Oristano
1 Luglio 2014
Cari amici,
l’argomento della
riflessione di oggi è ostico, difficile da digerire, senza una buona dose di
tolleranza, lungimiranza e…pazienza. L’educazione delle nuove generazioni
nell’era della globalizzazione, nel millennio dell’informatica, dell’ high tech
o high technology (alta tecnologia) richiede, da parte degli adulti delle
generazioni precedenti, una capacità ed una preparazione non comuni.
Una volta adulti siamo
da sempre stati convinti di essere, ormai, dei maestri. Siamo stati abituati,
dalle generazioni precedenti a “salire in cattedra”, ad assumere, nei confronti
degli adolescenti, quell’aura di onniscienza, di esperti del saputo, calando
sempre dall’alto il nostro sapere, senza cercare, neanche minimamente, di
metterci almeno per un istante sullo stesso loro piano. Quando, al termine
della mia vita lavorativa, sono voluto tornare all’Università per sedermi con i
ragazzi della nuova generazione sui banchi, mi sono reso ulteriormente conto che spesso, noi
della generazione precedente, automaticamente e
inconsciamente,
ci rapportiamo con loro come se dovessimo sempre “insegnare loro” qualcosa:
‘far vedere’, mostrare, il modo migliore con cui ‘fare bene’ le cose. In questo
modo creiamo tra noi e loro una barriera che, di giorno in giorno, diventa
sempre più spessa e col passare del tempo quasi imperforabile.
Questo approccio
sbagliato nel cercare di voler sempre “insegnare qualcosa” anziché dialogare
sullo stesso piano, ci fa diventare perdenti. Cerchiamo di capire il perché. Dall’alto
della nostra esperienza, il nostro obiettivo immediato è quello di modificare il
loro comportamento ritenendolo sbagliato. Ci ha mai sfiorato l’idea che solo
l’inesperienza facesse dire (o fare) ai giovani determinate cose, mentre il
Loro obiettivo di fondo era magari interessante e innovativo? Quante volte
abbiamo pensato che, dialogare con loro, confrontare il nostro vissuto con le
loro idee, ci poteva mettere in condizioni di “imparare” qualcosa da loro? Probabilmente
poche volte, anzi potrei dire mai.
La nostra profonda
convinzione di “maturi” è purtroppo diversa: cosa potrebbero insegnarci, loro, che si
stanno appena affacciando nel mondo degli adulti? Se provassimo invece a confrontarci, a mettere insieme le nostre con le loro idee,
potremo renderci conto che potrebbero scaturirne dei benefici anche per noi. Credo che questo “nuovo modo di
dialogare” risulterebbe molto importante per entrambe la parti:
innanzitutto l’adulto che non sale più in cattedra riconoscerebbe
implicitamente che anche per lui c’è sempre qualcosa da imparare; capirebbe che
anche diventati grandi mai si esaurisce la possibilità di migliorarsi, anche
durante tutto l’arco temporale della vita. Questa ipotesi di “dialogo
paritario” darebbe ai giovani la possibilità di riconoscere gli adulti come
interlocutori validi e credibili, togliendo loro quell’immagine di estremismo
vessatorio, di imposizione dall’alto, sempre attribuita.
Insomma, cari amici,
se i giovani si accorgessero che gli adulti sono disponibili a
gettare alle ortiche quell’aura di sacralità che da sempre li accompagna, ciò farebbe
emergere la possibilità di un dialogo “alla pari”, molto più consono tra persone
che si stanno confrontando. Come scrive Fabrizio
Boninu, psicologo e psicoterapeuta (in rete ho trovato molto interessante il
suo blog ‘Lo Psicologo Virtuale’), questa nuova posizione risulterebbe molto
importante, perché permetterebbe di superare lo stereotipo ‘adulto=esperto’. Senza dimenticare che il mettersi in
discussione, nel confronto con l’altro, è sempre un bene, perché permette di
interiorizzare un atteggiamento critico nei confronti di se stessi, tale da impedire
di sentirsi e comportarsi come un Guru, un gran maestro.
Cari amici, per
concludere voglio riportare (sempre tratto dagli scritti di Fabrizio Boninu)
un
passaggio dell’opera di Phillips, A., I no che aiutano a crescere,
Feltrinelli, Milano, 2009, che descrive molto bene quello che succede
all’interno della famiglia mentre si assiste alla crescita dei giovani membri.
E’ come se l’adolescente, col suo rapido mutamento e con la sua crescita
mettesse tutti i componenti di fronte all’ineluttabilità del tempo che passa.
Con tutto ciò che questo passare comporta. Ecco il “pezzo”.
“…Mostrare
che possiamo imparare da loro ha almeno tre funzioni. Innanzitutto li rende
consapevoli che hanno un contributo valido da dare. Questo accresce la loro
autostima e soddisfa il loro desiderio di dare qualcosa in cambio di tutto ciò
che hanno ricevuto. In secondo luogo serve a far capire loro, con l’esempio,
che non si è mai finito di imparare, che si possono sempre rinnovare ed
ampliare le proprie conoscenze. Questo dovrebbe favorire un atteggiamento
aperto e curioso verso il mondo. In terzo luogo, in un momento in cui stanno
facendo un balzo in avanti, li rassicura che i genitori non sono statici,
ancorati per sempre nello stesso posto. Alcuni adolescenti vivono con un senso
di colpa questo loro sviluppo che li porta a farsi carico di se stessi. Possono
preoccuparsi che i genitori siano gelosi o che manchino di vitalità, come se
fossero improvvisamente molto vecchi e rischiassero di essere lasciati
indietro. La loro capacità di cambiare e di crescere dà ai figli il via per
continuare liberamente nel proprio sviluppo. Rifiutando i genitori o cambiando
la percezione che hanno delle loro qualità, gli adolescenti provano un senso di
perdita, di tristezza perché non possono più fare riferimento a loro. Può
succedere che per un certo periodo di tempo si sentano persi e vuoti. Anche la
loro autostima ne risente. Se ciò che si è cercato di emulare non appare più
così positivo, ci si sente sminuiti. La maggior parte dei ragazzi superano
questa fase e riescono a vedere i genitori per quello che sono, con i lati
buoni e i lati cattivi. È la battaglia con l’ambivalenza, che continuerà per
tutta la vita. (Phillips,
A., I
no che aiutano a crescere, Feltrinelli, Milano,
2009).
Grazie, amici, della Vostra attenzione.
Mario
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