martedì, aprile 12, 2011

SARDEGNA: NELLA MILLENARIA TERRA DELL’OSSIDIANA TZIU DELFINO COLTIVA ORA L’AMARANTO, L’ANTICA "PIANTA DEGLI DEI" DEGLI INCAS, IL “KIWICHA”.

Oristano 12 Aprile 2011.

Cari amici,

colgo l'occasione di una notizia riportata oggi dal giornale l'Unione Sarda per parlarVi di un interessante fatto nuovo che mi ha piacevolmente sorpreso: un vecchio agricoltore della Marmilla ha messo a dimora nel suo terreno una pianta di antichissima origine sudamericana.

La Marmilla è terra di millenaria vocazione agricola. Un tempo ricco granaio dei romani le sue terre sono oggi, purtroppo, in gran parte abbandonate in quanto prive di quelle nuove tecniche di coltivazione capaci di restituirle economicità e reddito.
Da Gonnoscodina però è arrivata, proprio in questi giorni, una buona notizia. Beppe Meloni, noto giornalista attivo sull’Unione Sarda riporta, oggi Martedì 12 Aprile, una notizia apparentemente di secondo piano ma da leggere, invece, con attenzione.

Nel pezzo si legge che tziu Delfino Porcu, agricoltore di 74 anni che si guadagna da vivere lavorando in campagna, uomo saggio e ricco di un annoso bagaglio di esperienza, saperi e conoscenze, ha messo in atto nella sua campagna un esperimento che si è rivelato abbastanza interessante.
La sua curiosità lo ha portato ad uscire dal ‘solito’, a sperimentare nuove coltivazioni di sementi la cui peculiarità è riuscito a scoprire attratto dalle letture sugli indiani d’America. La sua curiosità gli ha fatto scoprire la serietà e capacità degli antichi indiani agricoltori che coglievano le erbe medicamentose conosciute con grande rispetto, utilizzandole solo quando della stessa pianta ne erano presenti almeno due esemplari per tutelare la specie; cosi come ha scoperto la produzione di cereali dotati di alto potere energetico, come la kiwicha, o amaranto ( Amaranthus caudatus L.), una dicotiledone annuale della famiglia delle amarantacee, originaria della regione delle Ande e coltivata fino ad altezze superiori ai 3.500 metri.
La coltivazione di questa pianta è di origine antichissima: semi di kiwicha sono stati rinvenuti in tombe pre -incaiche di oltre 4.000 anni fa. Un popolo nobile, quello andino, somigliante a quello dei nostri avi, che ha tramandato nei millenni la ricchezza delle conoscenze fondate sull’uso attento dei prodotti della terra.

Le sue curiose letture lo hanno portato a scoprire che questo cereale, la kiwicha, è oggi al centro di un grande progetto denominato "Progetto Amaranto”, nato per sostenere l’agricoltura autoctona, come alternativa alla fame nella provincia ‘Salta’, nella zona nord-occidentale dell’ Argentina . In questo povero ed affamato angolo del mondo, dove viene realizzato questo progetto, vivono 1.780 famiglie (10.000 abitanti circa) costituite soprattutto da piccoli coltivatori di razza meticcia-indigena che vivono in assoluta precarietà. La realizzazione di questo progetto creerà, forse, data la sua semplicità, un buon rimedio alimentaqre in una popolazione che manca anche dell’essenziale.
Spinto da queste notizie e curioso di provarne concretamente l’effetto, tziu Delfino ha introdotto la cultura di questo cereale nei suoi appezzamenti, sicuro che nei terreni della Marmilla, sciolti e sabbiosi, si sarebbe ritrovato a suo agio. Seminate a Settembre le piante di kiwicha hanno ben presto colonizzato il terreno, ergendosi, come canne maestose, colorate di rosso e cariche di semi. Saranno questi, numerosi e prelibati, che si trasformeranno in zuppe, panificazioni saporite e non lievitate, iperproteiche e capaci di ottima conservazione, dopo una lieve tostatura.
E’ quella di tziu Delfino una bella lezione per tutti i giovani del suo territorio e non solo. Se avranno la sua caparbietà, la sua saggezza, la sua curiosità, forse potranno uscire dall’attuale pantano del non lavoro e della disoccupazione. Consci che il più grande aiuto lo potranno avere solo da loro stessi, forse, inizieranno ad alzare orgogliosamente la testa e togliere i piedi dal fango dell’immobilismo.

