata acidità del suolo, alla tossicità
da ferro e a quella da alluminio", come spiega Andrea Zuccolo, ricercatore
che collabora con la Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, che ha contribuito
alla ricerca insieme a Rosa Maria Cossu, all'epoca dello studio dottoranda di
ricerca in Biotecnologie molecolari, sotto la guida del professor Andrea
Cavallini, presso il dipartimento di Scienze agrarie, alimentari e
agro-ambientali dell'Università di Pisa. Lo studio dettagliato di questi geni,
la disponibilità della sequenza completa del suo DNA, offrono un'opportunità
senza precedenti per identificare e sfruttare al meglio le caratteristiche di
particolare interesse agronomico nella coltivazione del riso.
Questo studio apre dunque interessanti
prospettive per nuove coltivazioni di riso dalla resa superiore e con maggiore
resistenza. La nuova rivoluzione verde potrebbe decollare con la
coltivazione di una “nuova qualità di
riso” in grado di adattarsi anche alle aree neo-desertiche oggi incolte. Attualmente
l’agricoltura nel mondo vive una fase di profonda crisi, dovuta soprattutto al
nuovo nemico che si trova costretta a fronteggiare: la siccità. Le zone
desertiche continuano ad avanzare, frutto di un inarrestabile cambiamento
climatico, e costituiscono una preoccupazione non da poco, per una Terra che
conta già oltre 7 miliardi di individui e che ne conterà circa 9 entro il 2050 e circa 11 nel 2.100.
Far “emigrare” molte
coltivazioni verso altitudini maggiori con temperature più miti, significa
ridurre ulteriormente le quantità prodotte: ecco il perchè dell'impellente necessità del
recupero di aree diventate semi-desertiche. In quest’ottica facciamo un grande plauso
agli scienziati che, attraverso il riso africano,
individuato come potenziale strumento di lotta alla siccità del futuro, contano
di riuscire a dare una “grossa mano” ai bisogni alimentari di una popolazione mondiale sempre
più grande.
Grazie, amici, della
Vostra sempre gradita attenzione.
Mario
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