Ora, dopo avervi parlato di un uomo intelligente, è giusto che conosciate meglio questa straordinaria e bellissima pianta: l’Amaranto o kiwicha.
L’Amaranto (Amaranthus caudatus L.), è una dicotiledone annuale della famiglia delle amarantacee. E’ una pianta brevidiurna, rustica, che può raggiungere i 2,5 metri di altezza a maturità. Originariamente coltivata in giardino per la bellezza delle sue infiorescenze rosse ( il rosso amaranto è una varietà del colore rosso), ha limitate esigenze climatiche, resiste alla siccità (cresce anche in presenza di solo 200 mm di pioggia), al calore (ottimo di temperatura: 21-28°C) e al freddo (resiste fino a 4°C). Preferisce i suoli sciolti, sabbiosi, con elevato contenuto di humus.
La semina, manuale o meccanica, avviene a partire da Settembre. La raccolta dei semi è manuale e l’essicazione avviene al sole.
Lunga è la tradizione che considera l’amaranto una pianta sacra.
Il nome Amaranto deriva dal greco amarantos e cioè “che non appassisce”. Di qui il significato attribuito ad esso dai Greci di pianta dell’amicizia, della stima reciproca e più in generale espressione di tutti i sentimenti veri che non dovrebbero mai cambiare con il trascorre del tempo, in quanto eterni e unici. Nella mitologia greca si narra che le Dee amassero essere festeggiate con ghirlande di amaranto; in tale contesto l’amaranto era dunque utilizzato per ottenere protezione e benevolenza. I romani attribuivano all’amaranto il potere di tenere lontana l’invidia e la sventura.

Nel periodo ’600-’800 l’amaranto veniva utilizzato per ornare vestiti e abiti, in quanto si pensava fosse in grado di donare benessere fisico. Il fiore di amaranto è simbolo dell’immortalità nella cultura occidentale. La sua bellezza eterna fu contrapposta a quella fugace delle rose dallo scrittore greco Esopo (ca 620 a.C.- ca 560 a.C.) nel breve componimento intitolato ‘La Rosa e l’Amaranto’, inserito nella raccolta di 358 ‘Favole’ a scopo morale.

Nel XXI libro del trattato botanico enciclopedico ‘Naturalis historia’, lo scrittore naturalista romano Plinio il Vecchio (23-79) spiegò di avere osservato che l’amaranto davvero aveva la peculiarità di non morire mai: raccolto per l'essicazione, riprendeva vita miracolosamente appena a contatto dell’acqua, anche se i fiori erano ormai diventati appassiti. L’immortalità dell’amaranto fu citata anche nel libro III del poema epico in versi sciolti ‘Paradiso perduto’ (‘Paradise Lost’) pubblicato nel 1667 dallo scrittore e poeta inglese John Milton (1608-1674). Per questo motivo, i Greci utilizzarono questi fiori sacri nei riti funebri, per ornare le tombe e le immagini degli dèi.

Nella mitologia greca, Amaranto, re dell’isola di Eubea e cacciatore amato dalla dea della caccia Artemide, fu da questa tramutato in fiore dopo essere annegato a causa di un’onda gigantesca scatenata contro di lui dal dio Poseidone, offeso dal suo sminuire di valore il mare. Nell’ellenismo pagano, la pianta di amaranto – così particolare per le infiorescenze a ricchi grappoli o a pennacchi e le foglie a pigmento dal rosso al porpora, al violaceo e al dorato – fu infatti sacra al Tempio di Artemide, ad Efeso, in Turchia, e gradite alle dee ghirlande di questi fiori.

Presso gli antichi Greci, l’amaranto rappresentò anche i sentimenti profondi e immutabili nel tempo, come quelli dell'amicizia e della stima reciproca, ma ricorsero a questa pianta pure per ricercare protezione e benvolere. I Romani la ritenevano capace di tenere lontana ogni invidia e sventura, di favorire le guarigioni – ponendo i fiori di amaranto sul capo come un cerchietto – e di annientare le emozioni negative come il mal d’amore.
Nei secoli XVII-XIX, si credeva che l’amaranto portato addosso sulle vesti inducesse benessere al corpo.
Originario e poi coltivato nella valle di Tehuacán, nello Stato di Puebla, nel sud-est del Messico, tra il 5200 e il 3400 a.C., l’amaranto – 'huauhtli' in azteco, 'bledo' in spagnolo, 'kiwicha' tra gli andini – fu uno dei prodotti alimentari di base delle popolazioni pre-colombiane. Inca, Aztechi, popoli nativi americani e messicani lo utilizzarono come verdura e per i minuscoli semi tondi commestibili (di colore chiaro nelle specie domestiche), molto appetibili e di facile cottura, ma anche fondamentale a livello culturale e religioso. Cibo usuale tra le popolazioni amerindie (Navaho, Apache, Pueblo, ecc.), i semi di amaranto venivano consumati mescolandoli con mais nero e acqua dagli Zuni per formare delle palline da appoggiare su una griglia di bastoncini fissati sopra una pentola di acqua bollente e cucinarli a vapore.
Tuttavia, per tradizione, i semi di amaranto venivano anche sparsi a terra dai sacerdoti per invocare la pioggia. I semi tostati ‘palomitas’ (colombine), che scoppiavano diventando croccanti sul fuoco, venivano macinati a farina dagli Aztechi per unirla a mais e miele e formare degli idoli di pasta (‘zoale’) che rappresentavano per lo più il dio della guerra 'Huitzilopochtli’ oppure gli dei del raccolto, della fertilità, dell’acqua; aspersi del sangue dei sacrifici umani, le figure impastate venivano divise a pezzi durante i festeggiamenti in onore delle divinità, distribuiti e consumati dal popolo in una cerimonia di comunione. A questo si ispira il dolce tradizionale Alegría che, nella ricetta originale, prevede l’impasto di semi di amaranto tostati, zucchero di canna caramellato, acqua e limone, ma prevede varianti come la sostituzione con miele o melassa come dolcificante e l’aggiunta di uva passa o di scaglie di cioccolato.
E’ diventato un popolare snack – a volte con l’aggiunta di riso soffiato – venduto dapprima in Messico, poi in Nord America e in parte dell’Europa mentre, nel nord dell’India, è un prodotto similare il ‘laddoos’ a base di ‘rajeera’ (amaranto) e miele.

Gli Aztechi consumavano anche l’amaranto fresco e la farina dei semi cucinata in ‘tortilla’. Durante la colonizzazione spagnola (1519), tutti i rituali religiosi indigeni e la coltivazione della pianta furono vietati come sacrileghi dai missionari cattolici europei. Così l’amaranto rimase coltivato soltanto in piccole aree remote delle Ande e del Messico; nell’800, venne modestamente utilizzato in Asia come fosse un cereale e in Africa come verdura a foglia mentre, a scopo ornamentale, come pianta cespugliosa da giardino, era già impiantato in Europa dopo il ‘700.

I semini di amaranto, simbolo della coltura alimentare e della cultura indigena, furono al centro di studi scientifici internazionali negli anni ’70 per l’eccellente composizione nutrizionale attestata. Dopo essere stato recuperata in Messico da varietà selvatiche, la coltivazione dell’amaranto a scopo commerciale si diffuse così in Messico, Sud America, Stati Uniti, Cina, Polonia e Austria. Alcune varietà di amaranto sono interamente commestibili. I germogli dei semi e le foglie fresche (anche dette ‘spinaci cinesi’) sono verdure da consumare crudi in insalata, se teneri, o da bollire (Caraibi, ecc.), da cucinare in minestroni misti, in umido (con riso in Sri Lanka), in frittura (Messico, Perù, Cina, India) oppure da essiccare per l’utilizzo come spezie.
In India, l’amaranto è un ingrediente in diversi piatti, tra i quali il ‘keerai masial’ a base di un purè di queste foglie bollite, saltata con peperoncino rosso, aglio, cumino, curcuma, ecc. nello Stato indiano di Tamil Nadu. La chiara radice di amaranto, gustosa per il sapore simile a quello dei latticini, viene cucinata con pomodoro o con succo di tamarindo, è molto gustosa e ricorda il sapore dei latticini. In Grecia, la ‘vleeta’ consiste nelle foglie di amaranto bollite, condite in insalata con cipolla tritata, olio di oliva, limone, ed è servita in accompagnamento alla frittura di pesce.
Le piante di amaranto rappresentano un foraggio di alta qualità per l’alimentazione animale e sono trasformabili in compostaggio fertilizzante per i terreni. I semi di amaranto, che si raccolgono scuotendo le cime delle piante più datate, si possono consumare crudi da freschi oppure essiccati e cucinati (dopo una brevissima tostatura, anche insieme a cereali integrali) come addensanti (zuppe, stufati) dal sapore delicato leggermente dolciastro, soffiati (merendine, croccanti), ridotti in fiocchi (muesli, pappe), macinati a farina (crepes, pasta o, mescolata a quella di altri cereali dato che non lievita per tortillas e prodotti da forno come focacce, pane, dolci, ecc.). In Nepal, i semi di amaranto sono cucinati in brodo (‘sattoo’) o macinati in farina per preparare i ‘chapati’.
In Messico, la popolare bevanda calda ‘atole’ è a base di farina di amaranto, latte, zucchero, cannella e vaniglia. In Perù, dalla fermentazione dei semi si ricava la birra; i fiori servono come colorante alimentare – già utilizzato dagli amerindi Hopi – e, per tradizione, per arrossare le gote alle donne prima di ballare nelle feste di Carnevale.
Dal punto di vista nutrizionale, i semi di amaranto coltivato sono un concentrato di nutrienti, una fonte vegetale eccezionalmente costituita da proteine complete fino al 16%-20% per l’elevato valore biologico di lisina (6,2%) – aminoacido essenziale di cui sono carenti tutti i cereali – e di metionina (2,3%), ma anche di minerali dietetici (calcio, ferro, fosforo, magnesio, manganese, rame, ecc.) oltre a fibre grezze (circa 8%), amido, lipidi (6%-10%) ad alto grado di insaturazione come l’acido linoleico e lo squalene, vitamine A e C a livelli significativi.
Il consumo di semi di amaranto, privi di glutine e altamente digeribili, è indicato nell'alimentazione delle persone affette da celiachia, da problemi digestivi e intestinali, e di bambini in fase di svezzamento, di convalescenti e di anziani; sono inoltre sono stati rilevati buoni benefici nelle persone affette da artrite, diabete, gotta e reumatismi, oltre che durante la gravidanza, ma non è ancora diventato un alimento tradizionale in Occidente.
Sono in corso studi di genetica, di etnobotanica e di agronomia per sviluppare l’amaranto nell'agricoltura moderna come pianta di grande valore economico e potenziale ‘raccolto del futuro’ a buon mercato, capace di migliorare la nutrizione e la sicurezza alimentare e di favorire lo sviluppo rurale in modo sostenibile tra i popoli indigeni delle aree rurali aride subtropicali e tropicali. In questo senso giocano a favore di questa coltura l'elevato valore nutritivo globale, la rapida crescita, l'alto tasso di produttività, l’efficienza idrica, la facile raccolta dei nutrienti semi commestibili, che richiedono una scarsa quantità di combustibile per la cottura.

Credo che basti, come informazione, per conoscere questa pianta straordinaria che io personalmente conoscevo solo per averla vista nei negozi di fiori, col suo bel pennacchio rosso…amaranto!

Grazie alla curiosità di un saggio contadino ora, anche in Sardegna, chi vuole può conoscere meglio e "coltivare" questa pianta dalle innumerevoli virtù. Dipende solo da noi studiare come utilizzarla.

Seguiamo chi…ci ha tracciato la strada!

Grazie Tziu Delfino Porcu!

Grazie a Voi tutti dell’attenzione.


Mario

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